In questa “Lettera da Bruxelles” Stefano Rolando riferisce di alcuni suoi incontri con “amici di lunga data che si sono molto dedicati alla causa europea, per sondare un po’ gli umori “interni” circa il significato e le conseguenze” delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo del prossimo giugno. Ne emerge un quadro a tinte piuttosto fosche riassunto nel titolo dell’articolo “Europeisti un po’ demoralizzati[1]“.
Mancano poco più di quattro mesi alle elezioni europee. Vista dai paesi membri, tra cui l’Italia, l’Europa – come è sempre stato – c’entra poco con la campagna elettorale, si parla e si parlerà d’altro e si finirà sulle facce dei candidati, questo meglio, questo peggio. Vista dal quartier generale europeo (una gigantesca parete ti accoglie all’aeroporto di Zaventem per ricordarti di andare a votare) l’Europa dà lavoro a tanti, è nel cuore della città, interessa a tutti che funzioni. E poi qui ci sono ancora vecchi europeisti, con l’età d’oro del sogno europeo parte della loro vita, che non si sono ancora arresi. Anche se un po’ demoralizzati.
Sono a Bruxelles per un negoziato umanitario presso la struttura delle Relazioni Internazionali dell’Unione Europea e, a slalom con il mio impegno, vedo amici di lunga data che si sono molto dedicati alla causa europea, per sondare un po’ gli umori “interni” circa il significato e le conseguenze di queste elezioni. Sono alloggiato in un quartiere non propriamente periferico – dalle parti della Gare du Midi – ma certamente periferico al quartiere delle istituzioni comunitarie. E vista da qui Bruxelles è una città urbanisticamente parte della trasformazione europea, con un elegante centro storico, ma socialmente ibridata, un po’ délabrée, con evidenti tracce disuguali.
Non è dunque il trionfo dell’Unione europea che corrisponde alle sue strutture diciamo moderne e abbastanza faraoniche. Qui il grande resto della città è a piani bassi, non pochi negozi chiusi, radi avventori al mattino nei bar operai. Infreddolite passanti per un po’ di spesa. Persino – fuori dalle grandi arterie – traffico occasionale.
Detta così mi pare la scenografia giusta per comprendere e narrare il dualismo dell’Europa.
Che ha la sua narrazione nell’immaginario piano alto del continente (la “Milano vicino all’Europa” di Lucio Dalla), a cui tendere tutti per migliorare. Ma che in realtà si colloca con realismo nella complessità media europea.
Trovando e rappresentando un punto intermedio tra l’Europa lussuosa, altoborghese, degli affari e delle vetrine tirate a lucido. E l’Europa che somma migranti e anziani residenti un po’ fuori dai cicli produttivi, con una manutenzione urbana non sempre sufficiente che è tema di quasi tutti i nostri sistemi urbani, con il loro centro e le loro periferie. Questo dualismo vede allargare le cinture della serie B e vede – essendo impossibili i ponti levatoi delle città-Stato – forme di protezione e di esclusività: alte cancellate, alberi fitti a lato dei giardini, sbarre alle vie private, City Angels sui marciapiedi, eccetera.
Malgrado non si raggiungano i conflitti parigini, anche Milano è entrata in questo dualismo, dominato dalla cosiddetta “città sicura” rispetto alla “città insicura”. Argomento che esiste anche a Bruxelles, avendo io ricevuto molti avvertimenti circa il territorio della Gare du Midi in cui sta il mio albergo.
Si legge che nelle aree periferiche i residenti di vecchia data non avvertono sempre adeguata protezione e gli immigrati, largamente brava gente operosa ma che per il solo fatto di avere la maggioranza nelle scuole, sui marciapiedi e nei mercati, trasforma il clima in un teatro di sospetti.
Ho raccolto qualche testimonianza in queste giornate.
Mi dice un vecchio amico funzionario alla Commissione da tempi gloriosi per i federalisti:
“Se la vedi da qui l’Unione europea, cioè standoci dentro, temo che sia definitivamente svanita l’interpretazione della cultura delle aree intermedie, quindi della garanzia della tenuta del welfare europeo, diciamo del profilo socialdemocratico che taglia via un po’ l’alto e il basso della scala sociale e rafforza il ceto medio. Un po’ è diminuito il ceto medio, un po’ è evaporato il ceto politico che lo rappresentava, un po’ l’orgoglio di rappresentare una forza contro le disuguaglianze ha lasciato il passo alla rappresentazione delle disuguaglianze”.
