Proseguendo la riflessione A più voci del numero precedente su Covid 19 e industrie dell’immaginario ma allargandone il campo per misurare gli Effetti della trasformazione digitale su cinema letteratura, spettacolo dal vivo, sport, consumi e comportamenti, la terza parte di questo fascicolo primaverile propone un articolo di Italo Moscati che si chiede per quali ragioni “Il cinema non c’è più? Perché?”. Lo scrittore, sceneggiatore e regista compie un rapido volo d’uccello su quella che definisce nell’occhiello “La parabola del cinema italiano dalla Hollywood sul Tevere al vuoto dei giorni nostri”. Il volo parte con lo sbarco degli Alleati, dal neorealismo di Rossellini, De Sica, Visconti e De Sanctis agli “arrivi in massa da Los Angeles e dintorni” dei film americani, prima di affrontare “come una favola, la Hollywood sul Tevere, quando “il cinema americano con i suoi capi militari disse chiaro al cinema italiano convocato a Cinecittà – “liberata” dai senza tetto e dai profughi – che al cinema italiano ci avrebbero pensato loro e così fu. Un periodo, anzi un’epoca di molti anni, almeno dal 1950 al 1980 che finì quando gli ospiti non si divertivano più” – constata amaramente Moscati – “La fine, lunga fine degli anni del Novecento smascherò una situazione di vuoto […]. Un nodo andò in frantumi. Un nodo di silenzi e di progetti improvvisati, di iniziative deboli o addirittura fragilissime. Un gioco che a poco a poco si affievoliva e si mostrava sempre più debole nella presentazione dei temi, delle storie, delle risorse”. Per Moscati “l’ultimo tentativo di reggere una situazione che si è fatta confusa e complicata” è stata quella che definisce “La “commedia italiana”, definita per svalutarla in “commedia all’italiana”, costituiva con autori come Dino Risi, Luigi Comencini, Mario Monicelli e altri, una nuova generazione perplessa e sospettosa, capace di una denuncia anche violenta, profonda”. Il volo si conclude su quella che definisce “La disperata crisi attuale: ripetizione, scarso senso di ricerca, indeterminatezza del racconto” in cui “Il cinema, sempre italiano, si trascina sperando nel buio. Compaiono stelle che compaiono ma quasi subito scompaiono o si ritirano”. Confrontandolo con l’esperienza avuta negli anni Settanta sceneggiando il Portiere di notte in cui “Volevamo raccontare una storia forte e nuova” quasi mezzo secolo dopo troviamo “Un cinema fragile ripetitivo che non sa più cosa siano senso della ricerca e del racconto […] C’è bisogno di un cambiamento”. Dura, amara, la sentenza finale: “Il cinema ha bisogno di film capaci di liberare grandi storie, grandi passioni, grande sensibilità. Oggi, invece, la produzione cinematografica sta lentamente riducendosi e abbassando i suoi obiettivi. Nel passato, il cinema pescava nella vita, ritrovava stile e contenuti. Il cinema odierno, ridotto a contenitore di vuoto, è il segnaleche il suo valore si sta spegnendo”.
Non ho nulla contro la definizione che scivola via con malignità e verità da molti anni: “Il cinema non c’è più”. E’ la semplice, onesta verità.
Non penso di rifare l’itinerario dell’Italia dopo il Fascismo e prima della Italia Liberata, grazie alla vittoria degli Alleati-Salvatori, gli eserciti sbarcati nel nostro Paese, e l’azione della Resistenza.
In tre parole Fascismo, Vincitori e Salvatori, Resistenza, si riassume la storia alla meglio. Il cambiamento è stato forte, desiderato, poco dopo le sconfitte italiane, plasmato in pochi mesi.
Con alcuni film neorealisti, alcuni dei quali bellissimi, capaci di commuovere l’italoamericano Martin Scorsese che vide La dolce vita di Federico Fellini quando uscì sul finire degli anni Cinquanta, e disse che il film e il suo regista avevano cambiato il cinema, non solo il cinema italiano, tutto il cinema nel mondo sul modello: guerra vinta e passioni democratiche. Andava contro la mascherata italiana di innocenza nella menzogna e nell’opportunismo.
