Stefano Rolando interviene con un terzo contributo con il titolo “Identità nazionale. Cioè?” sul tema “nazione e patria” affrontando come recita l’occhiello “Riflessioni ed analisi sulla espressione “Identità Nazionale” come cornice ideologica del governo”. “Il potere politico ha perduto nessi profondi e prioritari con la cultura e la filosofia stessa della politica. Questo produce – osserva Rolando – una caduta verticale del ruolo interpretativo, sempre più affidato al pugilato digitale, a tre righe sui social con poche analisi meditate e proposte fondate su ricerca.Gli stessi partiti politici, che a parole si candidano ad animare il dibattito su chi rappresenta meglio l’identità nazionale, riproducono troppe volte più etichette del Novecento che analisi del terzo millennio. Restano così atrofizzati dal punto di vista partecipativo […] e, fino alle ultime demoscopie, restano marginali nella fiducia dei cittadini che confermano per metà dell’elettorato un astensionismo di disaffezione senza precedenti. Nelle narrative messe in campo dagli apparati a destra ogni giorno esplodono rigurgiti che si riconducono ad un’idea di Nazione sostenuta dalla retorica dannunziana, combattentistica, autarchica, primatista, talora anche razzista non tanto diversa da quella che un secolo fa ha preso in mano le redini dell’Italia in forma autoritaria cancellando libertà e istituzioni democratiche. Rigurgiti che ogni giorno i difensori del governo Meloni – si direbbe anche danneggiato da queste “voci dal sen fuggite” – debbono delegittimare, citando […] questa o quella fase della premier che dimostra l’esistenza di un pensiero cambiato. Nel vasto alveo di una sinistra che ancora nel suo insieme appare come un calderone sono vive le retoriche di un Novecento ambiguo rispetto alle culture delle riforme, insieme a nuovi radicalismi secondo cui il “vogliamo tutto e subito” è meglio che la pazienza della trasformazione programmata e sostenibile. Qui l’idea di Nazione ha perso le connotazioni culturali gramsciane ma anche quelle del federalismo liberaldemocratico (che superava nell’armonizzazione delle autonomie il rischio dimostratosi verità della trasformazione dell’idea di Nazione in Nazionalismo). Provando ora, spinta dal cambio del gruppo dirigente del partito di maggiore responsabilità all’opposizione, a cercare il bandolo di un pensiero più adeguato alla modernità, ma rischiando ogni giorno di essere contraddetto sia dai ras locali cioè dalle clientele (su cui è in atto un avvio di contrasto) sia dalla condizione confusa di una lotta prodotta dal professionismo di una piccola casta paga dei posti che la rappresentanza concede”.
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La sommatoria del tam tam su patria, nazione e identità nazionale con l’aggiunta del convegnone governativo su Pensare l’immaginario italiano, mi hanno indotto a pensare a mia volta (e se permesso a mio modo) all’immaginario italiano. Nelle ambiguità del presente, in cui il problema di rifare identità e (tra virgolette) cultura, sia a destra che a sinistra, da un lato cerca la coperta della Nazione (prevalendo la matrice del vecchio nazionalismo) e dall’altro lato occupa spazi di un certo radical-sinistrese nel pericoloso abbandono di un lessico che dovrebbe invece essere ripensato progettualmente al futuro e soprattutto con gli occhi (preoccupati) all’Europa.
La pista Draghi sugli interessi nazionali appare in questa polarizzazione strumentalmente abbandonata da tutti.
L’immenso astensionismo lascia votanti che mantengono, i più, rapporti con i partiti. E i principali partiti, contando quasi solo sugli affezionati, si polarizzano. Alla faccia degli interessi della Nazione. E senza perdere neanche un minuto sulle cause dell’astensione crescente.
Patria e nazione: come ho cercato di dimostrare nei miei due pezzi precedenti, la destra al governo metteva, come mette, queste due parole, antiche ma legittime, a cornice ideologica dell’agenda, mentre la sinistra, pur con radici risorgimentali e resistenziali, le ha fatte uscire dal suo lessico abituale. Dunque, con una vera esigenza per tutti di ripensamento al rapporto tra passato e presente per indagare aspetti obsoleti e aspetti vitali di queste espressioni.