In un certo senso questa trasformazione va proiettandosi anche sulla trasformazione civile della mission degli stessi operatori nelle istituzioni europee. Continua il mio amico:
“Una volta eravamo più motivati socialmente e in senso alto politicamente. Ora vedo tutti chini sulla carriera, ma anche tutti con una mission diciamo tecnica, senza molte passioni e se vogliamo forse anche senza molte illusioni. Troppa stagnazione negli ultimi quindici, venti anni”.
È chiaro che l’altro dualismo – quello politico, interpretato dai due schieramenti dei paesi membri, gli europeisti e gli euroscettici – ha preso un suo prolungato protagonismo.
Me lo spiega meglio un altro di questi funzionari cresciuti qui ma nelle maglie del Consiglio, dove cioè comandano, come azionisti dell’Europa, gli Stati-Nazione.
“Immaginati questo 2024 – dice – con in mezzo l’incognita delle elezioni. E nel primo semestre con il Belgio al comando e nel secondo semestre con l’Ungheria. Come dire i due schieramenti a fare e disfare l’agenda. È vero che l’esito delle elezioni in Polonia ha ridato fiato all’europeismo. Ma stanno nascendo nuovi malesseri”.
Ricorro a questo punto a una donna, efficace antenna a Bruxelles della Banca europea che ha sede a Francoforte. Mi dice:
“Si potrebbe dire che la domanda di maggiore integrazione europea c’è: più difesa, più sicurezza, più bilancio in comune, più programmazione degli investimenti, più difesa dello Stato sociale per tutti. Ma il tema economico domina e ha sempre dominato l’Europa. E l’aria è quella di un’altra domanda, forte e sostenuta un po’ da tutto il sistema di impresa: più protezionismo. E per sua natura questo protezionismo ha sempre gonfiato i muscoli della politica nazionalistica”.
Viene da pensare a Mario Draghi, che si appresta a mettere mano al rapporto sul futuro della competitività europea. Ha riunito nella sede della Banca d’Italia a Milano una sessantina di rappresentanti dell’impresa europea, di recente. Credo volesse veder chiaro appunto su questo duello. Da cui dipende la sincera adesione di quel mondo a un progetto competitivo che ha bisogno di un’Europa più integrata. Non si sa bene cosa si siano detti. Non sono stati fatti comunicati. Pare chiaro che è una partita aperta.
Ed eccoci così all’amico di lunga esperienza giornalistica, corrispondente ed esperto di cose politiche che appartengono di più Parlamento europeo:
“Ma chi vuoi che si metta a discutere in campagna elettorale di questi veri temi? Su cui i partiti politici in Europa sanno poco. Faranno come sempre generici riferimenti. Ma la sostanza sarà quella di combattersi al proprio interno per piazzare gente. Sarà un’altra occasione perduta per spiegare agli elettori quali sono le poste in gioco. Più l’Europa va avanti così più l’altra Europa – per capirci Putin e sodali – si fregano le mani”.
E nella seconda pre-serata a disposizione sono nel conforto della Galerie de la Reine, a un passo dal venezianismo della Grand Place, a provare una di quelle imparagonabili birre scure belghe con un amico milanese con cui a Milano condivido quartiere e liceo classico di un tempo e che sta da anni a Bruxelles.
”Il mio argomento non è popolare. Ma qui – sede europea e della Nato a un passo – lo si percepisce abbastanza. L’Europa non doveva schiacciarsi così sulla Nato, dimenticandosi di intromissioni nei nostri paesi senza riguardi. Dovevamo trovare un modo di avere influenza sulla Russia. Adesso paghiamo anche questo conto. E dal punto di vista geopolitico queste elezioni sono senza fisionomia. Hanno tolto di mezzo la Merkel che su quella posizione più astuta aveva da insegnare qualcosa a tutti”.
Riporto questo pensiero per non censurare le mie micro rilevazioni. Viene da uno studioso serio e lo consulto perché usa paradigmi diversi da quelli per noi abituali. Certo è segno oggi di un sentiment un po’ trasformato rispetto a due anni fa.
E comunque a questo punto la mia inchiestina veloce, due giornate con al centro un tema spinoso che forse può muovere un residuo coraggio umanitario nelle strutture europee, può misurare questi sintetici elementi nevralgici. E non andare molto oltre.