Scorsese diventò con Pier Paolo Pasolini la persona che bollava doppiezza, menzogna, volgarità, ozio, violenza. Ovvero la comicità allegra e raffinata di attori registi come Vittorio De Sica, Luigi Co-mencini, Mario Monicelli ma non solo, diventò non lentamente la ultima versione di un cinema cinema, capace di denuncia e di amara ironia. I film felliniani erano la svolta da additare al mondo. Lo stesso Scorsese si ispirava a quel che diceva e non era solo un complimento. I suoi film nella sua terra americana risentivano dopo non solo dei film felliniani ma soprattutto di altri film come Roma città aperta di Roberto Rossellini e Sciuscià di Vittorio De Sica, e altri. Una cosa giusta.
Con l’aprile 1945, fine della guerra; e la gente in piazza a cercare pace, libertà, cibo, giustizia. Il cinema svegliava dagli incubi e aveva trovato i paladini di una svolta.
Accadde da subito che la vittoria degli Alleati americani, inglesi, truppe polacche, reparti africani rimase galleggiando sull’Italia che non aveva più il cinema del fascismo con Cinecittà chiusa nel 1943 e aveva altri neorealisti come autori lussuosi come Luchino Visconti con Ossessione, Giorni di gloria, La terra trema; e un trentenne di nome Giuseppe De Sanctis che nel 1949 fece Riso Amaro. Tutti titoli che meritavano di essere incorniciati e rimanere lì, a far gloria, sventolare bandiere e parole, cercare di capire ciò che l’Italia e gli italiani “dovevano” fare, imparare. Con ispirazioni sincere, sperare di poter raccontare un nuovo paese.
Subito, come una serpentina, fra le pellicole, altre pellicole sgorgavano da lontano; arrivi in massa da Los Angeles e dintorni. Invii continui. I film americani, fermati ai confini italiani dai fascisti, finalmente passavano. La grande Roma della storia e della tradizione era accarezzata per la sua arte, la sua civiltà di potere nei secoli anche esportata.
Dall’”amico americano” e la favola della Hollywood sul Tevere alla lunga fine degli anni del Novecento passando per la “commedia italiana”
Senza farla lunga, il cinema americano con i suoi capi militari disse chiaro al cinema italiano convocato a Cinecittà – “liberata” dai senza tetto e dai profughi – che al cinema italiano ci avrebbero pensato loro e così fu. Un periodo, anzi un’epoca di molti anni, almeno dal 1950 al 1980 che finì quando gli ospiti non si divertivano più.
Cominciò, come una favola, la Hollywood sul Tevere.
L’America in massa aerea venne da Hollywood per rifondare il cinema e riformare Via Veneto, furono anni formidabili, anni coccolati con tanti film ispirati alla storia romana e al suo marchio, appassionanti. Divi e costumi della grande Roma e del suo Impero.
Cominciò un nuovo cinema italiano che decise di essere italiano e che imparò a fare i kolossal del cinema americano meglio degli americani con il nostro grande Sergio Leone il regista della corsa delle bighe mai nominato nei titoli di Ben-Hur.
Fu una lezione che non insegnava niente e a nessuno. Il cinema italiano adorava quello americano al punto di introdursi nel clima delle produzioni e della loro cornice. Ma il cinema americano sui romani, il loro potere, non aveva più nulla da spremere. Cinecittà rimase a poco a poco sola nella sua solitudine di produzioni incapaci di resistere a una attività che aveva stancato, aveva chiuso il suo museo sulla romanità.
La fine, lunga fine degli anni del Novecento smascherò una situazione di vuoto che era insinuata nella realtà di lento allontanamento. La “dolce vita” aveva usato Roma e le sue meravigliose favole. Un nodo andò in frantumi. Un nodo di silenzi e di progetti improvvisati, di iniziative deboli o addirittura fragilissime. Un gioco che a poco a poco si affievoliva e si mostrava sempre più debole nella presentazione dei temi, delle storie, delle risorse.
La ripresa di Cinecittà era stata affrontata con genericità, quasi con malinconia.
Il nostro cinema era stato costretto per non annegare a rispolverare la “commedia italiana” o “all’italiana”, con attori geniali, con registi ancora giovani e capaci di andare veloci, originali; curiosi di Roma che cambiava, di una capitale lenta e tardiva nel trovare soluzioni all’altezza dei tempi, alla curiosità e alla intensità che aveva cominciato a costruire una terribile macchina di denuncia: contro una borghesia ricca, al centro delle speculazioni edilizie; con una piccola borghesia che si specializzava nella volgare messa in scena della vita in bilico fra gangsterismo provinciale e fascinazione erotica. Ladri, corrotti e corruttori, macchiette e falsari, specialisti di una sintesi.
