Era il primo segretario del PCUS a cui piaceva il parmigiano.
E’ una banalità, me ne rendo conto, ma non posso trovare spazio nei ricordi di Michail Gorbaciov se non con un aneddoto.
I grandi cremlinologhi spiegheranno quale ruolo ebbe nella storia, quali intuizioni e quanti errori commise.
A chi come me, uno dei tanti cronisti che arrivarono a Mosca all’indomani della sua nomina al vertice dell’URSS, compete integrare e aggiungere alle grandi analisi qualche sprazzo di vita vissuta. Tanto più che ebbi la fortuna, in quei sorprendenti tempi in cui i cerimoniali venivano costantemente violati per l’inesperienza di chi doveva osservarli, di trovarmi più volte accanto a lui.
Già questo ci dà la misura di quale trasgressione fu interprete quell’uomo dalla voglia in testa e con il sorriso più irresistibile ad est del Reno.
A bordo dell’areo presidenziale nel volo da Mosca a Pechino del maggio 1989
La prima volta che ebbi l’opportunità di accostarmi alla sacralità della coppia di vertice dell’Urss, Michail e Raissa, fu sul volo che da Mosca li portò a Pechino, nel maggio del 1989. Insieme ai giornalisti esteri accreditati, ebbi l’opportunità di essere imbarcato sull’aereo presidenziale. Già eravamo nel pieno della crisi della Peretroika: le riforme erano ferme, i riformisti erano diventati radicali, i conservatori sabotatori. Il partito si stava biodegradando.
Da lì a qualche mese sarebbe crollato il muro di Berlino, pressocché all’insaputa di tutti, compresi gli inquilini del Cremlino.
Ma le sorprese arrivarono anche prima. Sul volo si avvertiva una certa irrequietezza. Forse qualcuno era stato avvertito che a Pechino qualcosa bolliva in pentola. Gennadi Gerasimov, il fedele ed efficientissimo portavoce di Gorby si affacciò più volte nel settore della stampa internazionale per parlottare con gli inviati più accreditati – per l’Italia Giulietto Chiesa ancora all’Unità, Ezio Mauro di Repubblica, Andrea Bonanni e Paolo Valentino del Corriere della Sera.
Per la Rai il testimonial era Demetrio Volcic, il prestigioso corrispondente che a Mosca si muoveva come nel tinello di casa propria. Io ero con il bagaglio a mano, per conto del GR1. Ma per un sortilegio quando Gorbaciov in persona si affacciò oltre la tendina presidenziale mi trovai nelle prime fila che girovagavo.
Uno sguardo che per qualche istante mi fermò il cuore. Poi ricordai: nel corso di una conferenza stampa al press center Michail Gorbaciov che si muoveva in maniera sempre più sciolta e libera fu abbordato dalla mia interprete, Natalia Terechova, inconfondibile con il suo caschetto biondo che non passò inosservato. E con il portavoce Gerasimov il presidente si fermò a pronunciare qualche parola al microfono della radio italiana, come gridava Natalia. Qualcosa deve essergli rimasto impresso a quel segretario del partito comunista sovietica dalla voce così calda e dallo sguardo che ti illuminava, o ti inceneriva.
Atterrati a Pechino cominciò subito la rumba di Tien an Men.
Proprio all’alba del 17 maggio 1989, era il giorno del mio compleanno, mi affacciai dal balcone dell’albergo che costeggiava il lunghissimo Viale della Pace Celeste e, stropicciandomi gli occhi, vidi sfilare, pressocché in silenzio, due milioni di persone che occuparono la grande piazza dinanzi alla Città Proibita. Uno vero shock per tutti, a cominciare dai cinesi che, benché facessero, appunto i cinesi, cioè formalmente imperturbabili, arrivando, all’inizio addirittura a negare che vi fosse gente in piazza, erano visibilmente isterici.
In quella baraonda la visita di Gorbaciov rischiava di passare in second’ordine. Tutti erano in piazza a capire cosa stesse accadendo, mentre le conferenze stampa sui colloqui sovietico/cinesi erano alquanto snobbate. Ci fu un’impennata il giorno della grande assemblea nel palazzo del popolo, quando ci fu la paradossale scena che i giornalisti per entrare dovevano scavalcare migliaia e migliaia di giovani assiepati sulla scalinata, mentre i cinesi negavano incidenti.