Ora la cosa rimane così, diciamo asimmetrica. Ma esplodono casi (che in vista del 25 aprile saranno concatenati) in cui a destra (considerate le tante fonti che hanno diritto o voglia di parlare) crescerà l’interpretazione nostalgica di quelle parole; e a sinistra sarà più forte la pulsione polemica sull’immediato (perché il ritorno della politica al centro delle istituzioni viene interpretato come la riaffermata priorità per il pugilato, che crea visibilità fingendo molte volte di occuparsi di veri problemi e sviando rispetto a responsabilità della politica stessa). Ma in sostanza nessuno farà autocritica.
Gli uni per mantenere accese tracce post-fasciste che, nelle immancabili smentite, vengono liquidate, come sempre, perché c’è una frasetta da qualche parte di Giorgia Meloni che lo spiega.
Gli altri per ritrovare la via della visibilità mediatica molte volte in assenza di adeguate centralità di proposta sociale ed economica sulle priorità del Paese e dell’Europa.
La tesi che dovrebbe sorreggere l’importanza di questa discussione in realtà è semplice.
Entrambe queste posizioni non dovrebbero rispolverare vecchi copioni, ma cercar di vedere se la rigenerazione dei partiti politici (supposta e non certificata, dopo le elezioni del 25 settembre che pure hanno portato a cambiamenti e novità) porti con sé una profonda rigenerazione anche dei significati del lessico elementare.
Perché in particolare le parole Patria e Nazione insieme a quella ancora più ricorrente di Identità nazionale (di cui parliamo oggi) debbono essere a loro volta rigenerate.
E cioè verso una modernità che forse è difficile da interpretare ma che serve a misurare quanto sono capiti e governati i grandi cambiamenti geopolitici, sociali, migratori, di ibridazione delle comunità e dei territori, di rapporto con il controllo o la perdita di controllo dell’economia competitiva, di confini reali delle condizioni di sicurezza, di rapporto con la globalizzazione e le sostenibilità.
Partire da un certo realismo su questi punti critici aiuterebbe a fare emergere capacità (ove ci fossero) ad esprimere questa assoluta necessità.
Cioè quella di partire proprio dall’identità nazionale per spiegarla – a tutti – alla luce dei mutamenti profondi che non da oggi i poteri in campo celano perché mancano molti presupposti per governarli.
Prima voce di analisi: l’economia è come fosse sulle cose principali “passata di mano” nel percorso dall’economia reale e territorializzata a quella finanziaria e globalizzata.
Il potere politico ha perduto nessi profondi e prioritari con la cultura e la filosofia stessa della politica. Questo produce una caduta verticale del ruolo interpretativo, sempre più affidato al pugilato digitale, a tre righe sui social con poche analisi meditate e proposte fondate su ricerca.
Gli stessi partiti politici, che a parole si candidano ad animare il dibattito su chi rappresenta meglio l’identità nazionale, riproducono troppe volte più etichette del Novecento che analisi del terzo millennio. Restano così atrofizzati dal punto di vista partecipativo (ora con sprazzi prodotti da cambiamenti di leadership che possono preludere a rigenerazioni) e, fino alle ultime demoscopie, restano marginali nella fiducia dei cittadini che confermano per metà dell’elettorato un astensionismo di disaffezione senza precedenti.
Nelle narrative messe in campo dagli apparati a destra ogni giorno esplodono rigurgiti che si riconducono ad un’idea di Nazione sostenuta dalla retorica dannunziana, combattentistica, autarchica, primatista, talora anche razzista non tanto diversa da quella che un secolo fa ha preso in mano le redini dell’Italia in forma autoritaria cancellando libertà e istituzioni democratiche.
