Guido Ferlazzo Ciano esamina per Democrazia futura “I Balcani alla prova del secolo Ventunesimo”, ovvero quello che riassume nell’occhiello come “Uno spazio geografico convenzionale diviso da faglie culturali, storiche rivalità e rivendicazioni territoriali sovrapposte.” chiedendosi – dopo una lunga disamina in cui tenta di “Circoscrivere geograficamente la penisola” e poi di “Circoscrivere storicamente la penisola”, e di definire l portata della “Balcanizzazione, ovvero [delle] frantumazioni nazionali e regionali” – se in questo ventunesimo secolo (sotto la spinta dell’Unione europea o di altre potenze regionali, la Turchia di Erdogan in primis), siamo “Di fronte a una nuova fase di unificazione balcanica?”.
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Si potrebe cominciare col dire che i Balcani non esistono. Sembrerebbe una provocazione, ma c’è più di un fondo di verità. Atlante alla mano, apparirà evidente come, delle quattro grandi penisole d’Europa (balcanica, iberica, italiana, scandinava), quella balcanica sia effettivamente difficilmente circoscrivibile, a differenza delle altre. Nessuna catena montuosa che la divida dal resto d’Europa, nessun istmo e nemmeno un perimetro individuabile oltre ogni ragionevole dubbio, a parte per la sua appendice più meridionale, al di sotto della linea Igoumenítsa-Kateríni, più propriamente detta penisola ellenica. Dunque potremmo azzardarci a sostenere che i Balcani siano più uno spazio geopolitico che una regione meramente geografica.
Circoscrivere geograficamente la penisola
Da un punto di vista convenzionale è ragionevole considerare il limite di terra della Balcania una linea immaginaria che a est di Fiume (Rijeka), presso l’insenatura del vallone di Bùccari (Bakarski zaljev), e al di là della sella di Vrata, punto di congiunzione tra le Alpi e il sistema montuoso dinarico, segua il corso del fiume Kupa, a sua volta per un centinaio di chilometri demarcatore del confine tra Croazia e Slovenia, fino alla sua confluenza nella Sava, il grande fiume che divide Croazia e Bosnia-Erzegovina, per poi entrare in Serbia e confluire a Belgrado nel Danubio. Da qui in poi il perimetro seguirà il corso del Danubio, attraverso le suggestive gole delle Porte di Ferro, fino al suo delta, per concludersi nel mar Nero. Saranno inclusi nei Balcani tutti gli Stati e le regioni storiche comprese tra questa linea e i mari Adriatico, Ionio, Egeo, di Marmara e Nero. Ne risulterebbe una superficie di poco inferiore ai 500 mila chilometri quadrati (470 mila, se si considerasse solo la parte continentale, escludendo quindi le isole dell’Adriatico, dello Ionio e dell’Egeo), popolata da circa 45 milioni di abitanti[1].
Sarebbero pertanto inclusi nella penisola balcanica la Grecia, l’Albania, la Macedonia del Nord (ex FYROM), la Bulgaria, la parte europea della Turchia, la regione romena della Dobrugia, il Montenegro, il Kosovo, la Serbia (esclusa la Voivodina), la Bosnia-Erzegovina e una parte della Croazia (Dalmazia, Lika-Krbava e Primorje, sulla costa, e le contee dell’entroterra a ridosso del confine bosniaco occidentale). Se, fino alla dissoluzione della Iugoslavia, l’intero spazio balcanico era diviso tra sei Stati (con quattro capitali balcaniche), nel 2023 risultano esserci undici Stati e otto capitali. La Romania non è propriamente uno Stato balcanico, sebbene dell’area balcanica presenti alcuni tratti culturali, così come nessuno percepisce più la Turchia come uno Stato balcanico, sebbene fino al 1912, quando ancora si chiamava Impero Ottomano, si estendesse su gran parte della penisola. Allo stesso tempo un Paese come la Croazia si trova ad avere una doppia anima, quella più mitteleuropea che si respira a Zagabria (l’asburgica Agram) e in Slavonia, e quella più propriamente balcanica delle regioni costiere (in questo caso molto mitigata dalla lunga dominazione veneziana) e di quella metà di Bosnia-Erzegovina, chiamata informalmente Federazione croato-musulmana, che, soprattutto da parte dei suoi abitanti cattolici (circa il 22 per cento della popolazione), guarda con favore più a Zagabria che a Belgrado.