La “commedia italiana”, definita per svalutarla in “commedia all’italiana”, costituiva con autori come Dino Risi, Luigi Comencini, Mario Monicelli e altri, una nuova generazione perplessa e sospettosa, capace di una denuncia anche violenta, profonda. Fu l’ultimo tentativo di reggere una situazione che si è fatta confusa e complicata.
Gli autori appena citati sono gli ultimi che hanno retto, e aiutano a capire il vuoto creativo del nostro cinema che si sfinisce in proposte fragili, sempre più deboli… E qui si presenta la realtà attuale.
La disperata crisi attuale: ripetizione, scarso senso di ricerca, indeterminatezza del racconto
La crisi è disperata e la reazione è più disperata ancora. Il cinema (italiano) lo è ma il suo destino non sta nelle mani o nelle menti di chi se ne occupa. Sta in una vicenda non occulta, anzi, ma riservata, con poche risorse, di iniziative e pochi orizzonti, con un tasso di creatività che premia pochi autori e tra essi la sorpresa.
Il cinema, sempre italiano, si trascina sperando nel buio. Compaiono stelle che compaiono ma quasi subito scompaiono o si ritirano.
Una di queste è Paolo Sorrentino, che ha conquistato un Premio Oscar con La grande bellezza in cui i suoi occhi, si sono spalancati su un omaggio a Fellini e alla sua figura, al suo mondo che continua ad essere il nostro.
Sorrentino è un bravo regista e si muove anche nello spazio, fra cinema e tv, fra “Il divo” dedicato a Giulio Andreotti, ovvero la politica del passato: un bilancio sarcastico, violento, tra scorci, sublime di ricordi e malinconie. E Loro, un altro film di Sorrentino in punta di piedi su Silvio Berlusconi che temeva lo scandalo. Lo scandalo non c’è stato , non c’era perché Loro è subito scomparso, come un fossile anticipato, delicato, dedicato al suo eroe che ha archiviato il film, per sempre mancato. Silvio capace di superare in questo caso reazioni, commenti, proteste, uscendo vincitore nel silenzio.
Il caso Sorrentino e il serial di Papi su Sky
Sorrentino veniva da uno “scandalo” che non c’è stato. Con The Young Pope e un secondo… Papa. Un serial di Papi. Non somiglianti. Ostinatamente. Un doppio e triplo diverso Papa nel tempio di una televisione privata, visto e quasi dimenticato, come non si volev, da produttori e regista.
In questo caso di inserimento di una grande televisione privata, si è manifestata una nuova situazione.
La vecchia guardia del cinema italiano ha chiuso la lunga teoria di proposte di “commedie” con le opere del grande Ettore Scola, l’ultimo protagonista di una stagione di successi sciolti nella spietata rappresentazione di un Paese che stava ripiegando in una svolta tra malinconia e rabbia, da C’eravamo tanto amati (1976) a La giornata particolare (1977) e La terrazza (1980).
Intanto, è affiorato Checco Zalone, un nuovo protagonista, campione di incassi, di revival comici, dialetto pugliese ultimo arrivato delle lingue comiche o meno comiche del nostro cinema.
Sorrentino napoletano e Zalone hanno diviso, condiviso, una ampia presenza nel cinema e in televisione, a caccia di successo, con temi più presenti nella stampa di rivelazioni e scontri.
Concorrenza e invasione degli spazi per le riprese a poco a poco si sono ridotti. Il cinema vive in uno splendido isolamento. Cinecittà anima iniziative di vario tipo, con spazi che hanno occupato zone alternative, molto reclamizzate, con uno stile di luogo di iniziative culturali e mostre.
E’ ormai lontanissima la fascinosa realtà con grandi teatri per le riprese, lo stabilimento vive di ricordi. Ma non è più quel che era prima e dopo la guerra, quando c’era la Hollywood sul Tevere.
E’ uno scenario che sta avanzando anche con iniziative venute da fuori dei confini nazionali, ma non tali da suggerire, praticare soluzioni alternative dei film e delle trasmissioni che vogliono entrare, come è avvenuto ormai da tempo, nel cinema per conquistare nuove platee con iniziative in sviluppo.
Quanto spazio occuperanno? Quanto tempo impiegheranno a “tornare al cinema” i grandi successi, iniziative, sviluppo, modi narrativi nuovi? La situazione è in corso e in corsa. Ma una epoca è lontana nel tempo; quella degli italiani nel dopoguerra che hanno segnalato con Cinecittà e con produttori privati (Aurelio De Laurentiis, Carlo Ponti, …).