Rigurgiti che ogni giorno i difensori del governo Meloni – si direbbe anche danneggiato da queste “voci dal sen fuggite” – debbono delegittimare, citando, come ho detto, questa o quella fase della premier che dimostra l’esistenza di un pensiero cambiato.
Nel vasto alveo di una sinistra che ancora nel suo insieme appare come un calderone sono vive le retoriche di un Novecento ambiguo rispetto alle culture delle riforme, insieme a nuovi radicalismi secondo cui il “vogliamo tutto e subito” è meglio che la pazienza della trasformazione programmata e sostenibile.
Qui l’idea di Nazione ha perso le connotazioni culturali gramsciane ma anche quelle del federalismo liberaldemocratico (che superava nell’armonizzazione delle autonomie il rischio dimostratosi verità della trasformazione dell’idea di Nazione in Nazionalismo).
Provando ora, spinta dal cambio del gruppo dirigente del partito di maggiore responsabilità all’opposizione, a cercare il bandolo di un pensiero più adeguato alla modernità, ma rischiando ogni giorno di essere contraddetto sia dai ras locali cioè dalle clientele (su cui è in atto un avvio di contrasto) sia dalla condizione confusa di una lotta prodotta dal professionismo di una piccola casta paga dei posti che la rappresentanza concede,
È vero che l’ascesa alla guida dei due maggiori partiti politici di due donne giovani e determinate è un fattore di potenzialità.
Ma è anche vero che ci sono elementi di preoccupazione sui rischi delle derive che provengono dall’insufficienza profonda creata da venti, trenta anni di populismo, in cui tra l’altro l’area intermedia – tra destra e sinistra – pare oggi popolata da partitini esausti per sfinimento tattico (siano essi a rappresentanza cattolica, socialista, radicale, liberale o altro) senza aver raggiunto nessuna visione, nessuna rielaborazione adeguata alla portata delle sfide. Colpisce l’affermazione di questi giorni di un esponente di questo “centrismo” – spesso autolesivo ma altrettanto spesso dotato di intelligenza – che è Matteo Renzi che dichiara uno “stop” personale per “andare a cercare una narrativa spenta che va rigenerata”.
Se pensiamo a uno dei punti chiave dell’idea di Nazione e dunque dell’identità nazionale su cui si sono espressi conflitti di idee per due secoli – cioè la disunità d’Italia, il conflitto nord e sud, malgrado le grandi migrazioni interne e un turismo nazionale che tiene viva la conoscenza mutua dei territori – dovremmo avere in campo oggi un’idea forte sul senso di questa contraddizione all’interno della logica nord-sud globale. Facile a dirsi, difficile ad ascoltarsi da parte di chi ha anche la responsabilità di agire su quel divario.
Le tre sequenze fotografiche che stanno alle spalle di questo momento sono illuminanti circa la difficoltà di governare con modernità, adeguata istituzionalità, fedeltà costituzionale ma contenuti alla portata reale delle sfide internazionali del presente il tema di come rimodellare il principio di “identità nazionale”.
Che – va detto con chiarezza – non significa né affermarla in modo vacuo e senza contenuti adeguati, né negarla in nome di ideologie in disarmo.
La prima fotografia è quella che instaura nel 2021 il governo di emergenza sulla conclamata emergenza politica di partiti non più in condizioni di compiere scelte di garanzia rispetto al governo del paese. Si costituisce non un governo tecnico ma un governo di emergenza retto dalla fiducia del Parlamento per assicurare una priorità decisionale attorno agli interessi nazionali preminenti (un modo per assegnare un tassello definito al tema identità nazionale). Il contrasto alla pandemia, la riorganizzazione del rapporto con l’Europa, la messa a terra di progetti per gestire la crisi economico-occupazionale e soprattutto le cinque maggiori transizioni del nostro tempo.
La seconda fotografia è quella del disarcionamento di quel governo prima della fine della legislatura per una fregola diffusa di considerare più importante quello che viene chiamato “il ritorno della politica” al governo, facendo credere che il governo Draghi fosse un governo “tecnico”. E a questa fotografia è legata la sequenza dello scontro continuo – parlando di identità nazionale – tra etichette novecentesche per inscenare dispute che la Costituzione del 1948 ha chiuso con alta definizione dei perimetri ideali.
La terza fotografia – non va negata – è legata al portato della polarizzazione tra le due giovani leader dei maggiori partiti in campo.
Ma una – Giorgia Meloni – sta spingendo per assegnare al governo della Nazione il compito primario di riformare prima dell’economia, del mercato del lavoro, delle infrastrutture la testa degli italiani, nel senso del loro pensiero culturale e civile secondo l’etichetta antica dell’ideologia chiamiamola così dei “Conservatori”. Ciò che Luigi Manconi ha definito:
“Messaggi morali che pretendono di intervenire sulla soggettività personale, condizionando stili di vita e forme di relazione, consumi e preferenze. In tal modo l’autorità pubblica intende interferire con la vita delle persone, determinandone le scelte fin nella sfera più intima. Emerge così un orientamento che porta inevitabilmente verso lo Stato etico. Detto questo la proposta di un indirizzo di liceo orientato sul made in Italy, se non nascondesse retropensieri ideologici, dovrebbe essere materia su cui discutere”. [1]
L’altra – Elly Schlein– sta cercando ora il bandolo per recuperare l’identità della sinistra più che l’identità nazionale, con l’obiettivo a breve di sostenere la vocazione di opposizione rappresentata da quel partito e il rischio di marginalizzare l’impianto di concreta alternativa che in Europa la sinistra deve esprimere come “sinistra di governo”.
In entrambi i casi siamo lontani da immaginare che la rielaborazione del modello di identità nazionale (quindi la modernizzazione necessaria sia dell’idea di Patria e dell’idea di Nazione) siano alle porte con una connotazione che – per i Conservatori (per ora più di nome che di cultura) e per i Progressisti o Riformatori (per ora confusi e in mare aperto) – si affida più a vecchie diatribe che a nuovo sentimento di ricerca e di progettualità.
Annoto qui per gli interessati che cominciano ad esserci materiali interessanti per ragionare meglio sul percorso identitario segnalato dai cambiamenti dei partiti, almeno alcuni partiti.
Per esempio, lo studio accurato promosso dall’Istituto Cattaneo, curato da Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia – Il partito della destra Nazional-Conservatrice[2].
E sull’altro fronte il n. 1/2023 della rivista Il Mulino (in questo caso stesso ceppo editoriale), diretta da Mario Ricciardi, interamente dedicato a “Che ne è della sinistra?”, non solo quella italiana ma anche quella europea e anche un po’ fuori dell’Europa (per esempio, Israele).
Con ciò aspettiamo di vedere nei dettagli lo svolgimento del 78° Anniversario della Liberazione, cioè la festa nazionale del 25 aprile, per capire se si farà qualche ulteriore passo indietro – cioè, sia chiaro, indietro rispetto alla Costituzione – o si accenderà qualche piccola luce nel presepio consumato che il disarcionamento del governo Draghi e del suo esprit républicain hanno riadattato a beneficio delle dimagrite cronache dei nostri media.
Ecco, se avessi voluto fare un tweet anziché tentare di esporre un ragionamento, sarei partito da quest’ultima battuta per limitarmi a dire tre cose in croce.
Con Mario Draghi le istituzioni (sinergia del Quirinale compresa) hanno provato a mettere in campo spunti di aggiornamento, nel solco costituzionale, dell’identità italiana. Insufficienti magari, ma in quella direzione.
Giorgia Meloni pone il tema, ma offre spunti in cui prevale la riedizione nazionalistica di questa identità.
Elly Schlein non pone per ora il tema ed è alle prese intanto con il cantiere dell’identità della sinistra.
Cinquestelle ha una memoria storica marginale. E quanto al Terzo polo, sul tema, con l’eccezione della replica di Matteo Renzi all’insediamento della Meloni, non appare sul tema.