Circoscrivere storicamente la penisola
È soprattutto la storia che aiuta a comprendere perché nell’immaginario dell’uomo europeo e occidentale i Balcani siano diventati un luogo specifico, anche se non corrispondente a uno spazio geografico ben definito. E la ragione sostanzialmente è che, prima che il termine «balcanizzazione» diventasse un luogo comune, a significare una deriva verso suddivisioni fino ai minimi termini (in gastronomia ebbe peraltro molto successo l’accostamento ironico di un’invitante combinazione di frutti con un intricato groviglio etnico, linguistico e religioso tipicamente balcanico e specificamente macedone), lo spazio balcanico si trovò a condividere per secoli uno stesso destino comune. Unificati per la prima volta da Roma tra iI I secolo a.C. e il I d.C., i Balcani si ritrovarono sostanzialmente inclusi nella parte orientale dell’Impero dopo la partizione avvenuta nel 337, alla morte di Costantino (a sua volta nativo della Balcania, da Naissus, odierna Niš, in Serbia), divenuta definitiva alla morte di Teodosio, nel 395. A quel tempo, con l’esclusione delle regioni a ovest dell’attuale Serbia, tutta la penisola si ritrovò sotto l’autorità degli imperatori di Bisanzio.
Addirittura sotto Basilio II “Bulgaroctono” (976-1025), discendente della nota (e di origine balcanica) dinastia macedone, l’autorità degli imperatori romani d’Oriente raggiunse i limiti più occidentali della penisola, a includere tutta l’attuale Croazia, spingendosi fino al Quarnaro. Invero si trattò del canto del cigno della seconda fase di unificazione balcanica, giacché in breve nacquero in quella regione diversi regni che aspirarono a rendersi totalmente indipendenti da Bisanzio, emergendo tra gli altri la Serbia, sotto la dinastia dei Nemanja (1169-1389), e la Bulgaria, sotto la dinastia degli Asen (1186-1393). Non è un caso se durante questo periodo, quasi perfettamente coincidente, le due potenze balcaniche antagoniste di Bisanzio (Serbia e Bulgaria) abbiano creato due sistemi statali che, tra alterne fortune, tentarono di egemonizzare l’intero spazio balcanico, senza peraltro riuscirci. Poi, con le prime conquiste turche in Tracia, a partire dal 1352, iniziò la fase di transizione, conclusasi nel 1453 con la conquista di Costantinopoli da parte del sultano ottomano Mehmed II “Fatih”. A quella data già metà penisola balcanica si ritrovava unificata sotto la nuova compagine imperiale (escluse alcune sacche ancora bizantine nel Peloponneso, le isole egee e ioniche controllate da Venezia e Genova, la Serbia nord-occidentale, parte dell’Albania e la Bosnia).
Qualche anno dopo, all’ascesa al trono del sultano Bayezid II, nel 1481, l’Albania, la Serbia intera e la Bosnia erano ormai sotto controllo ottomano, venendo pressoché unificata l’intera penisola balcanica sotto l’autorità di Istanbul (ne erano allora escluse solo alcune isole dell’Egeo e dello Ionio, le isole e alcuni tratti di costa della Dalmazia, controllati dalle Repubbliche di Venezia e Ragusa, e la parte nordoccidentale della Croazia), durante quella che si potrebbe definire la terza fase di unificazione balcanica. Dal 1493, dopo l’esito infausto della battaglia della Krbava, anche lo spazio balcanico croato fu incluso nel territorio ottomano. Infine, con la liquidazione dello Stato dei Cavalieri di Rodi, nel 1523, e degli ultimi possedimenti insulari genovesi nell’Egeo, nel 1566, a presidiare alcune isole e brevi tratti di costa balcanica rimasero solo Venezia e Ragusa. In questo stesso periodo la catena montuosa che divide in due parti l’attuale Bulgaria, il monte Haemus delle fonti latine, Aímos di quelle greco-bizantine, destinato a essere conosciuto ai giorni nostri con il toponimo slavo-bulgaro Stara Planina (letteralmente “Vecchia Montagna”), fu ribattezzato dai turchi Balkan, termine derivato, sembrerebbe, da una voce persiana, a significare una dimora posta in posizione preminente (si potrebbe scorgervi una radice indoeuropea presente anche nei vocaboli italiani “balcone” e “palco”, entrambi di origine longobarda).