Michail Gorbaciov trovò il modo di fare capolino in piazza, salutato da una standing ovation che non deve essere stata gradita nella città proibita. Si attendevano gli echi del suo incontro con il grande vecchio Deng Xiaoping, e, soprattutto, con il segretario del partito cinese Zhao Ziyang, considerato il Gorby del fiume giallo. Il primo incontro ci fu, e la delegazione sovietica fece trapelare un certo pessimismo per il destino dei giovani di Tien an Men, mentre, a conferma che la linea dura stava prevalendo mi pare di ricordare che saltò l’incontro, faccia a faccia, fra i due segretari generali.
Io rimasi a Pechino, staccandomi dal convoglio dei sovietici che tornava a Mosca e mi trovai a testimoniare il sanguinoso epilogo finale.
Il viaggio in Italia del novembre 1989
Ma dopo quel viaggio ebbi altre occasioni, tutte puramente fortuite, di trovarmi vicino alla coppia del Cremlino. In particolare nel novembre del 1989, in occasione del suo viaggio in Italia, l’ultimo della sua presidenza.
A Berlino due settimane prima si era sgretolato il muro costringendo Mosca a fare buon viso a cattivo gioco, cercando alla fine di negoziare con l’occidente almeno il sostegno alle riforme che Gorbaciov aveva innestato, senza successo.
In quel volo, in cui i giornalisti italiani erano ovviamente ospiti d’onore, si cominciò a capire che era iniziato l’autunno del patriarca.
Gorby comunque fu ancora più vivace e tenne banco per tutto il viaggio con una sequela di battuta e intonando più volte le melodie italiane che lo appassionavano da ragazzo, in particolare la canzone napoletana Dicitincillo Vuie, che rivelò, sussurrava alla sua Raissa all’università. Quando scoprì che ero di origini napoletane mi volle vicino a lui seduto sul bracciolo, accanto ad una Raissa di grande carisma che con la sua interprete confessò la debolezza sua e del marito per il parmigiano.
Dopo ogni contatto ravvicinato mi chiedevo regolarmente da quale pianeta fosse mai arrivato questo strano personaggio: antropologicamente irriducibile alla tradizione sovietica, con un istinto mediterraneo, una voce baritonale e un sorriso affabulante. Ma debole politicamente. Lo si percepiva, seguendolo da vicino nel tempo, e trovandolo sempre più estenuato nel ripetere la sua fiducia nella capacità del sistema di auto riformarsi. Ed era sempre più solo mentre lo diceva.
L’epilogo. Dal golpe alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Una via crucis
L’Ultimo anno fu una vera via crucis.
Ogni volta che sembrava trovarsi un equilibrio si apriva subito una falla e la barca della Perestroika beccheggiava paurosamente.
Arriviamo al golpe, il 19 agosto del 1991. Ero appena rientrato a Roma da Mosca per le agognate ferie, quando, solo il giorno dopo, all’alba, mi chiama la mia interprete, la ormai nota Natalia, che mi avvisa del colpo di stato.
Prima incredulità, poi mi precipito in redazione, e dopo il solito tira e molla, ero in una delle fasi di frequente declino rispetto alla direzione, avendo trovato un numero telefonico che mi permise già in mattinata di arrivare nell’aula parlamentare della Casa Bianca a Mosca dove erano asserragliati gli eltsiniani, riuscendo a realizzare l’unica intervista con un esponente del parlamento, Evgeni Ambartsumov, presidente della commissione esteri, ebbi il via libera, e via Helsinki, arrivai a Mosca.
Si capì subito che il golpe era una farsa: aeroporto aperto a chiunque, entrata libera nella piazza del parlamento, Boris Eltsin che attraversa tutta la regione di Mosca in auto e imperturbabile entra nel suo ufficio senza nessuna difficoltà.
Tutti sappiamo come è andata a finire.
Il 21 agosto 1991 Gorby rientra con Raissa dal Mar Nero. E’ un altro uomo: spossato, indebolito, senza brio o carica. Uno sconfitto. Raissa ancora peggio, è bloccata da una semi paresi nervosa al braccio sinistro. Ancora grazie al caschetto biondo di Natalia mi trovo sotto la scaletta dell’aereo e Gorbaciov scendendo si dirige istintivamente verso Natalia rispondendo alle domande che avevamo concordato. Un’ora e mezzo dopo l’intervista era già a Roma che impazzava sulle agenzie.
Inizia subito il regno di Eltsin che costringe Gorbaciov a sciogliere il PCUS e fa in modo che falliscano tutti i tentativi di dare forma istituzionale ad una nuova federazione russa. Gorbaciov è licenziato di fatto, con vaghe assicurazioni sul suo futuro.