Il convegno Pensare l’immaginario italiano. Stati generali della cultura di destra
Qualche accenno infine al convegno Pensare l’immaginario italiano (titolo piuttosto bello e con varie ambiguità) promosso da fondazioni, riviste e operatori culturali che ruotano strutturalmente attorno al Partito Fratelli d’Italia e in particolare attorno al Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, così da evitare formalmente la responsabilità organizzativa del governo ma assicurando la sostanza di un evento robustamente governativo per mettere in campo argomenti, candidati e messaggi politici di un progetto esplicito e manifesto: al cuore della politica culturale, l’identità nazionale. Hotel del convegno scelto con cura, tanto che si chiama Hotel Quirinale.
La contraddizione dell’evento mi pare questa: cavalcare rapidamente in realtà il consolidamento dell’identità della destra, che è il problema numero uno ( tanto che il sottotitolo è lampante: Stati generali della cultura di destra) ; agire per l’ altrettanto rapido turnover di ogni spazio, nominabile dal governo, nelle infrastrutture del sistema cultura, comunicazione e spettacolo, che è il problema numero due (nel corso degli anni, sia chiaro, oggetto di stratificazioni, dipendenti dalla trasformazione politica, con una piuttosto evidente marginalizzazione di esponenti della destra-destra), ma fare ciò proponendo la linea della cultura della Nazione”, cioè facendosi carico loro di temi, autori, percorsi e approcci che nel tempo della loro lunga opposizione erano il Pantheon dei nemici ( e che per giunta i “ nemici” ora non nominano quasi più).
Ed è dunque lo stesso ministro della cultura a decidere chi va citato e chi non va citato in questa prospettiva. I giornalisti che ne hanno scritto sono restati colpiti (io e altri, credo, un po’ meno) dalla citazione di Antonio Gramsci, Benedetto Croce e Vincenzo Gioberti, in realtà un abile mix di sinistra e centro che avvalora un progetto nazionale governato da destra.
Il tema in politica è chi guida e chi sceglie.
La seconda problematica – che troverà chiarimenti cammin facendo – riguarda la mia perplessità, poco fa qui richiamata. L’identità nazionale promossa dalla destra ora al governo o si nutre di chiari e credibili contenuti che riguardano i conflitti del presente e le incertezze globali del futuro o finisce a ricorrere e cedere sui temi nostalgici.
Il ministro Gennaro Sangiuliano e il presidente della commissione cultura della Camera Federico Mollicone si limitano all’annuncio: non diteci che abbiamo gli occhi indietro, noi guardiamo al futuro.
Io non dico altro, dico solo che si capirà.
La kermesse naturalmente ha avuto il tutto esaurito degli eventi che respirano l’aria prodotta dai cambi reali di potere. Qualcuno ha scritto di un gran via vai di biglietti da visita. Blue jeans lasciati a casa, tutti in grisaglia. Ottanta interventi, sette donne. Sinceramente un punto esclamativo. Comunque se ne sono visti altri di convegni così nella storia repubblicana.
Non sono comunque questi gli ambiti per fare quello che gli organizzatori dicono essere l’obiettivo: noi non siamo qui per rifare la cultura di destra ma per fare sintesi della cultura nazionale. Che sarebbe casomai un sentiero arduo da percorrere in Parlamento, con confronti reali ed esiti democratici. Vedremo se sarà questo lo sviluppo, oppure se ora la partita centrale delle nomine cerca piuttosto una copertura che pensa di spiazzare chi crede che il nuovo gruppo dirigente si limiti a riabilitare solo la mitologia di destra (Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Ezra Pound, Filippo Tommaso Marinetti). Ovviamente tutti questi citati all’ Hotel Quirinale, ma nel disegno che ho brevemente accennato.
[1] Luigi Manconi, “Lo Stato etico della destra. Dalle parole di La Russa su Via Rasella all’inasprimento delle pene: il progetto della maggioranza è sempre superare l’antifascismo”, La Repubblica, 4 aprile 2023
[2] Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia – Il partito della destra Nazional-Conservatrice, Bologna, Il Mulino, 2023, 296 p.