Se il toponimo Balkan Dağları è ormai scomparso dalle carte e dagli atlanti, è pur vero che la sua derivazione aggettivata (Balcanica/o) ha avuto e continua ad avere molto successo anche fra noi contemporanei non di origine turanica.
Evidentemente quando, nel corso dell’Ottocento, si iniziò a considerare la geografia una materia da trattare con metodi scientifici, risultò assai difficile riscontrare un tratto comune col quale identificare quello spazio geografico compreso tra il basso corso del Danubio e il Mediterraneo, che alcuni cominciavano a identificare come una penisola a sé stante. Non senza autorevoli obiezioni, quale quella avanzata a metà del secolo dal geografo tedesco Karl Ritter, il quale tutto vi vedeva fuorché una penisola, se non limitandola all’appendice ellenica, con giuntura fra Epiro e Tessaglia. Da un punto di vista geografico Ritter aveva delle valide ragioni. Ma da un punto di vista storico un po’ meno. E in effetti è la concezione storica che ha prevalso nel tempo, finendo per circoscrivere uno spazio geografico che, più che essere unificato da fattori morfologici o orografici, lo è stato per ragioni culturali. Per usare le parole dello storico francese Georges Castellan (1920-2014):
«È vero, l’ulivo non raggiunge Istanbul e i paesi bulgari non fruiscono dei venti del Mediterraneo. E nondimeno, dal Peloponneso alla Moldavia, città e villaggi, pur nei mutevoli paesaggi, presentano dei tratti comuni; ovunque chiese bizantine a cupola, qua e là delle moschee, e poi quelle case in aggetto – čardak – o quelle locande – khan – , stazioni di cambio per le carovane, che si possono trovare a Patrasso come a Bucarest, a Scutari e a Plovdiv, per non parlare delle bottegucce aperte sulle strade, nelle quali l’artigiano, martellando i suoi piatti di rame, vi offre un caffè turco. Aria di casa? Indubbiamente un’aria di popoli diversi che hanno vissuto insieme una lunga avventura e hanno finito per costituire, all’interno dell’Europa, un’area culturale comune»[2].
Questa terza e per ora ultima fase di unificazione dei Balcani è peraltro quella che è rimasta più impressa a noi contemporanei, proprio per quell’eredità culturale ancora oggi piuttosto visibile e con quelle caratteristiche orientali ben descritte da Castellan che resero la penisola, fra Ottocento e Novecento, un luogo dal fascino esotico, sorta di magico Oriente appena fuori dall’uscio di casa. Tuttavia proprio nell’Ottocento si accentuò il degrado dell’egemonia ottomana nella penisola, cominciato già all’indomani dell’ultimo e fallimentare assedio di Vienna (1683), facendosi strada quel processo di frantumazione («balcanizzazione») che, al momento, dopo l’implosione della Iugoslavia, pare aver raggiunto la sua fase culminante. Le tappe principali:
• 1699. Pace di Karlowitz (odierna Sremski Karlovci, in Serbia): allargamento dei dominî veneziani nell’entroterra dalmata e annessione veneziana del Peloponneso (Morea); recupero delle aree croate balcaniche nella Lika e Krbava da parte degli Asburgo.
• 1715. Montenegro indipendente de facto sotto la dinastia dei vladika Petrović e la protezione dello zar russo Pietro il Grande.
• 1718. Pace di Passarowitz (odierna Požarevac, in Serbia): perdita della Morea a fronte di un ulteriore allargamento dei dominî veneziani in Dalmazia; annessione provvisoria all’impero degli Asburgo (fino alla pace di Belgrado del 1739) di parte della Serbia settentrionale e di alcune aree sulla riva destra della Sava.
• 1830. Riconoscimento dell’indipendenza della Grecia (ma ridotta al solo Peloponneso, alla parte centrale della penisola ellenica e alle Cicladi).
• 1878. Congresso di Berlino: amministrazione austro-ungherese sulla Bosnia-Erzegovina; riconoscimento dell’indipendenza della Serbia (la sola parte settentrionale); riconoscimento del principato autonomo ma de facto indipendente della Bulgaria (limitatamente alla sua metà settentrionale, compresa Sofia); annessione del sangiaccato di Novi Pazar al Montenegro.
• 1881. Annessione della Tessaglia alla Grecia.
• 1885. Annessione al principato autonomo di Bulgaria delle regioni centro-meridionali (Rumelia).
