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Democrazia futura, i tre nodi al pettine

Bruno Somalvico

“Democrazia futura. I tre nodi al pettine” ad un anno dall’invasione russa in Ucraina. Il nuovo ordine mondiale sarà bipolare intorno a Stati Uniti e Cina o multipolare?
La disunione europea con la crescita della sfera di influenza del Gruppo di Visegrad proseguirà nel 2023, o superando le attuali divergenze in seno all’asse franco tedesco, assisteremo ad un sussulto dei Paesi fondatori per dare all’Europa un’unica voce in politica estera, una Comunità europea di Difesa, e una politica energetica comune?
Quali prospettive ha Giorgia Meloni non solo di governare per l’intera legislatura ma di riuscire a respingere le tendenze anti europee e filo russe interne alla sua composita maggioranza compatta solo nel presentarsi unita nelle scadenze elettorali. Reggerà per tutta la legislatura?
La previsione è che “dopo la felice parentesi al governo di Mario Draghi – che chi dirige questa rivista continua a rimpiangere – anche in questa legislatura ne vedremo di cotte e di crude”.

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A praticamente un anno dallo scoppio dell’invasione russa in Ucraina, quando inizierà la distribuzione di questo ottavo fascicolo – che esce con colpevole ritardo e ce ne scusiamo con i lettori – per chi ha a cuore il futuro della democrazia e delle forze che la sostengono e vogliono difenderla, i nodi sembrano giunti davvero al pettine.

Mondo. Come scritto da Massimo De Angelis stiamo vivendo un secondo tramonto dell’Occidente nell’ambito di uno scacchiere dominato politicamente, economicamente e probabilmente anche militarmente dai due Paesi oggi più forti che si affacciano entrambi sull’Oceano Pacifico.

1. Mai come oggi ci troviamo di nuovo ad un passo dallo scoppio della terza guerra mondiale o comunque di fronte ad una pericolosa possibilità di allargamento del conflitto, a cominciare dall’area del Baltico dove sono riapparse navi militari dotate di ordigni nucleari come non avveniva più dai tempi della guerra fredda. 

2. A differenza degli anni della guerra fredda dove le forze nucleari della Francia e del Regno Unito a fianco di quelle della Nato mantenevano ancora un carattere di efficace dissuasione nei confronti del blocco orientale guidato dall’Unione Sovietica, nel nuovo ordine mondiale che si va delineando è probabile che il loro effetto dissuasivo sia declassato ad un livello regionale e che i vecchi attori continentali dispiegati negli anni della guerra fredda al di qua come al di là dell’ex Cortina di Ferro usciranno come i veri sconfitti da entrambe le parti. Sia l’Europa occidentale sia la Russia.

3. Il rischio concreto è che usciremo dal conflitto con un nuovo ordine mondiale bipolare anziché multipolare cui potremmo ancora legittimamente aspirare, sancendo da un lato un ulteriore rafforzamento degli Stati Uniti  a scapito dell’Europa, a capo del nuovo blocco occidentale composto dai cosiddetti “Five Eyes”, e l’irresistibile ascesa politica della Cina a capo di un secondo ancorché molto composito blocco che vi si oppone composto da tanti attori magari dominanti in ambito regionale (si pensi ad esempio alla Turchia) ma in posizione subalterna a Pechino, a cominciare dalla Russia, qualunque sia l’esito della sua azione militare in Ucraina.

4. E bene dunque lavorare per favorire negoziati che portino rapidamente non dico ad una pace ma perlomeno al cessate il fuoco in Ucraina. Ma è evidente che ciò non basta per impedire a medio termine che si vada delineando questo scenario geopolitico molto negativo per noi europei. Nonostante il viaggio congiunto a metà giugno 2022, di Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olof Sholz a Kiev, effettuato otto mesi prima di quello compito da Joe Biden il 20 febbraio 2023, noi europei siamo stati incapaci di esprimere una posizione unica sul conflitto, consegnando il destino politico dell’Ucraina nelle mani del Presidente statunitense Joe Biden e quello militare nelle mani di un’alleanza atlantica in seno alla Nato, tornata ad essere a forte trazione statunitense, nonostante gli aiuti militari cospicui forniti dai nostri Paesi europei

