Negli Anni Ottanta, il presidente della Commissione europea, Jacques Delors, un socialista, ma cattolico, accoglieva Papa Wojtyla a Bruxelles lamentando un’Europa “divisa dalla cortina di ferro” e schiacciata “sotto gli altari di marmo”. Né Delors né Giovanni Paolo II lo immaginavano, ma, di lì a poco, la cortina di ferro sarebbe caduta, anche grazie, anzi soprattutto grazie a Mikhail Gorbaciov, arrivato al potere nell’Urss l’11 marzo 1985 e artefice della perestrojka e della glasnost.
La Guerra Fredda era affare di Urss e Usa: la condivisione di Washington con gli alleati avveniva alla Nato. L’allora Comunità economica europea non aveva voce in capitolo o quasi. Al massimo, era ammessa ai briefing che i presidenti degli Stati Uniti facevano ai partner dopo i loro Vertici: così fece Ronald Reagan nel novembre 1985, dopo avere conosciuto Gorbaciov a Ginevra; e ancora nell’ottobre 1986, dopo il celebre e decisivo Vertice di Rejkyavik, con l’accordo sugli euromissili; e così fece George W. H. Bush dopo il Vertice sulle Navi a Malta nel dicembre 1989, l’ultimo di cui Gorbaciov fu protagonista.
Quando era leader sovietico, Gorbaciov non venne mai a Bruxelles. Fu, piuttosto, il presidente Delors ad andare a Mosca nel luglio 1990, tornandone con una richiesta di aiuti perché il leader della glasnost aveva bisogno “di assistenza a breve termine” perché “la riforma economica”, cioè l’evoluzione verso un’economica di mercato, fosse accettata nell’Unione sovietica. La risposta fu riluttante, reticente, elusiva, insufficiente.
Gorbaciov sentiva di avere poco tempo, forse non pensava che fosse così poco: a Natale del 1991, neanche 18 mese dopo, la bandiera dell’Urss veniva ammainata per l’ultima volta sul Cremlino; e lui si ritrovava cittadino di una Russia smembrata e impoverita, senza né potere né credito in patria. I suoi meriti, agli occhi degli occidentali, erano colpe, agli occhi dei suoi connazionali.
Trent’anni dopo, e dopo la sua morte, Gorbaciov resta di gran lunga più ammirato e celebrato all’estero, in Occidente, che in patria. Il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha concluso l’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite richiamando il suo discorso del 1988 centrato sulla necessità della cooperazione per affrontare i problemi globali.
Le crisi innescate dalla guerra, “alimentare, energetica, economica”, richiedono – ha detto Draghi, con parole ben soppesate – di “riscoprire il valore del multilateralismo” e impongono di ribadire che la violenza gratuita non può avere spazio nel XXI Secolo.
Ma la vicenda di Gorbaciov, e la parabola della Russia dopo la dissoluzione dell’Urss, suggeriscono un’ulteriore riflessione.
Se l’Occidente fosse stato meno gretto di fronte alla richiesta di aiuto fatta da Gorbaciov a Delors nell’estate 1990, forse la Russia non avrebbe vissuto la Grande Depressione degli Anni Novanta e non si sarebbe affacciata al XXI secolo con la voglia di rivalsa e l’aggressivo nazionalismo che ora la anima.
La storia non si fa coi ‘se’, ma la generosità è sempre l’opzione migliore per trasformare un nemico in un sodale. Umiliarlo nella sconfitta getta il seme di nuovi conflitti, non di una pace prospera e duratura.