• 1897. Statuto autonomo garantito dalle potenze europee per l’isola di Creta, formalmente ancora sotto la sovranità ottomana.
• 1908. Dichiarazione di indipendenza della Bulgaria (già principato autonomo); annessione della Bosnia-Erzegovina all’Impero austro-ungarico.
• 1912-13. Guerre balcaniche. Totale disfacimento della sovranità ottomana sulle rimanenti regioni della Balcania rimaste al sultano: Macedonia divisa tra Grecia, Serbia e Bulgaria; Tracia occidentale annessa alla Bulgaria; Epiro annesso alla Grecia; Kosovo diviso tra Serbia e Montenegro; Creta annessa alla Grecia; Albania indipendente. L’Impero ottomano, dal 1923 Repubblica di Turchia, conserva la sola Tracia orientale.
Il resto è cronaca (spesso violenta) del consolidamento dei nuovi equilibri statali prodotti dalla ritirata balcanica dell’Impero ottomano e del rimaneggiamento di confini interni alla penisola. Si è detto che nella seconda metà del secolo scorso i Balcani erano divisi tra sei Stati, mentre oggi sono ben undici: balcanizzazione, per l’appunto.
Balcanizzazione, ovvero frantumazioni nazionali e regionali
Ma noi viviamo nel XXI secolo ed è con i Balcani del XXI secolo che dobbiamo fare i conti. E viviamo in un’epoca che, soprattutto nell’Europa occidentale, tende a mettere in crisi l’idea fondante degli Stati nazionali. Questi da una parte sono sospinti dalle classi dirigenti politiche e dalle tecnocrazie capitalistico-finanziarie verso una confederazione sovranazionale di Stati con competenze comuni volta a preparare il terreno alla creazione di un’unione federale di estensione continentale; dall’altra, quale reazione scomposta dal basso al timore di perdere i legami identitari ancestrali a favore del superstato federale pancontinentale, privo di una chiara identità etnica e linguistica, gli stessi Stati nazionali sono dilaniati all’interno da particolarismi su base regionale, giustificati da un misto di rivendicazioni identitarie (la riscoperta di un passato mitizzato cui si contrappone uno Stato nazionale repressivo dell’identità locale) ed egoistiche (l’opposizione di queste regioni a finanziare la riduzione delle disparità economiche e sociali all’interno dello Stato nazionale). Insomma, può sembrare un paradosso, ma gli Stati nazionali sono sul banco degli imputati per ragioni contrapposte. Per gli uni sarebbero troppo piccoli e deboli per fronteggiare sfide globali e opporsi alle superpotenze emergenti, per gli altri sarebbero fin troppo grandi e prevaricatori delle genuine aspirazioni dei popoli e delle comunità locali.
Tale deriva sembra avere investito anche i Balcani.
Per certi versi si potrebbe ritenere che in questo ambito i Balcani abbiano persino anticipato certe linee di tendenza. E la ex Iugoslavia può essere vista come una sorta di laboratorio dove sono stati sperimentati i due opposti orientamenti: dapprima si produsse il superstato che teneva insieme etnie e lingue diverse, sebbene con un collante etnico-linguistico maggioritario (che pur si dimostrò, alla prova dei fatti, molto poco unito) e un sistema di governo che lasciava inizialmente nessuna e in seguito scarsa autonomia alle varie componenti etniche che lo formavano. In un secondo tempo ebbe luogo il processo di frantumazione che, sebbene fosse giustificata o mascherata da rivendicazioni nazionali, ha lasciato spesso intravvedere alcuni equivoci identitari nascosti tra le pieghe di tali rivendicazioni. Esempio eclatante: croati, serbi, montenegrini e bosniaci sono lo stesso popolo, la stessa etnia, parlano anche la stessa lingua e persino le tre varianti dialettali di quella lingua, eppure non hanno esitato a trovare ragioni storiche e culturali (oltre a snocciolare il solito rosario di recriminazioni e vittimismi) che accreditassero la versione di una loro supposta differenziazione. Noi potremmo chiamarli a buon diritto regionalismi, non nazionalismi.