5. E’ opportuno, ottant’anni dopo le Conferenze fra gli Alleati e l’Unione Sovietica che hanno disegnato a Teheran e a soprattutto a Yalta, gli equilibri del mondo sino alla fine della guerra fredda e alla caduta del Muro di Berlino, creare le condizioni per dar vita non solo alla soluzione di questo grave conflitto, i cui risvolti non sono affatto solo regionali, ma per disegnare un nuovo ordine mondiale multipolare e cioè nel quale gli alleati degli Stati Uniti non siano vassalli,  a cominciare dall’Europa ma anche l’America Latina e quel che rimane del Commonwealth, e in Oriente, Russia, India, non lo siano nei confronti della Cina, ma possano concorrere, insieme anche ai Paesi più poveri a cominciare da quelli nel Continente africano, a decidere le sorti del nostro pianeta minacciato non solo dalle guerre militare ma dalle sfide sul clima e l’approvvigionamento energetico e alimentare di 7 miliardi di persone.

6. Non si tratta solo di ridisegnare le zone di influenza regionali attraverso una seconda Conferenza di Yalta ma di preparare una nuova conferenza per la sicurezza e la cooperazione su scala globale. Quella che semplificando potremmo chiamare Helsinki 2 a quasi mezzo secolo dalla prima che aveva allora aperto tante speranze per chi aveva a cuore la distensione e la coesistenza pacifica, termini che sembrano scomparsi dal lessico delle diplomazie. Una Conferenza capace di ripartire dai Dieci punti firmati nella  Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti” inserita nell’Atto finale degli Accordi di Helsinki dell’estate 1975 (nota anche come “il decalogo”) che vale la pena ricordare: 1) Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità. 2) Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza. 3) Inviolabilità delle frontiere, 4) Integrità territoriale degli stati, 5) Risoluzione pacifica delle controversie, 6) Non intervento negli affari interni, 7) Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo, 8) Eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli, 9) Cooperazione fra gli stati, 10), Adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale.

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7. Europa. Come scrive Pier Virgilio Dastoli, nonostante l’iniziale compattezza in seno all’Unione europea nel denunciare l’inaccettabile aggressione e violazione della sovranità perpetrate dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, oggi, ad un anno di distanza ormai dall’avvio del conflitto, emerge sostanzialmente una “disunione europea” sul piano politico interno e su quello diplomatico dove cresce l’influenza del Gruppo di Visegrád, capace di attrarre nella propria orbita altri governi orientale e stabilire connessioni persino con il nostro esecutivo – come dimostra il discorso effettuato da Giorgia Meloni nella sua la tappa a Varsavia prima di arrivare il 21 febbraio a Kiev. Una disunione che ha impedito la ripresa della costruzione di una politica comune europea nel campo della politica estera, della difesa come dell’approvvigionamento energetico, auspicata in tante dichiarazioni all’inizio del conflitto. 

8. Se l’Europa a 27 non riesce a perseguire questi obiettivi a causa dell’ostruzione di molti Paesi d’Europa orientale a cominciare appunto da quelli aderenti al Gruppo di Visegrád,è bene che intorno ai sei Paesi fondatori riparta il processo – difficile ma indispensabile per assicurare al Vecchio Continente ancora un ruolo nel futuro ordine mondiale –di costruzione di un’Unione politica dell’Europa in grado di agire diplomaticamente con un’unica voce e militarmente con una propria grande forza di dissuasione – capace di agire certamente in concertazione e sempre al fianco della Nato ma davvero autonoma ovvero senza prendere ordini dagli Stati Uniti d’America –  come scrive in questo numeroGiampiero Gramaglia recensendo il saggio diLucio Caracciolo

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Italia. Anche nel BelPaese, dopo quattro mesi di governo, i nodi per il governo di Giorgia Meloni sembrano arrivati al pettine, pur permanendo molto elevato il gradimento verso la nuova inquilina di Palazzo Chigi. La consistenza numerica della sua maggioranza così composita costituisce anche la principale spina che pesa sul destino del nostro governo.

9. La maggioranza di centro destra sembra essere oggi il principale ostacolo che impedisce a Giorgia Meloni di costruire il “Partito della Nazione”, ovvero un grande partito conservatore nazional-liberale, cerniera tra le tradizionali formazioni conservatrici oggi riunite nel Partito Popolare Europeo e le nuove destre sovraniste che cercano di smarcarsi dalle loro origini post fasciste, nazional-populiste o da quelle impronte xenofobe che hanno rappresentato per decenni il successo di formazioni come la Lega in Italia i grazie alle loro battaglie cosiddette securitarie e a quelle contro gli immigrati e i clandestini.