La notte del 25 dicembre del 1991 con gli operatori tv del server di Giampiero Simontacchi che supportava i servizi del TG3 mi trovai sulla piazza Rossa a filmare l’ammainarsi della bandiera rossa dalla guglia del Cremlino fra l’incredulità , lo sbigottimento e perfino qualche lacrima dei pochi passanti.
Quasi un anno dopo, nell’ottobre del 1992, mi ero appena accreditato per il congresso del Partito Comunista Cinese, il primo dopo Tien an Men e la crisi, che il vecchio Deng Xiaoping, a differenza di Gorbaciov, pilotò abilmente, riportando nell’alveo del partito la protesta.
La seduta di apertura era fissata per il 12 ottobre 1992. Data mitica per il richiamo alla scoperta dell’America.
Qualche giorno prima, proprio mentre chiudevo le valigie, la solita Natalia mi chiama a casa: problemi per Gorbaciov, si parla di un arresto questa volta. Eltsin vuole chiudere la partita.
Le propongo di fare l’unica cosa che potevo garantire: una trasmissione in diretta da Mosca con Gorbaciov che parla all’Italia, dove stava per dirigersi per promuovere la sua fondazione. Vieni e vediamo quello che si può fare, mi risponde l’interprete, che avrete capito era il vero inviato del GR1 a Mosca. Propongo a Livio Zanetti, il direttore degli scoop del GR1, uno straordinario giornalista competitivo, l’azzardo: mandami a Mosca con un paio di tecnici bravi che vediamo di imbastire una puntata speciale di Radio Anch’io. Ma conoscendo la sua sensibilità, lo solletico sulla sua vera ambizione: l’esclusiva. Mi raccomando, aggiungo, dobbiamo fare tutto in silenzio altrimenti sia a Mosca che forse a Roma scoppia la grana. Il direttore per eccellenza non attendeva altro: si vara l’operazione Gorby.
Arrivo a Mosca e Natalia mi porta subito alla Radio Eco di Mosca, l’emittente della perestroika che si era guadagnato i galloni di autonomia dal Cremlino sia prima che dopo il crollo dell’URSS.
Con i due responsabili, stretti collaboratori di Gorbaciov andiamo a casa dell’ex segretario sovietico, sulla famosa collina dei passeri. Inizia una lunga trattativa: il rischio è che Eltsin colga al balzo la palla di una trasmissione con un paese estero per accusare Gorbaciov di sabotaggio e tradimento. Bisogna agire con la massima cautela e riservatezza. Gorbaciov mostra grande coraggio: lui la vuole fare a tutti i costi, mi chiede con insistenza se sono sicuro che il programma avrà un buon esito in Italia. Con grande tenerezza mi confessa: ormai il mio popolo siete voi, all’estero. Si scopre un risvolto crepuscolare nel campione della perestroika: capisce che è a fine corsa, ma sa anche che ha fatto la storia.
In un giorno imbastiamo uno studio radiofonico in uno sgabuzzino grazie a due talenti della radio che arrivano da Roma, Diego Panbianco e Walter Cometti.
Acqua in bocca con tutti, anche con la sede Rai di Volcic.
Siamo al 12 ottobre mattina, proprio il giorno in cui a Pechino iniziava il congresso cinese che avevo programmato di seguire. Sto morendo dalla tensione.
Tutto è pronto: in Italia Zanetti ha lanciato il programma speciale, con grande battage. Non possiamo bucare.
Ma la notizia del mattino è che si teme proprio un arresto per Gorbaciov: riuscirà ad arrivare in studio?
Esattamente alle 9, ora di Roma, a Mosca sono le 11, vedo affacciarsi dalla minuscola porticina che protegge lo studiolo quella inconfondibile voglia rossa che disegna un profilo analogo al continente latino americano sulla fronte allora più spaziosa del mondo: quella di Michail Gorbaciov.
La trasmissione ha inizio: un trionfo. Per tre ore tutta l’Italia si precipita al telefono per parlare con Gorbaciov: parlamentari, ministri, grandi industriali, intellettuali, calciatori, prelati. Tutti si accalcano ai microfoni per stringersi attorno al leader della perestroika. Lo sguardo di Gorby, ogni volta che gli facevo sapere che andavamo avanti di un’altra mezz’ora perché la folla era troppa in collegamento è indimenticabile: un sorriso commosso di un vecchio leone che sentiva il suo ruggito nel mondo.
È stato un grande, appassionato, cocciuto rianimatore di un cadavere. Aveva attorno dei becchini e non infermieri.
Ha avuto contro dei cinici avventurieri che ancora oggi ci minacciano.
Spassiba Gaspodin president!