Dunque la balcanizzazione in qualche caso può essere letta non solo come una frantumazione su base nazionale, ma anche come una proliferazione di Stati aventi in comune gli stessi caratteri etnici e linguistici, ovverosia una comune matrice nazionale in senso stretto. Vale per la comune matrice serbo-croata, un’unica nazione attualmente divisa in quattro Stati: Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina (a sua volta Stato federale bicefalo diviso al suo interno in due repubbliche antagoniste) e Croazia. Vale per la comune matrice nazionale albanese, oggi divisa in due Stati: Albania e Kosovo. Nel mezzo, sorta di baricentro geografico al centro della penisola, la Macedonia del Nord, uno Stato plurinazionale con un’identità maggioritaria slava meridionale (58,4 per cento), autodefinitasi “macedone” per evitare imbarazzanti dispute in merito alla questione se la matrice nazionale originaria sia serba o bulgara, che deve convivere con un quarto di popolazione albanese (24,3 per cento), e con sacche numericamente decrescenti e sparse a macchia di leopardo di varie altre minoranze etniche: turchi, zingari, serbi, bosgnacchi, aromeni e valacchi, senza contare il 7,2 per cento della popolazione che ha rifiutato di rispondere alle domande sull’identità etnica nel censimento della popolazione del 2021[3]. Con l’esclusione dei greci, in questo Stato convivono abbastanza pacificamente tutte le etnie dei Balcani. Almeno per ora.
Eppure, di fronte a questa irresistibile inclinazione tutta balcanica allo spezzettamento, ci sono anche dati in controtendenza. Innanzi tutto una frantumazione così accentuata pare aver raggiunto il suo limite naturale. Non si prevedono, infatti, ulteriori secessioni e partizioni (salvo che per la Bosnia-Erzegovina, sebbene sia de facto già in essere, mentre per il Kosovo si è discusso in passato di eventuali scambi territoriali) ed inoltre le piccole Patrie attualmente esistenti non paiono attraversate da derive centrifughe.
A titolo di esempio, il più vasto Stato balcanico attualmente esistente, la Grecia, è dotata di un marcato orgoglio nazionale non nascosto neppure dalle sue forze politiche più progressiste, laddove l’acronimo del PASOK, fino al 2012 il più rappresentativo partito di centro-sinistra, è Panellínio Sosialistikó Kínima, ovvero “Movimento Socialista Panellenico”, a evocare l’ambizione a rappresentare tutti i greci in Patria e all’estero, a Cipro così come tra le comunità ellenofone dell’Epiro del nord, dell’Anatolia e del Ponto. Ne consegue che pressoché inesistenti in Grecia sono le rivendicazioni autonomistiche e le recriminazioni regionalistiche.
Altrove si discute anche di fare parziali retromarce rispetto alle separazioni attuate anni addietro. È il caso del Montenegro, nel quale la vittoria alle elezioni presidenziali dello scorso 2 aprile di Jakov Milatović, esponente di un partito liberale ed europeista, contro l’eterno e chiacchierato ex presidente ed ex primo ministro Milo Đukanović, promotore della secessione dalla Serbia nel 2006 e filo-americano, ha portato alla riapertura di un canale di dialogo con Belgrado e a una ripresa di stabili relazioni diplomatiche con la Serbia[4].
D’altra parte non potrebbe essere altrimenti per un piccolo Stato vasto appena come la Venezia Tridentina (Trentino-Alto Adige), la cui popolazione scelse nel 2006 la secessione non certo all’unanimità, con solo il 55 percento dei suffragi a favore. Uno Stato peraltro nel quale il 45 per cento della popolazione nel 2011 si è dichiarata montenegrina a fianco di un non indifferente 29 per cento che si è dichiarato serbo. Considerando che da un punto di vista etnico, linguistico e culturale non c’è alcuna differenza tra montenegrini e serbi, tanto più che, anche da un punto di vista religioso, serbi e montenegrini aderiscono alla Chiesa ortodossa serba, non si vede per quale ragione Serbia e Montenegro non dovrebbero andare d’accordo, al di là del diverso posizionamento in politica estera: Belgrado tradizionalmente filo-russa e moderatamente aperturista verso l’Unione Europea; Podgorica filo-americana e pro NATO sotto Đukanović, ora più decisamente favorevole all’Unione Europea. Il clima è propizio a un rinsaldarsi dei rapporti serbo-montenegrini sul terreno comune dell’adesione all’Unione europea. Se mai avverrà.
Di fronte a una nuova fase di unificazione balcanica?
Ed è proprio l’Unione Europea l’elemento che porta a credere che possa essere in atto una quarta fase di unificazione dei Balcani, salvo deragliamenti del processo di integrazione dei Paesi dell’Europa orientale o eventuale imprevisto ma temuto collasso dell’Unione, se dovessero prevalere forze ad essa ostili in Paesi cardine, come ad esempio la Francia.
Dopo la massima frantumazione raggiunta da circa duemila anni a questa parte, una nuova stagione unificante potrebbe essere alle porte. Come si sa, già una parte della penisola è entrata nell’Unione: ne sono Stati membri la Grecia (dal 1981), la Bulgaria e la Romania (dal 2007), la Croazia (dal 2013). Poco più della metà della superficie della penisola si trova già oggi nello spazio comune europeo, mancando alla quasi totale unificazione l’area balcanica centro-occidentale: Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord.
Invero l’ingresso nell’Unione Europea non è l’unico percorso obbligato che porti a una riunificazione balcanica. Il fatto che siano per il momento estranei all’Unione Europea, in attesa di aderirvi, quegli Stati che presentano al loro interno solide minoranze o schiaccianti maggioranze musulmane[5] lascia credere che ci sia ancora spazio, ad esempio, per una lenta, silenziosa ed efficace penetrazione turca.
La differenza tra i due attori in campo è, naturalmente, enorme. Tuttavia la Turchia, grazie alla sua influenza nell’area balcanica, incrementata notevolmente negli ultimi due decenni, potrebbe porre in essere delle strategie atte a rallentare il processo di integrazione europea dei rimanenti Paesi balcanici occidentali. Secondo gli analisti gli interessi di Ankara nell’area sarebbero eminentemente economici e i dati dell’interscambio commerciale degli ultimi vent’anni lo proverebbero (tra il 2000 e il 2022 le esportazioni turche verso i Balcani sono più che decuplicate, passando da 1,2 a 22,5 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono passate da 1,6 a 10,3 miliardi). Tuttavia, rimane il dubbio che un’influenza così crescente della Turchia nei Paesi della regione, testimoniata dalla presenza di numerose istituzioni e organismi non governativi turchi (l’Agenzia Turca per la Cooperazione e il Coordinamento [Tika], una delle più attive nei Balcani; l’Istituto Yunus Emre, istituzione per la promozione della cultura e della lingua turca, con 14 filiali in otto Paesi balcanici; la Presidenza per i turchi all’estero e le comunità imparentate [Ytb], fornitrice di borse di studio per le università turche; l’agenzia di stampa Anadolu e l’emittente televisiva di Stato TRT con i suoi corrispondenti) e con la conseguente pioggia di risorse finanziarie, possa favorire anche qualcosa di più di una semplice penetrazione economica[6].
Alla cerimonia di insediamento in occasione della rielezione di Recep Tayyip Erdoğan alla presidenza della Repubblica di Turchia, lo scorso 3 giugno 2023, erano presenti solo cinque Paesi europei con le rappresentanze del medesimo livello presidenziale, significativamente tutti dell’area balcanica: Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro.
Conoscendo le ambizioni della politica estera erdoganiana e la postura assunta dalla Turchia nell’ultimo decennio, si può dubitare che le intenzioni turche siano soltanto “pacifiche”.
Se sarà unificazione sotto le insegne di Bruxelles, l’Unione Europea nei Balcani occidentale dovrà necessariamente fare i conti, se non anche scendere a patti, con l’uomo di Ankara e con le sue ambizioni nell’area, a meno che un tracollo economico, stando i fondamentali attuali dell’economia turca, divorata tra le altre cose da un’inflazione incontrollabile, non lo obblighi a più miti consigli.
Un fatto tuttavia è incontrovertibile: per molti Stati balcanici i brutti ricordi legati alla dominazione ottomana e alle violenze ad esse connesse nel contesto dei processi di emancipazione nazionale, soprattutto tra Ottocento e Novecento, sono ormai dimenticati e tacitamente perdonati. È come se l’eroe albanese Gjergj Kastrioti Skanderbeg non avesse mai lottato disperatamente contro i turchi nel XV secolo, perpetuando con le sue gesta il mito antiturco dell’indipendenza nazionale albanese tra tutte le generazioni di schipetari di qualunque credo religioso. È come se la torre di quasi mille crani umani eretta alle porte di Niš, nel 1809, non l’avessero eretta i turchi come monito contro i ribelli serbi guidati da Karađorđe. È come se gli spaventosi massacri perpetrati dalle bande di bașı-bozuk in Bulgaria, nel 1876 (le “atrocità di Bulgaria” denunciate dal leader liberale britannico William Ewart Gladstone), non avessero avuto come mandante la Turchia ottomana. Tutto sembra davvero essere dimenticato, tutto perdonato, all’insegna “del pecunia non olet”.