10. Giorgia Meloni deve insomma prima di tutto guardarsi le spalle e proteggersi dalle insidie provenienti dall’interno della sua maggioranza, a cominciare in seno al suo partito, Fratelli d’Italia dove non tutti sembrano apprezzare il profilo istituzionale che l’ha sin qui caratterizzata e che ha contribuito a tranquillizzare le Cancellerie europee. Mentre ha ricevuto apprezzamenti in seno alle forze meno demagogiche dell’opposizione, non tutti dentro Fratelli d’Italia hanno apprezzato la linea sostanzialmente di continuità con Mario Draghi del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (come del resto anche molto probabilmente in seno alla Lega). Tutto questo mentre pesa fortemente non solo in seno a Forza Italia, il disagio sin qui esplicitato solo dal Partito Popolare Europeo, di fronte alle ennesime esternazioni “pacifiste” di Silvio Berlusconi. Giudicate voi se considerarle filoputiniane o antizelenskiane.

11. Se vorrà davvero governare per l’intera durata di questa legislatura, Giorgia Meloni dovrà continuare a rinunciare alle sue promesse elettorali e prepararsi a perseguire misure decisamente impopolari e comunque non gradite al suo elettorato per rafforzare la credibilità sin qui conquistata in Europa nonostante le incomprensioni con Macron. Ma soprattutto dovrà dunque guardarsi nel tempo dalle insidie provenienti dal suo campo di centrodestra, davvero un campolargo vincente sul piano elettorale quanto sterile per non dire pieno di aporie sul piano dei contenuti del proprio agire politico.  E non certo dall’opposizione di un centrosinistra che rimane sempre fortemente diviso, percepito altresì da una parte del suo elettorato come una sorta di “armata Brancaleone” poco credibile, spingendolo dunque a non andare a votare.

12. Il centrosinistra è uscito distrutto dalle elezioni politiche e il Pd pur frenando la sua caduta nelle elezioni regionali, non ha certo brillato in due regioni fra le più avanzate dove conserva le amministrazioni dei due Comuni più importanti d’Italia, Roma e Milano. Le divergenze interne fra un Terzo Polo a vocazione neocentrista e con al proprio interno l’ambizione da parte di Matteo Renzi di contendere alla Meloni una parte dell’elettorato interessato alla costruzione del Partito della Nazione, un Partito Democratico prigioniero delle proprie lotte interne in attesa di eleggere l’ennesimo segretario e, e quel che rimane del Movimento 5Stelle che continua ad essere incapace di radicarsi nel territorio, ma dove imperversano le tendenze ad assecondare le sirene populiste che hanno continuato ad incantare soprattutto al sud una parte del proprio elettorato consentendo alla formazione di Giuseppe Conte di sopravvivere frenando l’emorragia interna e impedendo ulteriori scissioni dopo quelle conosciute nella scorsa legislatura.

13. Queste divisioni almeno per ora non ricomponibili in seno alle forze dell’opposizione, hanno impedito al centrosinistra di vincere le elezioni politiche nel settembre 2022 e quelle regionali in Lombardia e nel Lazio anche quando intorno al Partito Democratico si sono costruite candidature che hanno ricevuto il sostegno del Terzo Polo o dei grillini. Ma non solo. 

14. Le tre principali aree politiche dell’opposizione rischiano nel tempo di logorare ulteriormente l’intero campo dell’opposizione e quindi di impedire al centro sinistra di presentarsi ad un corpo elettorale sempre più disincantato come un’alternativa credibile a quello che rimane il governo più a destra dell’Italia repubblicana. Un esecutivo, peraltro, che sino ad ora – grazie all’indubbia intelligenza politica di Giorgia Meloni – a differenza di quello a trazione Salvini-Di Maio fra leghisti e pentastellati all’inizio della scorsa legislatura – malgrado alcuni passi falsi, non ha sfigurato agli occhi dell’Europa, non dando seguito alle promesse elettorali della sua coalizione.

In ogni caso – dopo la felice parentesi al governo di Mario Draghi, che chi dirige questa rivista continua a rimpiangere – anche in questa legislatura ne vedremo di cotte e di crude. 

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