E tuttavia proprio perché anche l’Europa, che non è l’isola felice in cui tutto è risolto, risolto in avanti, compiuto, diciamo pure realizzato, potrebbe motivare i soggetti politici nazionali a fare le antiche battaglie: quelle dello studio e dell’analisi delle proposte di miglioramento, della riforma stessa dell’Europa che passi attraverso scelte strategiche ora in frigorifero, per poi riordinare strutture e modelli organizzativi.
Sempre nel giro degli “amici europeisti” recupero anche (dalle colonne del fascicolo di gennaio di Mondoperaio) un breve inventario di uno di loro (Roberto Santaniello, che oggi dirige il delicato centro demoscopico europeo di Eurobarometro) che chiede di non trascurare almeno le cose buone che questa Europa ha fatto nel quadro delle note varie crisi degli ultimi anni, fatta salva la maltrattata questione migratoria. Questo il passaggio:
“Di fronte a queste emergenze, l’Unione europea ha dato prova di capacità di risposta, prendendo decisioni per contrastare la pandemia, per conseguire l’obiettivo delle neutralità climatica, per costruire una società digitale e infine per essere al fianco dell’Ucraina nel difendere la sua indipendenza di fronte all’aggressione russa. La più importante di queste decisioni è stata senza dubbio la creazione di un debito pubblico europeo necessario a finanziarie i “Piani per la Ripresa” (Recovery Plan) per superare gli effetti economici della Pandemia. Alcune di queste risposte devono essere tuttavia rafforzate, altre sono del tutto insufficienti, come nel caso del Patto per la migrazione, dove l’accordo fra il Consiglio ed il Parlamento europeo per riformare il regolamento di Dublino è ancora lontano dall’essere raggiungo e allo stato attuale non va al di là della sola sicurezza interna e di fatto ignora la dimensione dell’accoglienza”.
Va detto che alcuni dei pensieri raccolti appartengono all’epoca in cui essi venivano coltivati come cultura generalizzata della politica. Ora tutti i soggetti di cui anche questa mia inchiestina si occupa (l’Europa, i parlamenti, i partiti) sono tutti al di sotto della maggioranza della fiducia collettiva.
Sommateci la robusta astensione in atto.
Ed ecco il significato simbolico di collocare questi brevi ascolti di testimonianze nella cornice di città come Bruxelles che evocano la grande Europa ma che in realtà contengono per il momento palazzi cintati contornati da sistemi sociali confusi e forse senza più una chiara e profonda domanda di Europa.
Mentre mi appunto qualche impressione sono su un taxi in cui il giovane autista marocchino ascolta sul telefonino una litania del Corano. Me ne interesso con garbo. E mi dice che
“la religione è la cosa più importante, come mi ha insegnato mio padre, e ad essa dobbiamo sottometterci”.
Difficile fare con lui la quadra, per esempio sull’idea che più sottometterci dovrebbe “elevarci”.
In ogni caso, sull’insieme delle opinioni raccolte, le cose che appaiono amare sono riportate per provocare un po’ di legittima reattività.
Ma per equilibrare un po’ la percezione è doveroso aggiungere che – pur con parole diverse e contesti diversi – quali tutti i miei interlocutori mi hanno detto a un certo momento:
”…e guarda che qualcuno ci sarebbe ancora”; o anche: “c’e ancora chi sa mettere le mani nelle carte e la testa nei rapporti giusti… ; oppure : “si va verso la tabula rasa ma i giovani non sono male”.
Insomma, mettiamola così: il giudizio ponderato sulla situazione è ancora attaccato a un “dipende”.
In quel “dipende” i primi sondaggi sui possibili esiti elettorali che circolano (pubblicati da poco da politico.eu) prevedono il successo della coalizione cosiddetta “Ursula” (Popolari, Socialisti, Renew Europe), ove confermata, con il possibile concorso dei Verdi.
E per concludere, a dar senso a questo “dipende” mi aiuta la memoria di un amico, grande europeista e con la vita dedicata all’Europa, che fu Bino Olivi che ci ha lasciati nel 2011 (per quasi vent’anni a capo della comunicazione della Commissione europea) che aveva una massima per i tempi bui:
“Ricordatevi che tutti gli scatti in avanti, non pochi, fatti dall’Europa, sono avvenuti sempre nei momenti in cui stava per toccare il fondo”.
[1] IlMondoNuovo.club, 27 gennaio 2024. Cf. https://stefanorolando.it/?p=8737.