Il campo degli interventi si sta aprendo. A velocità metodica, felpata. E’ una tattica che viene regolata da un movimento che non deve allarmare, anzi deve dimostrare che l’ingresso sta avvenendo nelle regole e nello sviluppo delle tendenze che compaiono nel cinema non solo italiano ma che non sono a portata di collaborazioni internazionali.
La situazione sta maturando con obiettivi svelati lentamente ma con sicurezza, fra trattative e silenzi tattici. I passi nel domani marciano dappertutto. La gara si scatenerà nella concorrenza.
Il pubblico si sta abituando al pluralismo di modi di visione che aumenterà a seconda dei servizi e delle occasioni che si stanno formando, nel girone dell’intrattenimento e dello spettacolo, per cui tutti dovranno sapere di fare ogni cosa.
Bisognerà ritrovare un domani, tutto un domani, con ritmo veloce.
E’ in viaggio e basterà attendere per vedete segnali più netti dei concorrenti e dei loro mezzi pratici. E’ avvenuto, ma avverrà ancora, sicuramente che il nostro Paese inventi una televisione nuova, novità di valore e invenzioni.
La televisione – pubblica e privata – guarda al futuro, si muove lentamente.
Un cinema fragile ripetitivo che non sa più cosa siano senso della ricerca e del racconto
Per il cinema la situazione ha bisogno di riconvertirsi, servono registi e commissioni estere. I talenti del cinema si contano a stento. C’è bisogno di un cambiamento. La situazione non produce novità.
Nell’anno del virus lo sforzo di produrre e lavorare esiste nonostante tutto, ma solo per aggiustamenti (in Rai con conferma su larga scala). Ma il problema è di tutti.
Anche i più bravi si arrampicano sugli specchi, sugli schermi. Serve fantasia, ma serve un altro clima. Cercare il futuro.
Il cinema sta per essere inghiottito dalla televisione con poche novità.
Quel che sta nascendo, comincia ad affiorare con sforzo, ricorda quel che avviene ogni giorno: una sorta di inclinazione verso la televisione di obblighi formali immagini e verbali totali, la miseria della comunicazione.
Quando ho lavorato alla sceneggiatura de Il Portiere di notte (1974) con Liliana Cavani, il cinema italiano era in una fase attiva. Volevamo raccontare una storia forte e nuova. Sui massacri nazisti. Ci domandammo come fare. Le immagini tremende dei campi di sterminio erano già state “usate” e “abusate” in tanti film, in tv e sulla stampa. Quei nazisti, a guerra finita, cercavano di “essere” degni di giustizia nel film girato a Vienna, tardi anni Cinquanta, i nazisti cercavano di salvare se stessi, e di rivelarsi, farsi riconoscere di “non” essere colpevoli.
Squillò un allarme. La sfida di due amanti, un ufficiale tedesco e una donna fra gli ebrei che non volevano aderire alla loro richiesta, volevano amarsi, li uccisero su un ponte, I “mostri” nazisti restano mostri, impongono le loro menzogne, cercano complici. Per uccidere.
Un finale che colpisce, spinge a cercare, capire la eterna tentazione del potere e della violenza a dominare la scena, anzi le scene di vita, di praticare le sue “strade” trasformandole in obblighi con le sue retoriche banali, ripetitive, insignificanti, contro i fatti e i sentimenti, le passioni, e le risorse di un destino non chiuso nella banalità contro la fantasia.
Voglio dire che le attese del pubblico si stanno integrando nell’abitudine obbligatoria, sempre più scarsa, un’altalena preoccupante, una resa alla genericità e alla mancanza di una ricerca non significativa.
L’episodio de Il Portiere di notte funzionò, il film è stato, è ancora un grande successo.
Il cinema ha bisogno di film capaci di liberare grandi storie, grandi passioni, grande sensibilità. Oggi, invece, la produzione cinematografica sta lentamente riducendosi e abbassando i suoi obiettivi. Nel passato, il cinema pescava nella vita, ritrovava stile e contenuti. Il cinema odierno, ridotto a contenitore di vuoto, è il segnale che il suo valore si sta spegnendo.
Il cinema c’è ancora, vale la pena pensarci. La televisione ha ancora bisogno del cinema e crescerà se il cinema continuerà a cercare nel mondo e nelle persone. E viceversa.