Per la rubrica “Il piacere dell’occhio” Venceslav Soroczynski spiega per i lettori di democrazia futura perché ” A metà fra la storia e il sogno, fra il ricordo e l’incubo, fra la testimonianza e la predizione” considera “Skazka – Fairytale (2022), un film capolavoro di Aleksandr Sokurov”. “C’è qualcuno per cui il fare cinema non è un semplice atto artistico, ma un’elaborazione di significati profondissimi che conduce a opere a metà fra la storia e il sogno, fra il ricordo e l’incubo, fra la testimonianza e la predizione. Il russo Aleksandr Sokurov – a mio parere – scrive Soroczynski – uno dei maggiori registi viventi, che vede i sui correlativi occidentali solo in Terrence Malick e Michael Haneke – infarina ancora una volta la velenosa anima del Novecento, per poi mandarla sullo schermo in tutta la sua crudezza uno dei maggiori registi viventi, che vede i sui correlativi occidentali solo in Terrence Malick e Michael Haneke – infarina ancora una volta la velenosa anima del Novecento, per poi mandarla sullo schermo in tutta la sua crudezza”.
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Churchill, Hitler, Mussolini e Stalin si ritrovano all’inferno. Sembra l’inizio di una barzelletta, invece è una tragedia, nel senso più oggettivo del termine.
Aleksandr Sokurov mette sulla stessa scena i quattro personaggi storici in cammino verso il giudizio universale. E a essi affianca un Gesù Cristo la cui correttezza politica comincia, dopo duemila anni, a dare perfino un po’ fastidio.
Tutti si parlano, si sfottono, si redarguiscono. E, dopo aver citato l’incipit della commedia dantesca, cercano di prevalere l’uno sull’altro.
Se guardate questo film, già alla prima scena vi chiederete con quale tecnica è stato realizzato. Ebbene, Aleksandr Sokurov ha ritagliato da immagini d’archivio i corpi dei guerrafondai che hanno distrutto l’umanità e li ha fatti muovere e dialogare in colloqui che vanno dal mistico all’ironico, dal documentale al fantastico, in uno scenario plumbeo, rimbombante, cupo, sospeso. Per lo sfondo, ha usato le incisioni di Gustave Dorè, Albrecht Dürer, Giovanni Battista Piranesi e Strange Robert.
Il risultato è, quale ci si aspetta da un genio, qualcosa di mai visto prima: i movimenti collimano, gli sguardi si incrociano e le parole si pronunciano come in veri colloqui. Tutto è sincrono, sensato e macabro.
Di conseguenza, può capitare, in scene che diventano improvvisamente esilaranti, che Adolf Hitler appoggi bonariamente la mano sul polso di Winston Churchill o che Josip Stalin apostrofi Gesù Cristo:
“Sveglia, pigrone, vestiti e alzati!”
“Mi fa male tutto… ma ricordo tutto…”
“Ti fa male? Striscia da tuo padre! Lui ti guarirà.”
“Non posso, sono in fila, come tutti gli altri.”
“Sei in fila… e fai innervosire tutti.”
C’è qualcuno per cui il fare cinema non è un semplice atto artistico, ma un’elaborazione di significati profondissimi che conduce a opere a metà fra la storia e il sogno, fra il ricordo e l’incubo, fra la testimonianza e la predizione.
Il russo Aleksandr Sokurov – a mio parere uno dei maggiori registi viventi, che vede i sui correlativi occidentali solo in Terrence Malick e Michael Haneke – infarina ancora una volta la velenosa anima del Novecento, per poi mandarla sullo schermo in tutta la sua crudezza.
«Prima di vedere il mio film», raccomanda Aleksandr, «non fantasticate, non immaginate niente».
E fa bene ad avvisarci, perché il film non si può immaginare. E forse neanche capire. Ma non dite “Non si capisce”, perché è la guerra che non si capisce: ve la ricordate o no l’osservazione che fece uno che sulla guerra aveva imperniato uno dei più grandi romanzi del Novecento?
“La guerra, insomma, era tutto quello che non si capiva”.
Questo film non è un’opera di cinema come siamo abituati a pensarle.