Inoltre, come se non bastasse, aleggia l’influenza che ancora oggi la Russia esercita su numerosi Stati balcanici. Sulla semper fidelis Serbia, che non dimentica il mai mancato appoggio ricevuto alle rivendicazioni sulle sue membra amputate in Bosnia e nel Kosovo, ma anche sulle opinioni pubbliche del Montenegro e dell’eterna riconoscente Bulgaria, dove nel cuore della capitale campeggia il grande monumento equestre allo car osvoboditel, lo “zar liberatore” Alessandro II (il vendicatore, poco più di un anno dopo, dei summenzionati massacri del 1876), omaggiato inoltre da nomi di strade e piazze più o meno importanti in tutto il Paese. Tali influenze si sono tradotte e continuano a tradursi in manovre più o meno occulte per impedire o quanto meno rallentare il processo di integrazione dell’area balcanica nell’Unione Europea.
Insomma, ci sono tante ragioni per credere che la quarta fase di unificazione della penisola non sarà incontrastata o quasi come le tre precedenti. E le forze messe in campo per tirare parti della penisola da una parte (Ankara) e dall’altra (Mosca) avranno un impatto sulle mosse, al momento poco efficaci e ancor meno convinte, messe in campo dall’Unione europea per riuscire nell’impresa di conquistare le menti e i cuori dei popoli balcanici.
Questo è il quadro balcanico, in estrema sintesi e nel suo complesso, nell’anno di grazia 2023.
Le tematiche emerse in questo scritto saranno riprese in successivi articoli imperniati su ciascuno o più Stati della penisola, nel tentativo di osservare, al di qua del canale di Otranto, quali siano gli sviluppi in essere della politica balcanica, spesso poco osservata dalla nostra Penisola, con l’unica parziale eccezione della Grecia. Si vedrà se i retaggi storici valgono meno dei fondi allo sviluppo e se la macedonia etnica che caratterizza alcuni di questi Paesi non sia in grado di produrre, oggi come uno o più secoli addietro, immani sconquassi.
[1] Per fare comparazioni, la penisola italiana ha un’estensione di circa 325.000 chilometri quadrati (265.000 la sola parte continentale, escludendo quindi le isole maggiori: Sicilia, Sardegna, Corsica); la penisola iberica è estesa invece su circa 580.000 chilometri quadrati, Baleari escluse.
[2] Georges Castellan, Historie des Balkans (XIVe – XXe siècle), Paris, Fayard, 1991, 643 p.; trad. italiana, Storia dei Balcani. XIV-XX secolo, Lecce, Argo, 1996, 616 p. [cit. p.11]
[3] I dati del Censimento della popolazione, delle famiglie e della abitazioni della Repubblica della Macedonia del Nord, dell’anno 2021, sono scaricabili dal sito: https://www.stat.gov.mk/PrikaziSoopstenie_en.aspx?rbrtxt=146
[4] Andrea Walton, “Le sfide della presidenza Milatović in Montenegro”, in Linkiesta, 18 aprile 2023, https://www.linkiesta.it/2023/04/conseguenze-news-storica-vittoria-milatovic-montenegro/
[5] Al momento lo Stato più islamizzato del Balcani sarebbe il Kosovo, con circa il 95% della popolazione che si è dichiarata musulmana, stando al censimento del 2011, tuttavia boicottato dai serbi-kosovari, in maggioranza cristiano ortodossi. Seguono l’Albania, con circa il 58% di credenti musulmani, la Bosnia-Erzegovina, con il 51%, secondo il censimento del 2013, e la Macedonia del Nord, con il 32%, secondo i dati del già citato censimento del 2021. Significative minoranze musulmane sono pure presenti in Bulgaria (7,8% nel 2011), in diretta correlazione con la più cospicua comunità etnica turca rimasta nei Balcani, e in Serbia (4,2% nel 2022), prevalentemente nella regione di Novi Pazar e nell’estremità meridionale dello Stato, al confine con il Kosovo.
[6] Mehmet Uğur Ekinci, “Perché la Turchia è potenza balcanica”, in Limes, 7/2023, pp.221-226