Venceslav Soroczynski, pseudonimo di un giovane scrittore e critico letterario e cinematografico italiano inaugura una nuova rubrica di Democrazia futura, Tiro a segno, prendendosela con l’attuale stagione “Giornalismo italiano e analfabetismo funzionale”, contrapponendola al “tempo in cui, a parità di schifomondo, qualcosa di bello da leggere sui giornali c’era”. A questo proposito l’autore invita i nostri lettori a leggere o rileggere “I corsivi di Giorgio Manganelli degli anni Sessanta e Settanta raccolti in Mammifero italiano (2007). “Quando vi chiedete il perché della rovina della patria, probabilmente sono numerose e disordinate come frane le ragioni che vi sovverranno” scrive l’autore aggiungendo. “Ai primi posti nella classifica dei colpevoli è però, a mio parere, il giornalismo italiano, la cui parola è ogni giorno più vana, vacua, ipertrofica, banale, attesa, priva di ironia e di sfumatura. Il quotidiano peninsulare è come una prostituta che, oltre a non darci l’ansia da rifiuto, non ci innesca neppure più il richiamo della bellezza. Le testate, soprattutto nella loro versione on-line, meriterebbero delle testate con l’ariete della distruzione, delle fiamme, dello stacco della spina e del taglio della connessione. Se si potesse rovesciare il proprio acido gastrico lungo i cavi che ci connettono ai server dei grandi giornali, io vomiterei tutte le mattine e la sera dalle 23 alle 23 e 30. Le prime pagine sono progettate, realizzate e conculcate con il preciso scopo di trasformare il pensiero in istinto di gregge, il cittadino in guardone, il pensatore in analfabeta funzionale, l’ignorante consapevole in incolto soddisfatto. Non c’è altra spiegazione […] Secondo questo giovane scrittore “L’informazione italiana punta al ribasso, alla curiosità, all’aneddoto, all’intrattenimento dei tre minuti, ché un maggiore sforzo intellettuale pare impossibile, o inopportuno.” Al contrario, gli articoli scritti da Manganelli circa mezzo secolo fa, “Se decidete di leggerli, io scommetto che mi direte che vi sono piaciuti, ma anche che non si trattava di notizie. Sì, è vero: non sono notizie, ma, su un quotidiano ci stavano bene lo stesso. E poi, in primo luogo, questi articoli commentavano le notizie, o le tendenze, o il fare delle istituzioni, o delle masse, quindi erano il contorno delle notizie, grazie alle quali esse venivano definite, ritagliate, fotografate. Insomma, aiutavano a capire il perché dei fatti […] Manganelli, infatti, ha fatto sorridere (senza mai rinunciare all’eleganza della sua prosa che, a mio parere, è stata fra le migliori del secolo scorso e, sempre a parere mio, non è tutt’ora eguagliata da alcuno) su temi di primario interesse per la nazione: il nucleare, l’aborto, la famiglia, il calcio, le tasse, il sedere, l’inglese, il latino, i democristiani, le raccomandazioni, il divorzio”.
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Quando vi chiedete il perché della rovina della patria, probabilmente sono numerose e disordinate come frane le ragioni che vi sovverranno: i ministri incompetenti e ciononostante incolumi, la giustizia malata terminale, la politica incapace di capacitarsene, la corruzione della carne e dell’edilizia pubblica, le buche sulle strade di Roma e sulle strade per Roma, il fatto che l’Otto per mille ma non lotto per niente. E altre ancora, perché ogni istituzione della Repubblica, ogni istinto del privato cittadino e ogni privazione dell’istinto cittadino paiono originare la decadenza di ciò è stato splendido solo pochi decenni o secoli addietro.
Ai primi posti nella classifica dei colpevoli è però, a mio parere, il giornalismo italiano, la cui parola è ogni giorno più vana, vacua, ipertrofica, banale, attesa, priva di ironia e di sfumatura. Il quotidiano peninsulare è come una prostituta che, oltre a non darci l’ansia da rifiuto, non ci innesca neppure più il richiamo della bellezza. Le testate, soprattutto nella loro versione on-line, meriterebbero delle testate con l’ariete della distruzione, delle fiamme, dello stacco della spina e del taglio della connessione. Se si potesse rovesciare il proprio acido gastrico lungo i cavi che ci connettono ai server dei grandi giornali, io vomiterei tutte le mattine e la sera dalle 23 alle 23 e 30.
Le prime pagine sono progettate, realizzate e conculcate con il preciso scopo di trasformare il pensiero in istinto di gregge, il cittadino in guardone, il pensatore in analfabeta funzionale, l’ignorante consapevole in incolto soddisfatto. Non c’è altra spiegazione. Provate a raggiungere il corriere.it, la repubblica.it, il giornale.it, o qualsiasi cosa.it. Invariabilmente, troverete la conta degli infettati, dei deceduti e dei intensoterapizzati d’Italia e del mondo; poi il risultato della giornata di campionato, domestica o estera non importa, basta che il calcio del pallone sia presente – tanto da tentarmi a preferire il calcio del fucile, essendo la canna vietata dalle norme vigenti; poi c’è lo spazio dedicato al vaccinante vaticinante o al vaccinatore vacillante; subito dopo c’è l’articolo sulla modella o sull’attore; a seguire, il pettegolezzo su ogni cosa (non so grazie a quale demiurgo illuminato, sono scomparsi gli articoli sui reality, ora sostituiti dalle curiosità sui social); poi si raggiunge il massimo della depravazione intellettuale, trattandosi di quotidiani: il video curioso o divertente. Non manca mai, come se in ogni scambio di contenuti immateriali debba esserci la mano di youtube. E allora ecco che la prima pagina del giornale non può rinunciare al portiere che para col culo, al cane che salva il cavallo, al surfista che non fa schiuma, all’inseguimento fra la Panda e il panda.
Il punto è che il giornalista non parla di ciò che importa, ma di ciò che pensa che importi a noi. Non è dunque un falsario, ma un venditore di realtà e vende bigiotteria scritta. E invece:
“L’unica facoltà che potrebbe oggigiorno caratterizzare l’intellettuale è il fiuto avanguardistico per ciò che è rilevante”[1].
L’informazione italiana punta al ribasso, alla curiosità, all’aneddoto, all’intrattenimento dei tre minuti, ché un maggiore sforzo intellettuale pare impossibile, o inopportuno. Così, chi non può comprare il giornale – perché non può uscire o perché sul computer fa ogni cosa, per cui non può interrompere la propria esistenza per andare in edicola – deve scansare tutto questo materiale per trovare una notizia davvero interessante… o meglio, una notizia tout court.
Se trovare la notizia è difficile, figuriamoci trovare un oggetto definibile come qualcosa di bello da leggere. E non ditemi che sia troppo il pretendere di trovare qualcosa di bello da leggere su un quotidiano. Già, non ditemelo perché l’esperienza e la storia dimostrano il contrario. Vi è stato un tempo in cui, a parità di schifomondo, qualcosa di bello da leggere sui giornali c’era.
Il che ci porta all’argomento di questa mia nota: Giorgio Manganelli. Egli dimostra il contrario di ciò che parrebbe una condanna per l’umanità. La dimostrazione è il libretto che vedete quassù, che raccoglie alcuni suoi scritti degli anni Settanta e Ottanta, pubblicati sui maggiori quotidiani italiani del tempo, che poi sono gli stessi dei nostri giorni. Se decidete di leggerli, io scommetto che mi direte che vi sono piaciuti, ma anche che non si trattava di notizie. Sì, è vero: non sono notizie, ma, su un quotidiano ci stavano bene lo stesso. E poi, in primo luogo, questi articoli commentavano le notizie, o le tendenze, o il fare delle istituzioni, o delle masse, quindi erano il contorno delle notizie, grazie alla quali esse venivano definite, ritagliate, fotografate. Insomma, aiutavano a capire il perché dei fatti e non ditemi che non importa: “Capisco come. Non capisco perché”[2]. In secondo luogo, ammetterete che il fatto che vi sia qualcosa di divertente, intelligente, originale, ficcante sui giornali, è esso stesso una notizia.
Manganelli, infatti, ha fatto sorridere (senza mai rinunciare all’eleganza della sua prosa che, a mio parere, è stata fra le migliori del secolo scorso e, sempre a parere mio, non è tutt’ora eguagliata da alcuno) su temi di primario interesse per la nazione: il nucleare, l’aborto, la famiglia, il calcio, le tasse, il sedere, l’inglese, il latino, i democristiani, le raccomandazioni, il divorzio. Sempre con un tono che non aveva lo scopo di fare lezione, ma che piuttosto costruiva ponti su cui il lettore poteva attraversare il contemporaneo senza morire di noia:
“L’introduzione del divorzio ucciderà in Italia una delle fondamentali istituzioni del mondo occidentale, una delle poche rimaste pure e schiette: l’adulterio”.
L’ironia stava seduta come su un trono d’oro, in quelli che la critica definì “corsivi fulminanti”. Purtroppo, io non li lessi all’epoca, perché, giustificato dalla mia data di nascita, mi occupavo di Goldrake e di Magnum P.I., ma li ho fra le mani oggi e vi assicuro che quella vena comica non si è spenta, nonostante siano trascorsi decenni. Ché tanto, nella penisola (l’Italia è come una madre avara e insieme indulgente, che “non dà il dovuto ma si lascia insolentire”, garantendo così “una lamentosa e innocua esistenza”), i problemi sono sempre gli stessi e, se mai sono stati risolti, potete stare certi che qualcuno non vede l’ora di mettere in discussione quelle soluzioni, per prendersi qualche voto in più dagli elettori morenti o dai lettori morti.
Mancando spiriti come il suo, non possiamo leggere oggi corsivi parimenti vertiginosi su Trump, su Renzi, su Salvini, su Maradona, sull’epidemia e sul vaccino, sui vegani e sugli astemi, sulla paura della morte e sulla morte della paura, sull’eccesso di velocità e sull’eccesso di voracità, sulla Formula 1 e sulla formula segreta. Insomma, salvo che il nuovo anno non porti qualche intellettuale che sappia anche farci pensare e sorridere allo stesso tempo e che non abbia paura della paura che i giornali hanno della politica, dobbiamo accontentarci della realtà. E l’ironia mettercela da soli, se ancora ci riusciamo.
Vi lascio chiedendovi se non sembra scritta stasera, anzi domattina, questa sua tenue rasoiata:
“Le autorità sono vaghe, che è appunto l’indizio che sono autorità. I tecnici sono competenti, e ottengono, con la esattezza, gli stessi risultati che le autorità conseguono con la vaghezza” (14 aprile 1977).
[1] Juergen Habermas, 10 marzo 2006
[2]George Orwell, 1984