È un pungiglione ben sistemato sui sedili delle sale buie, che ci rimanda ad altri capolavori del secolo scorso, che, evidentemente, non sono bastati. Né alla storia né al cinema, che non poté far altro che ospitare pellicole come il potentemente metaforico Apocalypse now di Francis Ford Coppola che, partito dalla splendida testimonianza di Joseph Conrad, con grande sapienza e lungimiranza la adattò alla guerra del giorno. O il poetico La sottile linea rossa di Terrence Malick, intimo nella voce narrante, letterario nello stile del racconto, bipartito nella sonorità, struggente nel suo porgersi alto, asettico, distinto, freddissimo. L’avete capito (no?) che la canaglia atlantica, oltre a produrre cinema spettacolare, si occupa anche di provocare sanguinose, e altrimenti inspiegabili, tragedie storiche, al solo scopo di ispirare il miglior film del decennio seguente?
L’ossessione per il museo, dunque per la Storia, dunque per la guerra in un bianco e nero onirico
Ebbene, Aleksandr Sokurov, che ha a cuore il tema della storia – e che aveva già dato prova di una sensibilità introvabile sui lidi, sui tappeti rossi, sulle Croisette, fra i peli degli orsi con Francofonia, in cui la sua ossessione per i musei è diventata ossessione per ‘il’ museo, dunque per ‘la’ Storia, dunque per ‘la’ guerra – a distanza di sette anni prova a spiegarcelo di nuovo. E lo fa con un bianco e nero lento, spazialmente prospettico, volutamente onirico, in cui i sopracitati elaborano ragionamenti o squadernano follie.
E gli uomini? Dove sono gli uomini, in questo quadro fantastico? Essi appaiono una massa che defluisce come liquido impotente verso destinazioni ignote, in forre inquadrate dall’alto, sovrastate da alture piene di soldati morti, smembrati, giovinezze sacrificate all’invidia dei vecchi, che li uccidono mandandoli a morte contro altri ragazzi mandati a morte da altri vecchi invidiosi.
La guerra serve a distruggere anzitutto il proprio popolo, poi a distruggere gli altri, suggerì qualcuno.
“Valorosi soldati, alzatevi!”,
dice Hitler ai corpi martoriati. E il soldato tedesco, prossimo alla morte, risponde:
“Mi alzerò e ti ucciderò una volta per tutte.”
Ma mentre il ragazzo spira nella polvere, chi ha voluto la sua morte passeggia, fra battute poco divertenti e stralci da fanatici comizi. A un certo punto, ai piedi dei quattro leader (leader e Führer sono la stessa parola?), non c’è il popolo dei tedeschi, o quella degli italiani, o degli inglesi o dei russi, bensì una sola massa indistinta. Sokurov ci mostra che la guerra è voluta da chi non vi perisce. E gli esempi si sprecano anche fuori dalle sale cinematografiche, perché, mentre, ai piani alti, una guerra è qualcosa di più divertente di un Risiko, a quelli bassi, è qualcosa di più terribile dell’inferno.
La poetica di Sokurov non si esaurisce nel battere il ciak dopo aver ordinato all’attore:
“Alzati e sorridi”.
Il russo è un pensatore roso dai temi politici, disgustato dall’orrore del mondo, studioso delle vicende storiche. E Skazka è appunto un indice puntato sulla storia, non allo scopo di accusarla, bensì per farle l’autopsia: non si può far altro di chi muore ogni volta allo stesso modo. Questo è il debole di Alexandr: provare a spiegare a degli ignavi che non importa sotto quale insegna uccidano, è l’uccidere il primo crimine. E il secondo è dimenticarsene.
Un ampio assaggio l’avevamo avuto con la tetralogia del potere e un indimenticabile monito ci viene dal protagonista di quel capolavoro che è Arca russa:
“Tutti possono conoscere il futuro, è il passato che non si conosce”.
Se il suo talento non ha mai perso lucidità, temo che il suo spirito stia perdendo le speranze nel genere umano. Non mi spiego altrimenti le parole più disincantate del film, che uno dei protagonisti pronuncia sottovoce: