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Democrazia Futura. Europeismo versus Risorgimento

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in Storia contemporanea |

L’impossibile convivenza di visioni identitarie contrapposte renderà inattuabile a sinistra il tentativo di riappropriazione dell’universo valoriale legato alle idee di Patria e Nazione: l’Europa unita e federale si farà solo contro di esse.

Giulio Ferlazzo Ciano

Giulio Ferlazzo Ciano offre oggi un lungo studio “Europeismo versus Risorgimento” nel quale denuncia i goffi tentativi di accostare l’apostolato mazziniano con quello degli europeisti.  L’autore denuncia quello che nell’occhiello definisce “L’impossibile convivenza di visioni identitarie contrapposte renderà inattuabile a sinistra il tentativo di riappropriazione dell’universo valoriale legato alle idee di Patria e Nazione: l’Europa unita e federale si farà solo contro di esse”. La lunga disamina affronta varie tematiche: Le destre all’assalto della Patria, Ma il cuore della Patria – precisa – non batte a destra; internazionalismo e cosmopolitismo, L’inesistente visione nazionale della sinistra italiana, La severa critica da sinistra al Risorgimento. Eppure si può sempre rinsavire – nota Ferlazzo Ciano, Limiti non invalicabili di un percorso di riappropriazione dell’idea di Patria e di nazione, Il terzo incomodo: l’Europa, Europa-Utopia sfida la storia, La crociata europeista della sinistra italiana, La leggenda aurea di Mazzini precursore dell’europeismo, Mazzini autentico precursore? Se crolla la fortezza Mazzini, Conclusioni per la sinistra, Conclusioni per il Paese e l’Europa nel complesso.

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Stefano Rolando, condirettore della rivista Democrazia Futura, ha avuto il merito di gettare il proverbiale sasso nello stagno, mettendo il dito in un altrettanto proverbiale piaga: l’abbandono nel campo della sinistra italiana dell’intero universo valoriale legato alle idee di Patria e Nazione. Abbandono di cui hanno visibilmente approfittato le destre.

Le destre all’assalto della Patria

Dapprima la Lega, che ha smesso forse solo provvisoriamente e opportunisticamente la “ragione sociale” separatista per farsi interprete di un nazionalismo dai contorni culturali e dai riferimenti storici poco chiari, tanto da aver prodotto come unico manifesto programmatico il motto «prima gli italiani» e un vago richiamo alla difesa dei confini, declinato tuttavia in modo alquanto diverso rispetto a ciò che per secoli tale concetto ha significato: non barriera contro rapaci rivendicazioni di porzioni di territorio nazionale da parte di Stati confinanti, ma barriera (debolissima e inefficace) contro orde di poveri disperati alla ricerca di un’ancora di salvezza europea per la loro vita e quella dei loro cari. Per certi versi un ritorno alle origini della difesa dei confini (limes) da parte dei nostri imperialisti avi latini di quasi due millenni addietro, ma questo è un altro discorso.

Il secondo partito a muoversi in questa direzione è stato quello che guida l’attuale maggioranza di governo, Fratelli d’Italia. Già di per sé il nome stesso del partito è programmatico e va a pescare direttamente nel serbatoio del patriottismo risorgimentale attraverso il riferimento alla prima strofa del Canto degli italiani di Goffredo Mameli. Sia detto per inciso ma, visto che si parla di voler fare ammenda e tornare a presidiare i valori patri e nazionali, quanti a sinistra saprebbero recitare il nostro inno nazionale per intero o quasi, non già soltanto la prima strofa? La stessa domanda potrebbe essere rivolta anche ai “nazionalsovranisti” dell’opposto schieramento, non senza provocare imbarazzati silenzi, ma questi hanno già provveduto a rendere il loro patriottismo credibile agli occhi degli elettori e al comune sentire, dunque toccherebbe semmai più a sinistra legittimarsi agli occhi dell’elettorato, andando magari a rispolverare le parole del giovane patriota di idee progressiste, caduto per difendere la Repubblica Romana, riscoprendo versi come questo:

«Dall’Alpe a Sicilia, ovunque è Legnano; ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano; i bimbi d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla i Vespri suonò».

Non male, vero? In appena due righe un riferimento alla divisiva figura di Balilla (al di là della rivolta antiaustriaca nella Genova del 1746, sovviene prima di tutto l’Opera Nazionale Balilla di fascistissima memoria), uno ai sempre odiati tedeschi invasori, per una volta sconfitti (Legnano), un altro agli ispano-tedeschi, vincitori sebbene con disonore (l’episodio di Ferruccio a Gavinana), un altro infine ai sempre “amati” francesi invasori, cacciati per l’occasione in seguito a un granghignolesco bagno di sangue ai loro danni (Vespri siciliani). Un bel richiamo ai valori dell’Europa unita, con tutta l’ironia del caso. Ci ritorneremo più avanti. Quel che conta ora sottolineare è che forse questa volta la sinistra s’è desta e ha compreso l’errore compiuto dalla maggioranza assoluta delle sue classi dirigenti politiche nell’ultimo mezzo secolo almeno, con poche lodevoli eccezioni (quel Bettino Craxi deriso per i suoi riferimenti garibaldini). Errore che hanno contribuito ad amplificare anche gli intellettuali di riferimento della sinistra, inebriati di cosmopolitismo e di ideali federalisti europei.

Ma il cuore della Patria non batte a destra

Ora, citando in parte lo stesso Rolando «se un giorno – dopo aver tenuto gli occhi troppo chiusi – ci si sveglia e si sente che è Giorgia Meloni a invocare Mazzini e Garibaldi»[1], significa che è arrivato il momento di recuperare il terreno perduto e di riappropriarsi di quei valori che una certa sinistra ha colpevolmente dismesso. E non è soltanto una questione di calcolo elettorale, ma una sacrosanta battaglia di rivendicazione di ideali politici e culturali: il Risorgimento non è mai stato e non potrà mai essere patrimonio delle forze reazionarie. Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, se avessero potuto vivere un altro secolo, non avrebbero senz’altro mai aderito al Fascismo, né avrebbero appoggiato la versione democraticamente edulcorata e postbellica di quell’esperienza, il Movimento Sociale Italiano, così come le formazioni extraparlamentari che ad esso facevano o fanno riferimento (da Ordine Nuovo a CasaPound). Camillo Benso di Cavour era un liberale innovatore che forse oggi passerebbe per conservatore, ma anch’esso non avrebbe mai potuto identificarsi con la destra-destra “nazionalsovranista”, tutt’al più con formazioni moderate di centro. E per finire, il “Padre della Patria”, il re galantuomo, Vittorio Emanuele II di Savoia, ci permettiamo di azzardare che, dato il suo carattere a dir poco esuberante, per certi versi un po’ rustego, e la sua passione amorosa per Rosa Vercellana, forse persino lui – non ne avremo mai la certezza, ma possiamo avere l’ardire di fantasticarlo, sebbene il nostro in cuor suo, pur religiosamente scettico, temesse il giudizio divino – se fosse vissuto in un’altra epoca, quasi cent’anni dopo la sua morte, avrebbe potuto sostenere in segreto certe battaglie civili, come quella a favore del divorzio.

Che dire poi di Carlo Pisacane, mazziniano convertito al socialismo? E che dire degli ideali di altri giganti di quella irripetibile stagione di rinascita politica e culturale dell’Italia? Ideali come quelli di Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, quando costoro, ad esempio, «ponevano il problema di far partecipare alla rivoluzione nazionale le masse popolari, soprattutto delle campagne» o «quando auspicavano una rivoluzione che si svolgesse senza compromessi con le forze conservatrici»[2]. Ma a voler citare il campo moderato, sono stati e sarebbero rivendicabili dalle destre reazionarie figure come quelle dei cattolici Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini? Seri dubbi a tal proposito. Il Risorgimento è senz’altro un patrimonio storico condivisibile da tutte le formazioni politiche italiane, ma è indubbio che se proprio volessimo trovare un campo di riferimento politico nel quale la maggior parte delle figure storiche di quella stagione si sarebbero trovate con maggiore convinzione, questo sarebbe quello progressista, solitamente definito sinistra. Avremmo avuto anche un buon numero di figure inquadrabili nel campo moderato che definiremmo centrista e solo relativamente poche, alcuni dopo ripensamenti e conversioni tardive, potrebbero essere definite figure di riferimento per il campo conservatore moderato di quella che definiamo destra. Possiamo pensare (con tutti i pericolosissimi limiti di un simile discorso attualizzante) a figure come Massimo d’Azeglio, Bettino Ricasoli o l’ex mazziniano Francesco Crispi, quest’ultimo a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento.

Dunque si può concludere che la sinistra in questo ambito dovrebbe solo ritrovare sé stessa, riscoprire le sue radici e valorizzarle. E possiamo senz’altro rendere merito a coloro che, sempre a sinistra, si rendono conto dell’importanza di agire in questa direzione, sperando che non rimangano voci isolate. Tuttavia al pranzo di gala della rivoluzione culturale che permetterebbe alla sinistra italiana di riappropriarsi dei valori nazionali attraverso i riferimenti al Risorgimento ci sarebbero almeno tre convitati di pietra che renderebbero l’operazione più ardua del previsto. In due casi ci è dato da pensare che, sebbene a fatica, si potrebbe aggirare il problema con un’ammissione di colpa e una ragionata forma di autocritica, ma nel terzo caso l’ostacolo è invalicabile, a meno di non operare – come peraltro fatto finora – un intollerabile revisionismo storico che vada a distorcere, finanche a inventare di sana pianta, intere pagine di storia degli ideali che animarono la stagione risorgimentale.

Internazionalismo e cosmopolitismo

Il primo convitato di pietra è l’internazionalismo, patrimonio della sinistra di matrice socialista e comunista, evolutosi col tempo nella sua variante attualizzata, ideologicamente neutra e al passo coi tempi: il cosmopolitismo. Difficile per la sinistra ancora oggi riuscire ad abdicare integralmente da un’impostazione ideologica marxista che di fatto ha indotto generazioni di militanti e dirigenti di partito a sostenere che difendere una cultura politica legata a valori nazionali fosse un’operazione intrinsecamente sbagliata e una deviazione dalla retta linea ideologica. Il marxismo ha offerto una lettura della storia ricca di spunti per analisi di fenomeni economici, politici e culturali, ma l’ideologia che ne è scaturita ha costretto coloro che vi aderivano all’operazione di cancellare l’idea di nazione o di patria dal loro campo d’azione, se non in una forma meramente funzionale, allo scopo di portare il proletariato di una determinata nazione alla conquista del potere politico, dunque alla realizzazione del socialismo.

Certamente a un livello concreto è avvenuto spesso anche qualcosa di diverso. In quei Paesi dove i partiti comunisti, sotto tale nome o altra denominazione, hanno assunto il potere, è capitato che si instaurassero curiosi regimi ibridi che miscelavano con una certa sapienza nazionalismo e socialismo reale. Caso eclatante in Europa, ad esempio, l’esperienza della piccola Albania guidata da Enver Hoxha, un vero e proprio regime nazionalcomunista, ma si potrebbe ragionare in questo senso anche nei riguardi della politica di Nicolae Ceaușescu in Romania e dell’assai peculiare equilibrio fra tradizionale nazionalismo militarista prussiano e socialismo reale nella cornice della Repubblica Democratica Tedesca, laddove le istanze nazionaliste erano addirittura rappresentate – caso unico in tutti i Paesi aderenti al Patto di Varsavia – da un partito autonomo (NDPP, National-Demokratische Partei Deutschlands), pur strettamente connesso – e non poteva essere altrimenti – alla SED, il partito socialista della Germania orientale che almeno sulla carta non era un “partito unico”.

In un Paese asiatico la dottrina marxista-leninista ibridata con la visione staliniana del “socialismo in un solo Paese”, a sua volta mischiata ad un marcato nazionalismo di matrice confuciana e a una rigida etica militarista, ha dato origine a una peculiare ideologia, teorizzata da Kim Ilsŏng, detta Chuch’e, che è ancora oggi la fonte di ispirazione politica e ideologica del governo della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Nessuno peraltro potrebbe affermare che la ben più grande e confinante Repubblica Popolare Cinese non sia retta da una classe dirigente ispirata a sua volta in buona parte da ideali nazionalisti, espressi sotto forma di vere e proprie politiche di stampo irredentista (il recupero di territori storicamente e culturalmente appartenuti alla Cina, da Hong Kong e Macao a Taiwan), condite persino da accenti imperialisti (l’orizzonte della cosiddetta “seconda catena di isole”). E la lista potrebbe anche continuare.

Invero si obietterebbe che si trattava e si tratta di regimi niente affatto liberaldemocratici i cui partiti al potere, ancorché formalmente di sinistra, non condividevano e tuttora non condividono alcuna linea politica con le formazioni di sinistra o centro-sinistra dei Paesi liberaldemocratici occidentali o di quei Paesi che comunque si ispirano, nell’ordinamento costituzionale, ai principi della liberal-democrazia applicata in Occidente. Tuttavia le cose, se possibile, possono rendere ancora più complicato il quadro. Perché la questione al centro del nostro discorrere riguarda nello specifico la sinistra italiana e in Italia, per fortuna, non c’è stata esperienza di una cosiddetta democrazia popolare, retta da un partito comunista egemone con caratteristiche totalitarie. Il principale partito della sinistra italiana negli ultimi cinquant’anni, il Partito Comunista Italiano – che dopo il 1989 ha cambiato più volte nome, assumendo col tempo il ruolo di contenitore liberal-progressista di ideali di varia ispirazione, dalla socialdemocrazia al cattolicesimo liberal-progressista – non ha mai avuto in passato un’esperienza egemone di governo della nazione che l’abbia indotto ad assumere, come in alcuni Paesi dell’Europa orientale, ambigue pose a metà strada tra socialismo e nazionalismo.

Nel suo patrimonio genetico non c’è nemmeno più il nazionalismo democratico e di ispirazione mazziniana. Ce ne era invece, e in gran quantità, nel vecchio radicalismo repubblicano, la cosiddetta “sinistra estrema” dei primi decenni della monarchia liberale, dal quale emersero due partiti, quello radicale e quello repubblicano, animati da figure carismatiche come, ad esempio, Agostino Bertani, Felice Cavallotti, Napoleone Colajanni, Matteo Renato Imbriani, Francesco Saverio Nitti. Si deve proprio a uno di essi, il napoletano Imbriani, il manifesto programmatico per la redenzione (ovvero riconquista) di tutte le terre italiane sotto controllo straniero, da cui derivò il termine universalmente noto di irredentismo. Ma questo vecchio radicalismo repubblicano è giustappunto scomparso dal patrimonio genetico della sinistra, sempre più identificatasi con il Partito Socialista, che aveva ben altri obiettivi e strategie da perseguire, e in seguito poi con il Partito Comunista, la sua costola massimalista e legata agli interessi di una potenza straniera, l’Unione Sovietica.

E come ben sappiamo socialismo e comunismo della rivendicazione di una cultura politica nazionale o nazionalista democratica non se ne facevano nulla, essendo bollata come politica di ispirazione borghese. Non avendo mai assunto il potere negli anni della Guerra Fredda, venendo così costretti giocoforza a mischiare il marxismo con un po’ di nazionalismo, comunisti e socialisti italiani (questi ultimi almeno fino alla svolta craxiana), non hanno trovato di meglio che continuare a premere il tasto dell’internazionalismo. Tanto più che il nazionalismo era diventato, se possibile, ancora più inviso nel Paese che aveva visto nascere e andare al potere il fascismo, che del nazionalismo – nella sua forma totalitaria, sciovinista e finanche criminale – aveva fatto la sua bandiera.

L’inesistente visione nazionale della sinistra italiana

Il prezzo da pagare di questo ripiegamento sull’internazionalismo è stato proprio l’abdicazione dai valori nazionali. Si introduce a questo punto il secondo convitato di pietra del nostro discorso: l’inesistente visione nazionale e la critica al Risorgimento mossa dalla sinistra italiana. Si diceva che nel nostro Paese concorse senz’altro a soffocare ogni accenno a una cultura politica nazionale l’effetto dirompente prodotto dal trauma della ignominiosa disfatta nel secondo conflitto mondiale, aggravata dai crimini fascisti, commessi sia in patria che all’estero, e da una sanguinosa guerra civile, con atroce corollario di morte, distruzioni e deportazioni. Servirebbe uno studio sulla psiche collettiva dei popoli per comprendere che cosa abbia prodotto un simile trauma nella consapevolezza che gli italiani hanno di sé, quali ne siano ancora oggi le conseguenze, quali siano quelle a venire. Di certo c’è che la rappresentazione che si aveva avuto in Italia fino al 1945 dell’idea di patria e di nazione, senz’altro mitizzata dall’epopea risorgimentale e galvanizzata dalla vittoria nella prima guerra mondiale, era svanita o destinata presto a svanire con l’uscita di scena delle generazioni di italiani che si erano abbeverati a quella fonte.

Il senso di colpa per le responsabilità morali e politiche dell’Italia e per i crimini commessi in diversi territori occupati, aveva peraltro indotto le forze politiche riunite nel Comitato di Liberazione Nazionale a percepire l’importanza di riabilitare il Paese agli occhi del mondo, in una comunione d’intenti che inizialmente univa laici e cattolici, democristiani, comunisti e socialisti[3]. Col passare del tempo, tuttavia, mentre la Democrazia Cristiana, con l’appoggio attivo della Chiesa,  avrebbe elaborato una propria peculiare visione nazionale volta, secondo lo storico Emilio Gentile, «a rianimare l’identità nazionale degli italiani» all’interno però di un disegno inteso alla «riconquista cattolica» dell’Italia[4], diversamente a sinistra, specialmente con l’avvento della Guerra Fredda, si fece strada una guerra ideologica che «divideva al loro interno i cittadini, facendoli schierare su fronti opposti, in nome di opposti ideali di patria, di nazione, di Stato», cosicché «l’ideologia prendeva ancora una volta il sopravvento sulla nazione»[5]. E l’ideologia egemone a sinistra guardava allora all’esperienza dell’Unione Sovietica, a tal punto che, dopo aver abbandonato l’armamentario patriottardo usato opportunisticamente per conquistare quanti più suffragi alle elezioni politiche del 1948 (si ricordano i manifesti elettorali del Fronte popolare con l’effige di Garibaldi?), PCI e PSI si rivolsero alla fede nell’imminente avvento del socialismo per ridisegnare i contorni della storia nazionale, reinterpretando il Risorgimento come tappa di un percorso che si sarebbe concluso con l’avvento al potere della sinistra socialcomunista, la quale avrebbe infine rigenerato la nazione «dando vita a un italiano nuovo, sul modello dell’’uomo nuovo’ sovietico»[6].

Poteva mai avere uno sbocco genuinamente nazionale e patriottico un simile impianto ideologico? E infatti non lo ebbe. Inoltre, l’ambiguità dei rapporti intessuti fino all’ultimo tra il PCI e la dirigenza sovietica, pur tra distinguo, incomprensioni e taluni, seppure ambigui, strappi (le dichiarazioni del segretario Enrico Berlinguer sulla NATO, nel giugno 1976) e il tardivo (sempre nel 1976) distacco del PSI dall’alleanza con i comunisti, non produssero in Italia alcuna originale pedagogia nazionale di sinistra. Si realizzò semmai un lento oblio di una visione nazionale e lo stesso Risorgimento a poco a poco divenne evanescente, fino a scomparire quasi del tutto dagli orizzonti delle formazioni politiche di sinistra, sostituito sempre più convintamente dal processo di integrazione europea. L’originario internazionalismo del messaggio ideologico marxista si fondeva in tal modo con le istanze di unificazione del vecchio continente, sotto le insegne di un irenico progressismo democratico, sempre più distaccato dalla sorte del “paradiso dei lavoratori”. Col passare del tempo e all’indomani della Guerra Fredda, quell’internazionalismo, lentamente tramutatosi in un elitario cosmopolitismo, finiva per farsi sostegno delle istanze economicistiche e finanziarie che avrebbero indotto le classi dirigenti europee tutte a sottoscrivere nel 1992 il trattato di Maastricht.

L’unico lascito ideologico della sinistra con intenti di pedagogia nazionale è stato il culto della Resistenza, fatto in sé meritevole, ma che col tempo, proprio a causa dell’abbandono delle tematiche risorgimentali e di una visione storica del Paese, ha prodotto un pernicioso effetto collaterale, per cui il 25 aprile 1945 è assurto ad anno zero della storia d’Italia, prima del quale sembra che ci fossero stati soltanto la tremenda bestialità fascista (bestia che tra l’altro non accenna mai a morire) e ancor prima uno Stato monarchico in mano a una cricca di notabili massoni legati a doppio giro alla grande proprietà terriera e al capitale industriale e finanziario, un’Italietta sedicente “liberale” con grandi appetiti imperialisti e tassi di analfabetismo e sottosviluppo imbarazzanti. Per non parlare dei Savoia, dinastia degenerata fra le peggiori d’Europa. Giudizio quest’ultimo che, sebbene per ragioni diverse, ha accomunato la sinistra di matrice ideologica marxista alla destra neofascista.

E finalmente, prima ancora della “Italietta liberale”, dunque in pieno evo antico, il Risorgimento, sorta di onorevole foglia di fico, orpello dei tempi delle guerre puniche da rispolverare per occasioni speciali e per sempre più meste celebrazioni dell’unità nazionale, di cinquantennio in cinquantennio (le ultime nel 2011, le prossime, se ci saranno, nel 2061). Infine, prima ancora del Risorgimento, la preistoria: un immenso spazio semivuoto colmato dalla definizione generica “Stati preunitari”. Spazio all’interno del quale, a seconda delle regioni del nostro Paese, si sono inseriti per tradizione familiare alcuni racconti semileggendari, incubi clericali e oniriche visioni di mitici eldoradi, presto tuttavia ricondotti alla morale di tutta la storia italiana prima dell’unità: «Franza o Spagna, purché se magna». Insomma, quanto di meglio per accrescere l’amor patrio nei cittadini e nei nuovi italiani di seconda generazione, garantendo così all’Italia la possibilità di veder nascere finalmente una classe dirigente degna di questo nome.

Perché altrimenti quale sarebbe il movente oggigiorno che spingerebbe qualcuno ad interessarsi di politica, partendo da un racconto siffatto? Forse raddrizzare le storture di un Paese intrinsecamente malato di corruzione, clientelismo, familismo amorale, crimine organizzato e, dulcis in fundo, di un semprevivo fascismo autorigenerante? E chi mai, in mancanza di una visione storica nazionale in grado di fornire esempi positivi che siano da motivazione per una rigenerazione della Patria, sarebbe interessato a guidare un simile povero e disgraziato Paese? Forse soltanto un santo asceta, disposto a qualunque sacrificio personale e collettivo pur di ridare dignità all’Italia (non pervenuto dai tempi di Mazzini), oppure un profittatore interessato, spinto esclusivamente da bieca ambizione di potere e desiderio di arricchimento personale (categoria che abbonda in tutti gli schieramenti), oppure infine un onestissimo ed entusiasta liquidatore, felice di trasformare quanto prima un indecoroso Stato nazionale in una entità federata europea purificata da tutti i suoi mali (categoria quest’ultima che, agli occhi di chi scrive, è sembrata prevalere nettamente a sinistra negli ultimi decenni).

La severa critica da sinistra al Risorgimento

A tale mancanza di visione storica nazionale si è aggiunta la severa critica mossa al Risorgimento da parte di almeno due intellettuali posti nel pantheon culturale della sinistra italiana: Piero Gobetti e Antonio Gramsci. Del primo, sebbene il suo inquadramento nel campo socialista sia soltanto parziale, è nota comunque la simpatia per il movimento operaio, l’ammirazione per la Russia dei soviet, esempio di rivoluzione compiuta, e sono altrettanto note le condanne senza appello nei confronti del Risorgimento, bollato in toto come “rivoluzione fallita”. Una rivoluzione animata e guidata da élite disgiunte dal popolo e pertanto disallineata da sinceri valori democratici, generatrice infine di uno Stato espressione di ceti borghesi retrivi di cui il fascismo sarebbe stato in effetti il degno erede. Punto e a capo. Del secondo sono altrettanto noti gli appunti sul Risorgimento comparsi sui Quaderni del carcere (quaderno 19), sostanzialmente allineati alla visione gobettiana ma se possibile ancor più arditi, fino a mettere in dubbio – da buon marxista qual era –  l’intero impianto ideologico alla base delle correnti politiche che animarono gli ideali del Risorgimento, che Gramsci sosteneva essere una mera “pretesa” di far, giustappunto, risorgere la nazione italiana e di renderla, dopo secoli di divisione e di cattività straniera, uno Stato nazionale retto da istituzioni democratiche o liberali.

Al contrario, sosteneva Gramsci, ad analizzare la storia della Penisola non c’era nulla di reale in quella pretesa di trovare caratteri nazionali unitari che attraversassero lo spazio temporale di due millenni. Citando le sue stesse parole:

«tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è prevalentemente legata alla “pretesa” di trovare una unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi»[7].

Una “pretesa” al fine di attuare processi «”utili” politicamente nel periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e concentrare le forze», ma che a tutti gli effetti, secondo il nostro, si mostra essere «il riflesso di una torbida “volontà di credere”, un elemento di fanatismo (e di fanatizzazione) ideologico che deve appunto “risanare” le debolezze di “struttura”»[8]. Una «storia feticistica», un «modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle ‘interpretazioni’ ideologiche della formazione italiana, per cui diventano protagonisti personaggi astratti e mitologici»[9]. Per concludere infine che:

«tutto il processo storico è un “documento storico” di se stesso, viene meccanizzato ed esteriorizzato e ridotto, in fondo, a una legge deterministica di “rettilineità” e di “unilinearità”. Il problema di ricercare le origini storiche di un fatto concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo “Stato”, come unità o come nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia precedente, come il pollo nell’uovo fecondato»[10].

Che altro aggiungere? Di fronte a simili tesi – forse non del tutto infondate ma espresse con un linguaggio severo e categorico, formulando un giudizio non imparziale, obbedendo infatti l’intera analisi agli imperativi ideologici marxisti, che imponevano di individuare e bollare come “debolezze di struttura” le ragioni politiche aliene dal marxismo stesso e come “borghese” ogni processo politico che deviasse dal socialismo – tesi assunte dai social-comunisti come dogma, può apparire evidente quanto fossero falsi e strumentali i richiami al Risorgimento da parte della classi dirigenti comuniste e socialiste italiane dalla fine del secondo conflitto mondiale fino alla fine della Guerra Fredda (per quelle socialiste fino al 1976). Diciamo quindi le cose come stanno: comunisti e socialisti italiani non hanno mai creduto pienamente (e forse neppure sinceramente) nel valore storico e politico del Risorgimento, non si sono mai identificati in quel movimento e hanno strumentalmente lasciato credere alle masse che votavano i rispettivi partiti (masse che peraltro avevano forse letto soltanto superficialmente gli scritti gramsciani, talvolta nemmeno) di identificarsi con esso, offrendo una lettura politica del fenomeno risorgimentale subordinata al determinismo storico marxiano. Lettura secondo la quale, come si è già accennato, il Risorgimento non sarebbe stato altro che una fase necessaria prima della presa del potere da parte del proletariato, avendo prodotto il Risorgimento lo Stato nazionale borghese che avrebbe dovuto essere, prima o poi, trasformato in chiave socialista.

Eppure si può sempre rinsavire

Dunque, si diceva, l’internazionalismo marxista, tramutatosi in cosmopolitismo, unito alla mancanza di una visione storica nazionale e a una critica spietata al Risorgimento rendono quanto mai ardua l’opera di rifondazione di una cultura politica di sinistra legata a valori nazionali. Eppure qualcosa si può tentare, perché su questo fronte non tutto è perduto. Perché in alcuni Stati a noi confinanti le sinistre non hanno abdicato del tutto dal presidio di certi valori. È il caso, ad esempio, della sinistra francese. Al di là dell’incisiva presenza del radicalismo repubblicano, che ha lasciato un’impronta fieramente nazionale e patriottica nella sinistra francese, non dipendente come da noi dalla tradizione internazionalista marxista, si potrebbe notare come in Francia persino il marxismo abbia assunto moderati caratteri orgogliosamente nazionali. A titolo di esempio si ricorda l’ambiguità di rapporti tra il PCF (Parti Communiste Français) e l’Étoile nord-africaine, primo movimento apertamente nazionalista algerino (fondato nel 1926), formalmente indipendente dal PCF ma controllato al suo interno da una costola comunista e con un programma eminentemente sindacale, volto all’emancipazione dei musulmani nordafricani. Ebbene il PCF frenò, almeno fino alla fine del secondo conflitto mondiale, qualsiasi rivendicazione indipendentista da parte algerina, motivandola con la necessità di unire gli sforzi per la realizzazione innanzi tutto del socialismo in Francia[11]. Pur di serbare l’unità della Patria, l’anticolonialismo, per i comunisti francesi, si poteva anche mettere da parte.

In tempi molto più vicini a noi chi scrive, pur essendosi forse perso per ragioni anagrafiche richiami patriottici di orgoglio francese da parte di carismatici leader politici transalpini del Novecento, ricorda ancora il discorso tenuto da François Hollande, in occasione della vittoria alle elezioni presidenziali, a Tulle (Corrèze), il 6 maggio 2012. Citando direttamente il discorso, appaiono frasi come:

«Ce soir, il n’y a pas deux France qui se font face. Il n’y a qu’une seule France, une seule nation, réunie dans le même destin»[12].

E, quasi alla fine di un discorso ricco di richiami ai valori repubblicani, l’apoteosi:

«Mesdames, messieurs, chers concitoyens, nous ne sommes pas n’importe quel pays de la planète, n’importe quelle nation du monde, nous sommes la France. Et, président de la République, il me reviendra de porter les aspirations qui ont toujours été celles du peuple de France […]. Eh bien oui, tout ce que je ferai sera aussi au nom des valeurs de la République partout dans le monde»[13].

Parole simili in Italia – con le quali si afferma l’esistenza di una sola nazione, di un solo destino, e si esalta infine l’importanza di un Paese e di una nazione che non teme confronti al mondo – potrebbe pronunciarle solo un leader della destra e sarebbe senz’altro sommerso dalle polemiche per aver pronunciato parole al limite dello sciovinismo. E poi, chissà, qualcuno forse non si lascerebbe scappare lazzi e ironie: l’Italia un grande Paese?

Ci siamo disabituati a pensare in chiave nazionale, a usare parole che appartengono alla retorica patriottica. Perché è vero, può essere retorica, ma non tutta la retorica è da buttar via; è importante semmai saperne fare un uso accorto e solo per scaldare i cuori o infondere coraggio. In fondo memorabili discorsi della storia politica dell’umanità sono stati spesso infarciti di retorica. Comunque, quel che importa far notare è che un discorso del genere, dove si parla con orgoglio di patria e di nazione, si può pronunciare da sinistra senza essere accusati di sciovinismo e venendo persino applauditi. Se accade in Francia potrebbe benissimo accadere da noi. Sarebbe importante che qualche esponente di rilievo della sinistra italiana avesse il coraggio di cimentarsi e fare il primo passo, sgretolando il tabù che ha avvolto i termini “patria” e “nazione”. Sorprende peraltro che, per ragioni che sono a noi ben note e che si rifanno a quel trauma mai superato (il fascismo e i suoi crimini, la responsabilità della seconda guerra mondiale, la disfatta, la guerra civile), sia ancora oggi molto complicato in Italia, a quasi ottant’anni dalla fine di quei tragici avvenimenti (quanti decenni ancora servirebbero per iniziare a guarire?), esprimere un linguaggio politico legato alle idee di patria e nazione. Per paradosso era meno difficile settant’anni fa, quando i partiti non erano disabituati ad accennare una narrazione positiva della nostra storia, facendo leva proprio sul Risorgimento, non mancando talvolta di veri e propri scatti di orgoglio, come nel caso della questione della riunificazione di Trieste, nel 1954.

Tuttavia è vero, come ha sottolineato Emilio Gentile in La Grande Italia, una riflessione dettagliata sull’ascesa e sul declino dell’idea di nazione in Italia, che finita quella fase la nuova classe dirigente del Paese, non solo quella di sinistra, non riuscì a costruire a una mitologia nazionale efficace. Prevalsero invece le ideologie e il senso di appartenenza al partito-patria, per certi versi una ricaduta del male secolare dell’Italia: la partigianeria e le lotte di fazione. Era abbastanza naturale quindi che, superata la prova delle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia (1961), iniziasse la fase di vero e proprio “oblio della nazione”[14]. Il boom economico, la crescita dei consumi e poi il Sessantotto, con la sua carica dirompente di individualismo e di critica distruttiva del principio di autorità, hanno progressivamente sbriciolato quel che rimaneva di quell’idea e di quei miti. A sinistra non c’era spazio per un dibattito in merito, la Democrazia Cristiana si limitava ad amministrare il consenso non provando neppure più a trovare una formula inedita identitaria. Solo il Movimento Sociale Italiano si serviva di certi richiami e di certe parole d’ordine, ma la sua era una mitologia altrettanto ideologica e di parte, che spostava soltanto di pochi anni, rispetto alla sinistra, l’inizio della storia moderna d’Italia, all’ottobre del 1922, vivendo costantemente in una bolla nostalgica nella speranza di un ritorno ai tempi gloriosi per gustare la rivincita. Fintanto che, consumata la speranza, una nuova dirigenza – nuova anche in termini generazionali – si decise ad avviare un lento processo di rinnovamento il cui prodotto è oggi sotto i nostri occhi.

Quel partito, inizialmente rinnovato una prima volta nel nome, poi rifondato ex novo dopo il naufragio del progetto conservatore-moderato di Gianfranco Fini, si è rifatto l’immagine, come si diceva all’inizio di questo scritto, fin nel nome stesso, ripescando le parole di inizio di un inno scritto da un poeta-eroe del Risorgimento morto nella difesa di una effimera ma gloriosa Repubblica democratica animata, tra gli altri, da un tal Giuseppe Mazzini. Fratelli d’Italia ha riscoperto che c’era vita prima della marcia su Roma e dell’adunanza di piazza San Sepolcro. Ed è a quella fonte di vita che ha attinto a piene mani per rigenerarsi, peraltro con un discreto successo. D’altra parte non c’è il diritto d’autore sulla storia d’Italia: attingere al passato della nostra nazione è operazione aperta a tutti e questa è senz’altro una buona notizia. Perché non è mai troppo tardi per rinsavire e ripensare alla nostra storia, all’idea di patria e di nazione.

Limiti non invalicabili di un percorso di riappropriazione dell’idea di Patria e di nazione

Certo non sarebbe un percorso breve e probabilmente alla sinistra necessiterebbe il dover ripartire dalle basi, persino dal vocabolario, stante la difficoltà a maneggiare con la dovuta cura parole come “nazione”, difficilmente compresa con interezza nel suo significato e che va ben oltre la semplice definizione di «insieme tra territorio e comunità amministrata da un determinato governo», assumendo infatti un valore strettamente ancorato all’idea di stirpe (questo il significato originario della parola latina natio, che deriva dal verbo nasci – “nascere”, “discendere”, per estensione “avere origine” – affine per significato al grecoέθνος/éthnos, che ha dato origine al sostantivo italiano “etnia” e a sostantivi ed aggettivi derivati). E quindi bisogna saper maneggiare il termine con attenzione, per non disseccarlo, privandolo del suo originario significato (come si tende a fare a sinistra), oppure sovraccaricarlo di un significato statico e potenzialmente escludente, di purezza genetica, che invece non ha (come si è fatto talvolta a destra).

Sarebbe poi utile, inoltre, prendere un poco le distanze da certi scritti di Eric Hobsbawm, le cui conclusioni sono assunte a sinistra ad altrettanti dogmi incontestabili. Valente storico, ma senz’altro non esente da un marcato approccio ideologico quando contribuiva a scrivere volumi dal titolo L’invenzione della tradizione[15],che hanno indotto un buon numero di intellettuali di sinistra a dubitare ulteriormente (se non erano già bastati gli impietosi giudizi gramsciani) dell’esistenza di entità che vanno sotto il nome di nazioni. Niente più, secondo lo storico britannico, di semplici identità artefatte costruite a tavolino in epoca romantica mischiando storia, letteratura, riscoperta e invenzione di tradizioni perdute o inventate di sana pianta, il tutto per servire allo scopo, più o meno consapevole, di fornire strumenti ideologici adatti a mobilitare le masse in Stati retti da classi dirigenti borghesi. Una tesi suggestiva, sostenuta autorevolmente anche dal sociologo Ernest Gellner, ma che non è stata priva di contestazioni in ambito accademico[16]. Perché in fondo di questo si tratta: una tesi. Non la scoperta di un complotto di gentiluomini borghesi di inizio XIX secolo emersa dalla lettura di documenti d’archivio e di altre fonti documentarie, ma una tesi imbastita sulla base di una riflessione su fenomeni storico-culturali già conosciuti, tinteggiati però da una mano di vernice marxista.

Si dovrebbe poi avere il coraggio di riabilitare pienamente il termine “nazione” e i suoi derivati, tra cui il nazionalismo. Nazionalismo che non è corretto contrapporre, persino nel discorso pubblico, al patriottismo, quasi fosse un suo fenomeno degenerativo, ma che, citando ancora Emilio Gentile, deve essere considerato «un movimento culturale e politico che si proponga di affermare il primato della nazione come entità storica, culturale e politica, che si concretizza nell’organizzazione dello Stato nazionale, identificandosi con la patria», considerando inoltre che:

«la qualificazione del nazionalismo e del patriottismo, dal punto di vista storico, non dipende da una pregiudiziale distinzione fra natura intrinsecamente “buona” o “cattiva” del nazionalismo o del patriottismo, ma dalle concrete manifestazioni storiche che essi assumono coniugandosi con altri movimenti – liberalismo, democrazia, razzismo, socialismo, totalitarismo ecc. – dando così vita a differenti forme di nazionalismo o di patriottismo»[17].

È bene dunque considerare che Mazzini, ad esempio, era un nazionalista democratico e non per nulla fu definito Apostolo della nazione. Non c’è nulla di male a definirlo tale e non ci sarebbe nulla di male a definirsi nazionalisti nel XXI secolo, anche a sinistra. Tutto dipende, infatti, da come si declina il proprio nazionalismo. Sono ad un tempo nazionalisti gli ucraini (in una forma liberaldemocratica) che difendono la propria patria invasa, così come sono nazionalisti i russi (in una forma autoritaria), convinti di doversi riappropriare di una regione che ha rappresentato storicamente la culla della loro nazione. Sta a noi decidere quale espressione dei due nazionalismi non sia giustificabile.

Detto questo sarebbe infine una buona cosa dare l’esempio con i fatti. Per esempio evitando, se si vuole assumere la carica di segretario del principale partito della sinistra italiana, di recarsi per qualche anno in un Paese straniero, ancorché europeo, ma da sempre inteso ad avere in Italia un ruolo egemone, per insegnare in un corso universitario, attivato probabilmente in forma non del tutto disinteressata, in una delle più prestigiose accademie di quello stesso Paese. O per esempio, sempre se si vuole assumere la carica di segretario del principale partito della sinistra italiana, evitando – come ha giustamente fatto notare Ernesto Galli della Loggia dalle pagine del “Corriere della Sera”[18] – di conservare, oltre a quella italiana, due altre cittadinanze, una di un Paese che è in Europa ma non nell’Unione Europea, e un’altra di una superpotenza che non è nemmeno in Europa. Che sia per un’adesione totale ai valori del cosmopolitismo oppure per ragioni a metà strada tra il sentimentalismo e l’opportunismo, ciò non toglie che in un altro Paese con più coscienza di sé e maggiore autostima, entrambi gli esempi citati verrebbero senz’altro giudicati poco opportuni, se non anche lesivi dell’indipendenza della nazione.

Dunque non è impossibile redimersi ma ci si deve impegnare a fondo e, soprattutto, si deve apparire sinceri, altrimenti non servirebbe a nulla attingere alla fonte che ha rigenerato un partito post-fascista in una forza di governo pienamente legittimata, se gli elettori dovessero percepire tale mossa alla stregua di una strategia opportunistica. Significa anche dover intraprendere un percorso interiore di riflessione e di studio, per riappropriarsi di pagine dimenticate della storia italiana, per rivalutare alcune fasi del nostro passato, per non rimanere eternamente prigionieri di un tabù che è forse l’ultimo pernicioso lascito della dittatura fascista del quale non riusciamo più a disfarci.

Il terzo incomodo: l’Europa

Tuttavia lungo il percorso di redenzione c’è un terzo incomodo o, come lo si è chiamato, il terzo convitato di pietra presente a quel pranzo di gala della rivoluzione culturale che permetterebbe alla sinistra italiana di riappropriarsi dei valori nazionali. Un convitato che abbiamo lasciato fino ad adesso in disparte ma che, secondo chi scrive, impedirà qualsiasi mossa in questa direzione. Si tratta dell’Europa e, più nello specifico, l’ideale europeistico finalizzato all’attuazione del processo di integrazione europea.

È capitato infatti in Italia che, di pari passo con il venir meno di una cultura politica legata a valori nazionali, tale da provocare l’oblio della nazione, sia emersa la necessità di procedere a tappe lungo un percorso di graduale unificazione politica del continente europeo. Proposito perseguito inizialmente da un nucleo ristretto di Stati europei, allargatosi nel tempo a gran parte del continente e declinato secondo le varie sensibilità e autorappresentazioni identitarie nazionali. Non è il caso di soffermarsi su ciascuna di esse. Vale semmai fare una considerazione generale sul problema dell’integrazione europea e procedere a un’analisi di come essa sia stata affrontata dalle classi politiche italiane e in particolar modo dalla sinistra.

Europa-Utopia sfida la storia

Partendo dalla considerazione generale si deve ammettere che l’eventuale futura creazione di uno Stato plurinazionale esteso sull’intero continente europeo (sia esso di natura confederale o federale) sarà il coronamento di un’impresa mai tentata nella storia attraverso un processo di libera e spontanea adesione di un numero tanto vasto e variegato di comunità etniche e culturali, spesso dotate di patrimoni di civiltà e storie nazionali millenari o addirittura plurimillenari. Come se non bastasse tali storie nazionali si sono sovente intrecciate tra di loro con modalità spesso ostili, riconducibili in buona misura a fenomeni quali:

• frantumazione traumatica e violenta di una compagine statale che per mezzo millennio aveva già parzialmente unificato il continente europeo, sebbene con un baricentro mediterraneo;

• migrazioni di massa e stanziamenti di popoli in regioni diverse e lontane da quelle originarie, tali da provocare processi plurisecolari di contrapposizione tra nuovi arrivati e nativi autoctoni;

• formazione di compagini statali di matrice dinastico-feudale dai confini estremamente mobili che, a partire dal basso medioevo, hanno iniziato a consolidarsi in modo approssimativo su basi etnico-culturali-linguistiche (sovente sfruttando confini assestatisi a ridosso di barriere fisiche naturali) o su base plurinazionale, queste ultime estendendo la loro egemonia su altre compagini statali più deboli, fino a formare imperi, geograficamente dispersi o frastagliati, di durata relativamente breve;

• tentativi, da parte delle compagini nazionali o imperiali più forti, oppure animate da slanci di natura ideologica, con basi europee o extraeuropee, di affermare la loro egemonia su ampie parti del continente o sul continente intero, lanciandosi talvolta in ambiziose quanto fallimentari campagne di conquista;

• frizioni e contrasti in ambito regionale per il controllo di porzioni di territorio conteso tra diverse compagini statali, sia imperiali che nazionali, al fine di garantire la sicurezza dei rispettivi confini o, in tempi più recenti, realizzare una presupposta unità etnico-culturale della nazione;

• rinascite culturali e linguistiche seguite da movimenti di liberazione nazionale, tali da portare all’indipendenza di nuovi Stati e, talvolta, a successive rivendicazioni irredentistiche;

• tentativi di cancellare, ridurre ai minimi termini, costringere all’emigrazione o alla diaspora, con la violenza o con strumenti coercitivi, collettività umane concentrate in determinati territori, sparse a macchia di leopardo o integrate nella società, al fine di porre termine a supposte minacce provenienti da queste stesse collettività e rendere omogenee (sotto il profilo etnico, religioso o ideologico) quelle che ne avrebbero preso il posto.

Tali forme di ostilità hanno prodotto un corollario quasi infinito di violenze e conflitti di varia natura (bellici, civili, economici, culturali, religiosi, ideologici) e di varia intensità, su base strettamente locale, regionale o continentale, più o meno sanguinosi, più o meno in grado di lasciare questioni in sospeso, ambizioni di rivalsa, ferite non rimarginate, oltre a un carico di ostilità, pregiudizi o semplice diffidenza. È la storia dell’umanità, ma nello specifico è anche la storia d’Europa e del bacino del Mediterraneo. Rimettere insieme tutto questo e farlo convivere all’interno di un’unica compagine statale è un’impresa titanica che sembra quasi sfidare le dinamiche naturali sottese alla convivenza più o meno pacifica di esseri umani sotto uno stesso ordinamento politico-istituzionale. Ma è anche e, forse soprattutto, una sfida alla storia e alle rappresentazioni che i popoli europei hanno di sé e delle loro identità. Mette in gioco tali identità e le riplasma fondendole tra loro per generare il futuro collante identitario di un continente politicamente ancora da unificare e che però non lo è mai stato neppure in passato.

Per inciso si tratta di un progetto che non è mai stato tentato e neppure preconizzato sino all’età contemporanea, almeno nelle forme pacifiche, contrattuali e democratiche che attualmente lo connotano. È stato infatti tentato in passato con strumenti militari e finalità imperiali volte a determinare una rigida gerarchia tra nazioni dominanti e sottomesse, tentativi che sono puntualmente falliti. E per teorizzare un simile titanico sforzo di unificazione pacifica del continente si è dovuto arrivare al Novecento, per l’esattezza al 1923, anno di pubblicazione del primo manifesto europeista, Pan-Europa, opera con ambizioni geopolitiche del conte austro-boemo-giapponese Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, seguito nel 1944 dal fortunato Manifesto di Ventotene, redatto dagli italiani Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Prima di allora il nulla. Come ha giustamente osservato Lucio Caracciolo nel suo recente saggio, La pace è finita, l’idea di Europa sembra sfidare e negare «la storia. E ne è dunque negata. È antistoria. Utopia. In senso stretto: senza spazio e senza tempo»[19].

Per noi italiani il processo di integrazione europea ha significato giustappunto la fuga dalla storia e dai suoi traumi recenti che ci hanno segnato nel profondo. E in questa via di fuga ci siamo lanciati con crescente entusiasmo. Per dimenticare e per espiare, purificandoci dai nostri mali nazionali. Come noi anche la Germania (inizialmente la sola Germania Occidentale), con il suo carico di sensi di colpa, si è lanciata a capofitto in questa via di fuga e con le medesime finalità: dimenticare, espiare, purificarsi. Il problema è che le identità dei popoli non si modificano a piacimento, né si possono dilatare o restringere a buon mercato. Perché saltano i riferimenti storici, linguistici e culturali legati a un determinato territorio che sono quelli che determinano anche l’identità di un popolo. Notava lo storico e giurista Arturo Carlo Jemolo a tal proposito che

«c’è chi può sperare che lo Stato nazionale sia l’abito vecchio che più non si ama e che l’affetto andrà invece all’abito nuovo, cioè l’Europa. Non nutro questa fiducia. Resto scettico […] sulla formazione di una nuova unità: senza una lingua comune, senza quella comunità di un ideale politico e religioso che fu il cemento delle unità nazionali che vedemmo costituirsi nell’Ottocento»[20].

Si potrebbe aggiungere che, quanto più questi riferimenti identitari vengono dilatati e stirati artificialmente, tanto più perdono valore, finanche il senso (come ci si può sentire europei allo stesso modo e però allo stesso tempo svedesi, greci, portoghesi, ungheresi, tedeschi, italiani, bulgari?), tanto da esaltare, come controcanto ed effetto collaterale, identità minori, prodotto di variazioni (pur nate generalmente nello stesso gruppo etnico e linguistico-culturale) connaturate a determinate compagini nazionali estese su territori mediamente vasti che hanno prodotto al loro interno più o meno marcate differenziazioni su base culturale. Per esempio, è il caso delle regioni di lingua catalana (in primis la stessa Catalogna, intesa come comunidad autónoma) all’interno del Regno di Spagna, delle identità insulari nelle isole maggiori italiane (Sicilia, Sardegna, Corsica), una delle quali appartenente alla Francia e che per l’appunto in opposizione alla Francia persegue una logica indipendentista. E così la Bretagna, la Scozia, la Baviera, il Veneto e la Lombardia, per non parlare delle piccole Patrie che hanno già ottenuto l’indipendenza, ma sono prive di una chiara identità nazionale (Malta, Cipro, Montenegro, Slovacchia), oppure prive di storici precedenti di autogoverno (ancora Malta e Cipro, Slovenia, Estonia, Lettonia, Kosovo).

La crociata europeista della sinistra italiana

Questa Europa-Utopia sembra dover essere la nuova Patria degli italiani. Se non che gli italiani ne hanno già una di Patria, che è tale da secoli, ancor prima che fosse politicamente unificata (con buona pace delle tesi gramsciane). Che fare di queste due Patrie? Lasciarle convivere insieme, sostengono gli europeisti (che in Italia sono molto spesso federalisti, ovvero fautori della creazione degli Stati Uniti d’Europa), aggiungendo assurde graduatorie individuali su quale identità debba avere la precedenza sulle altre: prima quella nazionale, anzi no, prima quella europea, ma forse prima quelle locali, e così via. Di fronte a questa confusione storico-identitaria i partiti della sinistra italiana hanno pensato bene di essere all’avanguardia nel processo di integrazione europea e, se c’è qualcosa che effettivamente negli ultimi decenni ha connotato e marcato la differenza con i partiti di centro-destra, è stato proprio l’afflato europeista dei partiti di sinistra, alcuni dei quali hanno inserito di recente la dizione “Europa” persino nel loro nome. Europeismo orgogliosamente dichiarato a sinistra e in parte anche al centro, contro un europeismo di maniera, oppure tiepido o insincero, quasi di facciata, che a destra convive con un dichiarato euroscetticismo, se non anche vero e proprio sovranismo (se questo termine ha un senso).

E l’europeismo ha attecchito molto bene a sinistra anche perché, per coloro che si riconoscono nella sinistra socialdemocratica e postcomunista, sembra parlare una lingua nella quale si riscontrano echi rassicuranti dell’internazionalismo marxista e del cosmopolitismo che ne è derivato, mentre per i cattolici progressisti l’europeismo è la versione moderna della vecchia aspirazione a fondare la Res publica christiana, quasi si trattasse del terzo tempo di un processo naufragato in seguito alla frantumazione e partizione dell’Impero carolingio (trattato di Verdun, 843) e al fallimento dell’effimero sogno di una Renovatio imperii con base romana (morte dell’imperatore Ottone III, 1002). Per i primi, si deve aggiungere inoltre che nel Manifesto di Ventotene (1944) di Spinelli e Rossi i richiami al modello della rivoluzione dei soviet sono espliciti ed evidenti. Per citare l’ottima sintesi di Caracciolo (le citazioni dal testo del Manifesto sono tra virgolette):

«stando al precetto del Manifesto, il popolo non è capace di imboccare la direzione giusta, ha bisogno dell’avanguardia rivoluzionaria che gliela indichi e ve lo conduca. Compito immediato è fondare il “partito rivoluzionario”, volto a educare alla causa europea, anzitutto operai e intellettuali. Falange di eletti: il partito “deve attingere e reclutare nell’organizzazione del movimento solo coloro che hanno fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita”. Cosciente di “rappresentare le esigenze profonde della società moderna”, il partito rivoluzionario europeista impone “la prima disciplina sociale alle informi masse”. Giacché “attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la vera nuova democrazia”»[21].

C’è stato senz’altro chi, di fronte a un simile linguaggio, è andato in brodo di giuggiole. Dunque la sinistra italiano ha abbracciato l’europeismo, si è dichiarata spesso apertamente federalista, ha ripescato Spinelli e il suo Manifesto (mettendo spesso in secondo piano Coudenhove-Kalergi), non tralasciando di promuovere la nascita di corsi e interi dipartimenti universitari dedicati allo studio del processo di integrazione europea e alla diffusione delle tesi federaliste (pienamente coerente al precetto di educare gli intellettuali alla causa europea). Ma ha fatto persino di più, ha tentato l’impossibile: conciliare la storia nazionale con quella europea ancora da scrivere. Ed è a questo punto che la macchina sbanda e finisce fuori strada. Perché per portare a termine l’operazione la sinistra italiana e gli intellettuali che ad essa fanno riferimento si sono serviti del Risorgimento, parificandolo e affiancandolo idealmente al processo di integrazione europea, quasi che l’uno fosse il proseguimento e secondo tempo dell’altro, ripetendo l’operazione fatta a suo tempo dai social-comunisti di presentare il Risorgimento come una tappa fondamentale verso la trasformazione dello Stato in senso socialista, necessitando il proletariato e la classe operaia di avere uno Stato borghese da prendere d’assalto.

E allora ecco che il Risorgimento viene piegato alle logiche dell’obiettivo dell’integrazione europea, operando un intollerabile revisionismo storico che distorce e talvolta inventa di sana pianta intere pagine di storia degli ideali che animarono quella stagione. Come se non bastasse svendere una patria unificata e liberata dall’influenza o persino dal dominio diretto straniero a prezzo di sacrifici immani, nel corso di mezzo secolo e a fronte di secoli di sottomissione, i federalisti europei di casa nostra si propongono di riscrivere la biografia di figure di primo piano del Risorgimento, in modo da arruolare stuoli di patrioti nelle falangi di precursori del sogno europeo. Poteva funzionare con Carlo Cattaneo, il quale in effetti aveva vagheggiato (giustappunto in modo vago, come era sua abitudine) gli Stati Uniti d’Europa[22], nel suo solitario rifugio luganese, estraneo alla piega che avevano preso gli eventi, ostile alla monarchia sabauda, orgogliosamente fedele alle sue tesi federaliste, in ambito nazionale quanto europeo. Per certi versi possiamo dire che, se esiste un precursore dell’europeismo in ambito risorgimentale, questo è proprio Cattaneo. Da prendere con il beneficio di inventario che si deve a un orgoglioso pensatore libero e anche un po’ bastian contrario, innamorato a momenti alterni di modelli stranieri (di quello americano, di quello svizzero) e non allineato sulle posizioni che dominavano nel dibattito di quegli anni. Assieme a lui pochi altri, in primis Mauro Macchi, suo allievo, seguace e collaboratore.

La leggenda aurea di Mazzini precursore dell’europeismo

Non paghi, gli intellettuali europeisti di sinistra hanno deciso di arruolare nell’armata dei precursori l’Apostolo in persona, Giuseppe Mazzini. Ciò che appare incredibile è come si possa aver piegato fino a tal punto il pensiero di Mazzini, pur avendo scandagliato a fondo l’intera sua opera di scritti politici, epistole, manifesti e proclami. Ci si domanda se ci sia dell’ingenuità, della cecità ideologica o della malafede in tutto questo. Mazzini europeista. Due parole che in sé non compongono un concetto falso, ma che va spiegato nel modo corretto. Se fosse in vita il già citato Carlo Cattaneo sarebbe senz’altro lui per primo a spiegare nel dettaglio perché Mazzini non andrebbe arruolato nel campo dei precursori europeisti, proprio perché Cattaneo stesso polemizzò con Mazzini, se non direttamente (anche se ebbero modo di incontrarsi), quanto meno per interposta persona, criticando l’impostazione dogmaticamente unitaria e antifederalista del repubblicano genovese.

Mazzini che non concepiva nemmeno un’Italia in versione federale, avrebbe senz’altro faticato a immaginare un Europa federale. Per di più Mazzini non scrisse mai neppure un rigo o una frase sugli Stati Uniti d’Europa, men che meno su un ipotetico futuro assetto politico comune europeo, a differenza di Cattaneo. Eppure c’è chi gliele ha attribuite, come lo storico Salvo Mastellone, e l’ha persino trasformato nel precursore dei precursori dell’europeismo, ancor prima del conte Coudenhove-Kalergi[23]. Eppure nemmeno Mastellone sarà riuscito a imbattersi in una sola frase di senso compiuto scritta da Mazzini – così come invece più di una se ne trova negli scritti di Cattaneo – accennante in modo chiaro e incontrovertibile a una sua idea su un progetto di futura unificazione europea in chiave federale o anche solo confederale.

I creatori della leggenda aurea di un Mazzini protoeuropeista hanno semmai dedotto l’esistenza di simili fantomatici progetti mazziniani ricamando su poche frasi o addirittura singole parole decontestualizzate, come se esse nascondessero un qualche significato occulto da riportare alla luce, adducendo come indizi ben note e generiche considerazioni del pensatore genovese sulla fratellanza tra i popoli del continente, finanche lasciando intendere che esistessero già organizzazioni mazziniane sorte a tale scopo, come la Giovine Europa (che persino gli studenti di liceo sanno essere stata fondata non con lo scopo di unificare l’Europa, sul modello della Giovine Italia, che avrebbe dovuto invece promuovere l’unificazione italiana, ma per collegare e far cooperare tra loro i patrioti delle nazioni oppresse o divise d’Europa – primariamente italiani, polacchi e tedeschi). Hanno inoltre esaltato, travisandola, la dimensione europea rappresentata dai contatti diretti con patrioti e teorici politici di tutta Europa, la rete di sostegno internazionale, infine la sua stessa visione sociale che, seppure con abissali divergenze dottrinali, lo avrebbe posto idealmente (povero Mazzini…) a ridosso della famiglia socialista o protosocialista europea, assieme a Karl Marx, Friedrich Engels, Pierre-Joseph Proudhon, Louis Blanc. Famiglia politica peraltro dichiaratamente internazionalista, come si sa. Un lavoro complesso e degno di lode per la mole di documenti consultati, ma minato nella sua obiettività dall’europeismo militante di tali studiosi.

Di seguaci di Mastellone è ormai piena l’accademia. Qualche tempo fa a chi scrive è capitato di imbattersi in una frase di Mazzini citata da un docente universitario italiano, presentata quasi come si trattasse di una delle molte riflessioni dell’Apostolo sull’assetto da dare all’Europa futura su modello federativo. Eccola:

«Il concetto d’una Repubblica Federativa racchiude l’idea d’una doppia serie di doveri e diritti: la prima spettante a ciascuno degli Stati che formano la Federazione; la seconda, all’insieme: la prima destinata a circoscrivere e definire la sfera d’attività degli individui, come cittadini dei diversi Stati, l’interesse locale; la seconda destinata a definire quella degli stessi individui come cittadini dell’intera Nazione, l’interesse generale: la prima determinata dai delegati di ciascuno degli Stati componenti la Federazione; la seconda determinata dai delegati di tutto il paese».

Finalmente, ecco la prova che si voleva trovare: “Federazione”, “diversi Stati”, “l’intera Nazione”. È l’Europa unita teorizzata da Mazzini! E invece no, era la Svizzera…ma l’accademico se ne è guardato bene dal dichiararlo[24].

Mazzini autentico precursore?

Lungi dall’essere questo scritto un’analisi critica sulla distorsione degli ideali mazziniani da parte della più recente storiografia[25], si sente comunque il dovere di fare almeno qualche considerazione in merito. Innanzi tutto una sull’approccio al pensiero mazziniano attraverso i suoi stessi scritti, elaborati in un linguaggio chiaro e comprensibile, soprattutto quando si trattava di testi politici indirizzati al popolo nel suo insieme. Un linguaggio che non necessita quasi mai di interpretazioni, esegesi e men che meno di qualsiasi altra lettura analitica alla ricerca di un qualche significato esoterico. In questo senso Mazzini è uno scrittore politico di facile comprensione e l’unico accorgimento necessario per approcciarsi ai suoi scritti è quello di ricordare sempre di contestualizzarlo storicamente. Mazzini è un uomo essenzialmente della prima metà dell’Ottocento e questo fatto non va mai dimenticato. È un figlio dell’illuminismo e, quanto meno negli anni della sua formazione, un contemporaneo dell’ultima stagione del romanticismo del quale è, in termini di formazione, senz’altro debitore. Lettore appassionato di Ugo Foscolo, Vittorio Alfieri e George Gordon Byron, apprese da questi autori ad amare la patria con passione e a ribellarsi alla tirannia. Fu inoltre un ammiratore di Dante, al centro di uno dei suoi primi scritti, significativo fin dal titolo: Dell’amor patrio di Dante (1826, pubblicato nel 1837).

Tale formazione culturale e identitaria emerge quasi sempre – è il caso di dirlo – in ogni suo scritto. Emergono anche alcuni capisaldi del suo pensiero legati a mitologie storiche di tipica origine romantica, come il culto della romanità. Nelle note autobiografiche redatte nel 1861, inserite nell’introduzione agli Scritti di politica ed economia, egli stesso mise in correlazione il suo amor patrio con una certa mitologia romanocentrica:

«da quel concetto [l’unità italiana] …balenava, come stella dell’anima, un’immensa speranza: l’Italia rinata e d’un balzo missionaria di una Fede di Progresso e di Fratellanza, più vasta assai dell’antica, all’umanità. Io aveva in me il culto di Roma. Fra le sue mura s’era due volte elaborata la vita Una del mondo. Là, mentre altri popoli, compita una breve missione, erano spariti per sempre e nessuno aveva guidato due volte, la vita era eterna, la morte ignota»[26].

E a proposito del suo millantato proposito di unificazione dell’Europa, ecco cosa Mazzini scrisse nel 1859 nel libello Ai giovani d’Italia:

«La Patria è una come la Vita!», aggiungendo ispirato: «Dio ve la diede; […] Dio che, creandola, sorrise sovr’essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch’ei ponesse in Europa, simboli dell’eterna Forza e dell’eterno Moto, l’Alpi e il Mare. Sia tre volte maledetto da voi e da quanti verranno dopo di voi qualunque presumesse di segnarle confini diversi. Dalla cerchia immensa dell’Alpi […] sin dove il mare la bagna e più oltre nella divelta Sicilia. E il mare che la recinge quasi d’abbraccio amoroso ovunque l’Alpi non la ricingono; quel mare che i padri dei padri chiamavano Mare nostro. E come gemme cadute dal suo diadema stanno disseminate intorno ad essa, in quel mare, Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori isole, dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d’anime parlan d’Italia»[27].

La Patria dunque può essere una e una soltanto, non due: o è l’Italia o è l’Europa e in queste parole non c’è accenno alcuno di Europa. Qualcuno vi vedrebbe semmai un’ispirata ode nazionalista con tanto di accenti irredentistici sulla sacralità dei confini naturali.

Si leggano dunque direttamente gli scritti di Mazzini e non le interpretazioni, prima di trasformarlo in un precursore dell’Europa unita. Al lettore incuriosito, che ha forse letto in abbondanza commentari elaborati da illustri accademici, si lascia la libertà di scoprire direttamente sui testi di Mazzini, scritti di suo pugno, il suo più vero pensiero e gli ideali. Se non l’ha già fatto ne rimarrà senz’altro molto sorpreso, scoprendo un Mazzini diverso. A onor del vero anche nel campo europeista vi sono pareri discordanti e non dogmatici. Sembrerebbero tuttavia eccezioni. Andrea Chiti-Batelli, già consigliere parlamentare presso il Senato della Repubblica e segretario di delegazioni parlamentari italiane presso il Parlamento europeo, cosi si è espresso ad esempio in merito all’europeismo di Mazzini:

«si può affermare, per quanto ciò possa apparire paradossale, che un pensiero ‘europeo’ (nel senso di una convinzione della necessità di una unità sovrannazionale del continente, indispensabile a garantire un ordine democratico, pacifico e stabile in Europa) non esiste nel pensatore genovese»[28].

Invero Chiti-Batelli più avanti non nega l’europeismo di Mazzini, ma lo riconduce – pur con un certo ottimismo e quasi ignorando gli scritti dove Mazzini sembra affermare il contrario – a un assetto confederale (e non federale) di una futura Europa unita.

I più invece hanno lavorato troppo con la fantasia e con la deduzione e poco con la semantica. Se qualcuno ha ravvisato nella frase «ricordatevi che la missione italiana è l’unità morale d’Europa»[29] il segno che in Mazzini la missione nazionale coincidesse con l’obiettivo stesso dell’unità europea, sostenendo che «si deve ammettere che i valori sovrannazionali furono per lui le premesse ed il fine della sua dottrina della nazione e non soltanto qualcosa di accidentale, di estrinseco»[30], è pur vero che il medesimo esegeta del pensiero di Mazzini ha dimenticato di aggiungere – come se non bastasse considerare che “unità morale” non è uguale a “unità politica” – che appena due righe dopo quel breve e innocente inciso, il nostro proseguì il suo ragionamento in questo modo:

«L’Italia è la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte […]. Due volte Roma fu la Metropoli, il Tempio del mondo Europeo: la prima quando le nostre aquile percorsero conquistatrici da un punto all’altro le terre cognite e le prepararono all’Unità colle istituzioni civili; la seconda, quando […] il genio d’Italia s’incarnò nel Papato e adempì da Roma la solenne missione, cessata da quattro secoli, di diffondere la parola d’Unità dell’anime ai popoli del mondo Cristiano. Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione; di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO [in maiuscolo nel testo], la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio e il pensiero delle Nazioni»[31].

Cosa dovremmo allora dire di questo ultimo ragionamento? Forse che l’Europa unita vagheggiata da Mazzini sarebbe stata in verità una seconda versione dell’Impero Romano e che l’Italia sarebbe stata il centro propulsore di tale Impero risorto? Certo che no. Dunque le parole vanno contestualizzate e i testi letti per intero, non a pezzi. Ma le parole vanno anche lette correttamente e non fraintese.

Annotiamo poi di sfuggita che se gli esegeti di Mazzini dei tempi nostri sono stati o sono tuttora docenti universitari o intellettuali politicamente impegnati nel campo del movimento federalista europeo, sorge spontaneo dubitare che costoro siano state o siano ancora le figure più adatte a elaborare un’interpretazione equilibrata della dottrina politica mazziniana e con indipendenza di giudizio. D’altra parte se dalla morte di Mazzini in poi si è estratto dai suoi scritti quel che si voleva prendere, adombrando il resto, non stupisce che l’Apostolo nell’ultimo secolo sia passato da essere ritenuto un profeta del fascismo (Giovanni Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, 1923) all’essere creduto un profeta dell’Europa unita. L’obiettività sarebbe una grande virtù se fosse anche praticata.

Se crolla la fortezza Mazzini

Ad ogni buon conto, sorvolando su altri scritti di Mazzini nei quali il nazionalismo trascolora addirittura in vero e proprio imperialismo, che ben poco lascia alla fantasia di chi lo vorrebbe ritenere un precursore dell’Europa unita[32], si dovrà ammettere che se dovesse venir meno la tesi di un Mazzini teorico ante litteram dell’unificazione europea, a quel punto verrebbero al pettine nodi che potrebbero ingenerare una contraddizione insanabile nella narrazione politica e istituzionale corrente che suole spacciare l’europeismo come continuazione del Risorgimento. Se, infatti, Mazzini, gli affiliati alla Giovine Italia e, più in generale, i fautori del progetto di unificazione italiana in chiave democratica, unitaria e repubblicana, non erano motivati – su ispirazione degli scritti del pensatore genovese – a guardare all’unità politica italiana come al primo passo in direzione di un processo di unificazione politica dell’intero continente europeo, ebbene a quel punto il Risorgimento, con l’unica parziale ed isolata eccezione di Carlo Cattaneo, perderebbe pressoché tutti i punti di riferimento ideologici che hanno permesso di presentarlo anche solo parzialmente sotto tale veste. E tornerebbe ad essere considerato storicamente per ciò che è stato in realtà: un movimento di natura politica, sociale e culturale di matrice essenzialmente nazionale, inteso a rigenerare e far risorgere una Patria comune rimasta per secoli divisa, sottoposta al giogo di governi dispotici e sotto parziale controllo straniero, attraverso un processo di unificazione territoriale e di rinnovamento politico più o meno radicale.

Si diceva, la caduta della “fortezza Mazzini i” porterebbe in automatico a una rilettura del nostro recente passato in una chiave esclusivamente nazionale tale da impedire qualsiasi connessione diretta o indiretta tra il Risorgimento e il processo di integrazione europea. E siccome l’Apostolo, quando si riferiva alla patria, si esprimeva in modo chiaro e netto, sostenendo che di patria non ne potesse esistere se non una e una soltanto, indicando esplicitamente questa patria non nell’Europa, ma nell’Italia, ebbene gli europeisti e i seguaci di tale ideale a quel punto dovrebbero ammettere di aver reciso i legami di fedeltà alla patria italiana, contravvenendo a uno dei pochi precetti chiaramente espressi dal pensatore genovese, per inseguire un sogno che, se dovesse avverarsi, porterebbe alla scomparsa di una patria italiana indipendente e sovrana, come la pensarono i patrioti del nostro Risorgimento, trasformata in una semplice entità federata di una nuova compagine statale sovranazionale.

Tale conclusione sarebbe un tradimento degli ideali del Risorgimento, che piaccia o meno all’europeismo militante. Che sia giustificata da necessità geopolitiche, da calcoli economici, da istinto di sopravvivenza, da semplici convenienze o da mancanza di argomenti per opporsi a tutto questo, ciò non toglie che non era e non è mai stato nei piani dei protagonisti di quella stagione storica di creare una patria che fosse destinata a sciogliersi in un tutt’uno più grande, su dimensione continentale. Il Risorgimento è stato infatti un movimento collegato a una dimensione identitaria esclusivamente nazionale, al contrario dell’europeismo che propugna un progetto di integrazione continentale collegato a una dimensione identitaria plurale e su basi internazionali. L’uno contraddice necessariamente l’altro. Se uno prevale, l’altro è costretto a soccombere. Sostenere la convivenza di entrambi come processi storici complementari e fra loro dialoganti è un evidente controsenso privo di qualsiasi logica e di un qualsiasi saldo ancoraggio alla realtà storica dei fatti. A meno di non piegare la realtà storica alle contingenze politiche del momento, stravolgendola.

Conclusioni per la sinistra

Ora, la sinistra italiana, qualora volesse riappropriarsi dell’universo valoriale legato agli ideali di patria e di nazione per arginare la medesima operazione attuata dalle formazioni politiche di destra (Fratelli d’Italia e Lega), si troverebbe di fronte a tale contraddizione. L’europeismo militante, entrato a far parte nel patrimonio identitario di tutte le formazioni politiche della sinistra italiana, tanto da essere ormai consustanziale all’identità stessa della sinistra, impedisce pertanto una simile strategia. Proprio perché non si può mettere insieme il Risorgimento e l’europeismo. Il pensiero di Mazzini non può collegarsi a quello di Spinelli. Al di là del fatto che il trozkista Spinelli avrebbe deluso profondamente Mazzini, per il fatto stesso di aver aderito ideologicamente al credo marxista, tuttavia ciò che più importa è che Mazzini i era un teorico nazionalista, mentre Spinelli era un teorico internazionalista. L’uno voleva dare una base politica a una nazione, l’altro voleva sciogliere una nazione per fonderla con altre.

Riappropriarsi del Risorgimento significa dover ripensare alla storia e alla politica in un’ottica nazionale, laddove l’europeismo costringe ad approcciarsi alla storia (cancellandola) e alla politica in un’ottica internazionale paneuropea. Nel primo caso è permesso al massimo strizzare l’occhio a una visione alternativa di integrazione europea su base confederale, quasi si trattasse di una strategia per guadagnare tempo, conservare spazi di sovranità pur limitata e di parziale indipendenza, nella speranza che il vento possa cambiare. Ed è giustappunto ciò che fa Fratelli d’Italia. Si riappropria del Risorgimento e aderisce a un europeismo edulcorato, di maniera, sbandierato quasi più per rassicurare l’opinione pubblica internazionale e gli opinion maker nazionali, prevalentemente allineati su tesi europeiste federaliste. Ma si percepisce che non c’è trasporto. E non potrebbe essere altrimenti, pena il venir meno della credibilità da parte dell’elettorato di destra nei confronti della sbandierata adesione ai valori nazionali.

La sinistra invece crede fermamente nel processo di integrazione europea su basi federali. E lo sbandiera ai quattro venti, indignandosi se qualcuno non è sulla stessa lunghezza d’onda. Scruta le anime dei sospetti miscredenti, mettendo alla prova il loro europeismo e se tale europeismo non emerge in modo netto e inequivocabile l’eresia è di per sé dimostrata e la deviazione dal corretto pensiero accertata. A quel punto si dichiara di essere di fronte a soggetti affetti da incorreggibile provincialismo, di fronte a poveri ignoranti, a sovranisti (qualunque sia il significato da attribuire a questo termine), a temibili populisti. Comunque sia, soggetti da emarginare politicamente e civilmente, tollerati perché c’è libertà di parola e di espressione, ma da tenere ben lontani dalle stanze dei bottoni. Crede la sinistra, così facendo, di riuscire a riappropriarsi in modo convincente dei valori nazionali? Come potranno mai le forze di sinistra avere il buon gusto di citare Mazzini e Garibaldi, Cavour e d’Azeglio, quando sono le prime a chiedere ai loro avversari politici di rinnegare le tesi e gli ideali espressi dalla stragrande maggioranza dei protagonisti del nostro Risorgimento?

L’obiezione che alcuni potrebbero muovere a un simile ragionamento è che, con qualche espediente retorico (e con una buona dose di imbrogli storiografici, come quelli poco sopra svelati), si potrebbe comunque mischiare il diavolo all’acqua santa, così come si faceva in Francia, almeno prima dell’avvento alla presidenza dell’europeista Emmanuel Macron: Francia ed Europa, nazionalità e internazionalismo europeista, tutti mischiati insieme. Se non che il peso geopolitico e il dato storico permetto alla Francia questa operazione, mentre da parte italiana apparirebbe fuori luogo. Nel primo caso, infatti, giova ricordare che l’Unione Europea è in buona parte una creazione francese che peraltro ha anche in territorio francese la prestigiosa sede delle sedute plenarie del Parlamento europeo (Strasburgo). Francesi erano Jean Monnet e Robert Schuman (invero lussemburghese per nascita), così come l’ancora vivente Jacques Delors, i tre demiurghi dell’Europa unita come la conosciamo.

Costruzione europea che peraltro ha assunto in successione (forse non casualmente) il nome ufficiale ricavato dal calco di due compagini istituzionali create in Francia per tentare di conservare, sotto forma rinnovata e integrata con la metropoli, il vecchio impero coloniale: l’Unione Francese (1946-1958) e la Comunità Francese (1958-1960). La Francia è inoltre il più vasto Stato dell’Unione Europea, comprendente territori e collettività d’Oltremare e la zona economica esclusiva marittima più estesa del mondo. È il secondo Paese europeo per popolazione e ambisce entro il 2050 a raggiungere la Germania. È inoltre il Paese militarmente più armato d’Europa e l’unico rimasto nell’UE, dopo la cosiddetta Brexit, ad essere in possesso di armamenti nucleari. La Francia è dunque a tutti gli effetti una Potenza regionale che può permettersi ancora, sebbene a fatica, di nutrire deboli ambizioni egemoniche sull’intero continente. In un certo senso si potrebbe semplificare sostenendo che l’Unione Europea è la protesi che, dopo la perdita del vasto impero coloniale francese, permette alla Francia di dichiararsi ancora una grande Potenza con una certa influenza nel mondo. L’Unione Europea è pertanto una fattispecie di Grande Francia, pur con tutti i limiti del caso.

Il dato storico invece riguarda il baricentro dell’Europa che ne determinerebbe anche la futura identità. Baricentro che Mazzini voleva romano – nella sua ingenua visione di un’Europa di libere Repubbliche indipendenti e sovrane su base nazionale che guardassero all’Italia come esempio di civiltà e naturale loro alleata – ma che i padri dell’Europa unita hanno voluto e fatto renano. L’Europa odierna è pertanto una costruzione neocarolingia[33]. Dunque franco-tedesca per sua natura, sebbene si possa legittimamente anche ritenere che l’asse franco-tedesco (recentemente un po’ ossidato) abbia per decenni riflesso l’ombra degli Stati Uniti d’America. Renana così come renano era l’Impero franco di Carlo Magno. Impero franco che, sia detto per inciso, sappiamo tutti che si riversò in Italia per stroncare sul nascere l’ipotesi che andasse formandosi un Regno longobardo esteso sull’intera Penisola italiana, che avrebbe potuto rivaleggiare con i franchi e agire per ridimensionarne le ambizioni. Insomma, l’Europa neocarolingia nega la romanità e la latinità, perché storicamente la prima Europa carolingia sottomise e umiliò la culla della romanità e della civiltà latina. La prima peraltro di una lunga serie di sottomissioni e umiliazioni ai danni dell’Italia, compiute dagli Stati eredi diretti di quell’Impero, sia quelli rimasti sulla riva sinistra del Reno a formare la futura Francia, sia quelli prettamente germanici, neppure superficialmente latinizzati, rimasti sulla riva destra del Reno.

Anche per questa ragione non ci può essere identificazione tra Patria nazionale e Patria europea. Se l’Europa è antistorica, lo è ancora di più da un punto di vista latino e mediterraneo. Scrive a tal proposito con lucidità Lucio Caracciolo:

«Paradossale il caso italiano. Nelle élite politiche della Prima Repubblica, e di riflesso in quel che ne resta oggi, la tradizione carolingica ha sempre goduto di speciale favore. Specie fra gli esponenti di orientamento cattolico-democratico – ma non solo – il mito eurocarolingico ha prodotto fervidi sacerdoti. Forse non tutti consapevoli che a rigore un’Europa di impronta carolingica avrebbe spaccato l’Italia in due, poiché le persistenze bizantine e longobarde impedirono a Carlomagno e ai suoi eredi di spingere le frontiere imperiali nel nostro Mezzogiorno. Ma non saranno certo le carte storiche a limitare l’entusiasmo dei sinceri europeisti, per scelta e vocazione insensibili ai vincoli territorial-temporali»[34].

Certo in una tale visione identitaria neocarolingia o carolingica – che in mancanza di precedenti storici di unità europea è davvero quanto di meglio si possa trovare – possono benissimo riconoscersi la Francia e la Germania, ma non di certo l’Italia. Italia che, al contrario, come ci ricorderebbe il pensatore genovese se fosse ancora oggi in vita o se, quanto meno, qualcuno si prendesse la briga di rileggerlo, avrebbe tutte le carte storiche in regola per essere essa stessa il baricentro di una costruzione politica che riunisse non tanto l’Europa, quanto le nazioni latine, le slave meridionali, l’illirica e l’ellenica, comprendendo anche l’Asia Minore, il Levante e l’Africa settentrionale. Perché il destino dell’Italia è primariamente mediterraneo e marittimo, non europeo e continentale. A meno di non confondere l’economia con la politica. Perché se è vero che gli scambi commerciali e l’integrazione dei mercati ci spingono verso nord, i nostri interessi geostrategici e la nostra stessa identità nazionale ci mantengono saldamente ancorati al continente liquido del quale rappresentiamo lo stesso centro geografico: il Mediterraneo.

Se la sinistra italiana dovesse finalmente comprendere queste semplici evidenze, allora potrebbe riappropriarsi con una certa facilità dell’eredità risorgimentale che le spetta di diritto. Ma chi scrive ha seri dubbi che ciò potrà mai avvenire. L’europeismo è infatti l’ultimo feticcio ideologico rimasto alle sinistre di origini social-comunista e cattolico-progressista, proprio in virtù del vecchio internazionalismo di matrice marxista, evolutosi in cosmopolitismo, unito all’europeismo cristiano delle forze cattoliche di sinistra, sorta di neoguelfi fautori della Res publica christiana. E a tale ultimo feticcio ideologico le sinistre non rinunceranno mai, precludendosi così la strada del recupero di valori nazionali e abbandonando la memoria del Risorgimento alle destre. Si aggrapperanno semmai all’europeismo con tutte le loro forze. Allargando ancor più il solco identitario che è pronto in futuro a spaccare la società italiana, così come quella di altri popoli d’Europa.

Conclusioni per il Paese e l’Europa nel complesso

È infatti più probabile che l’Europa unita si farà proprio con la sconfitta sul campo degli ultimi difensori del principio di nazionalità, come fondamento dell’identità e della sovranità di Stati, i quali al massimo saranno disposti ad accettare – forse anche solo provvisoriamente – un’Europa confederale. A costoro si opporranno (e saranno molto probabilmente in maggioranza, soprattutto fra le generazioni più giovani e prevalentemente negli Stati economicamente più dinamici e diventati sempre più multiculturali) i fautori dell’Europa federale, primo passo verso l’ancora più utopica visione di unità politica globale retta da un unico governo impostato su una società aperta (l’Open Society teorizzata da Karl Popper), libera di mischiare a piacimento culture, lingue, identità, etnie, fino a farle trascolorare e scomparire del tutto.

Gli eurofederalisti, imponendo la loro idea di Europa cosmopolita e la loro visione morale della storia, arriveranno probabilmente allo scontro diretto con i sostenitori di un’Europa confederale, se non anche di un’Europa di Stati nazionali liberi e indipendenti. Sempre che in futuro esistano ancora gli Stati su base nazionale e non già multiculturale, come qualcuno già oggi si interroga, in ragione della sempre più imponente pressione migratoria sul continente[35]. Lo scontro, se ci sarà, potrebbe rassomigliare – se non nella forma quanto nella sostanza – a quello che oppose i confederati del sud agli unionisti del nord, durante la Guerra di Secessione negli Stati Uniti d’America (1861-1865), quando si fronteggiarono altrettante visioni diverse e antitetiche di governo della nazione. E molto probabilmente gli eurofederalisti vinceranno. Perché saranno di più, perché avranno maggiori risorse, avendo dalla loro parte i detentori di capitali finanziari e la grande industria, perché infine gli ultimi difensori del ridotto nazionale, presi dalla disperazione, si dimostreranno umanamente indegni. Se nel frattempo il continente non sarà già finito sotto il controllo di una o più superpotenze extraeuropee (ipotesi da non scartare a priori), l’Europa federale sarà una realtà di fatto, dotata di una sua propria memoria storica basata sull’ultimo conflitto occorso per unificarla, con i suoi eroi e la sua mitologia fondativa.

A quel punto, per quanto riguarda l’Italia, tornata ad essere un’espressione geografica, il Risorgimento sarà solo un utile orpello di un passato senza più connessioni con il presente, rimasto come bandiera identitaria delle sole forze sconfitte, del quale ci si potrà infine liberare senza difficoltà e con un senso di gaia leggerezza.


[1] Stefano Rolando, Patria e Nazione. Lessico politico asimmetrico, apparso come audio digitale (podcast) il 12 marzo 2023 in Ilmondonuovo.club; pubblicato in «Democrazia Futura», III (9), gennaio-marzo 2023, p. xx 

[2] Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia Moderna, volume IV “Dalla rivoluzione nazionale all’Unità. 1849-1860”, Milano, Feltrinelli, 1964, 592 p.; cit. p. 86.

[3] Emilio Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano, 1997, 412 p.; [la citazioner è a, p. 297].

[4] Emilio Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, op. cit. alla nota 3,  p. 342

[5] Ibidem, p. 348

[6] Ibidem, i, p. 328

[7] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. IIII, pp. 1979-1980. 

[8] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit alla nota 7, pp. 1979-1980.

[9] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, ibidem, p. 1981.  

[10] Ibidem

[11] Giampaolo Calchi Novati, Caterina Roggero, Storia dell’Algeria indipendente. Dalla guerra di liberazione a Bouteflika, Milano, Bompiani, 2018, 592 p.; [si vedano le pp. 52-53].

[12] «Questa sera non ci sono più due France a fronteggiarsi. C’è solo una Francia, una sola nazione, riunita nello stesso destino».

[13] «Signore e signori, cari concittadini, noi non siamo un Paese qualsiasi sul pianeta, una nazione qualsiasi del mondo, noi siamo la Francia. E, da presidente della Repubblica, spetterà a me portare avanti le aspirazioni che sono sempre state quelle del popolo francese […]. Ebbene sì, tutto quello che farò sarà anche in nome dei valori della Repubblica ovunque nel mondo».

[14] Emilio Gentile, La Grande Italia, op.cit. alla nota 3, p. 369.

[15] Eric Hobsbawm, Terence Ranger (et alii), The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; trad. it. L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987, 295 p.

[16] Si veda, ad esempio, Anthony D. Smith, The Ethnic Origins of Nations, Oxford, Basil Blackwell, 1986; trad. it. Le origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino, 1992, 510 p.

Nel saggio si evidenza l’esistenza di identità nazionali ben prima dell’avvento della civiltà industriale o dell’età romantica, come nel caso dei tratti etnici e culturali orgogliosamente vantati dagli antichi Greci per distinguersi da altri popoli. Altrettanto segnati da un’orgogliosa rivendicazione di identità etnica e culturale furono, sempre nell’antichità, i tentativi di resistenza ad invasioni straniere, come tra le città ioniche dell’Asia Minore nei confronti dei Persiani o tra i Galli contro i Romani ai tempi delle campagne di Cesare.

[17] Emilio Gentile, La Grande Italia, op.cit.alla nota 3, p. 4

[18] Ernesto Galli della Loggia, “Elly Schlein e le sue tre cittadinanze”, Corriere della Sera, 15 marzo 2023.

[19] Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Milano, Feltrinelli, 2022, 144 p.; cit. p. 31.

[20] Arturo Carlo Jemolo, Società civile e società religiosa: 1955-1958, Torino, Einaudi, 1959, p. 111; cit. in Emilio Gentile, La Grande Italia, op.cit.alla nota 3, p. 371.

[21] Lucio Caracciolo, La pace è finita, op. cit. alla nota 19. p. 43

[22] «L’edificio europeo costrutto dai re e dagl’imperatori dovrà rifarsi sul puro modello americano. Il principio della nazionalità, provocato e ingigantito dalla stessa oppressione militare che anela a distruggerlo, dissolverà i fortuiti imperii dell’Europa orientale; e si tramuterà in federazioni di popoli liberi. Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa», in Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1849), edizione commentata da Giorgio Rumi, Milano, Mondadori, 2001, p. 84  

[23] Si vedano gli scritti di Salvo Mastellone: Il progetto politico di Mazzini: Italia-Europa, Firenze, Olschki, 1994; Tre democrazie: sociale (Harney); proletaria (Engels); europea (Mazzini), Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2011

[24] Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, edizione diretta dall’autore, volume V, Milano, G.Daelli Editore, 1863, pp.48-53. Nel testo dal quale è tratta la citazione si dà conto dei risultati conseguiti a partire dal 1834 dalla associazione della Giovine Svizzera e delle idee dello stesso Mazzini in merito a una revisione sostanziale della costituzione elvetica che la rendesse più democratica e persino di una futura aggregazione di territori austriaci e francesi per fare della Svizzera un più vasto Stato alpino che facesse da cuscinetto tra l’Italia in divenire e le nazioni transalpine.

[25] Sull’utilizzo selezionato e la distorsione del pensiero di Mazzini a fini politici, in epoche meno recenti, da parte di intellettuali e accademici, vedasi anche: Simon Levis Sullam, L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2010, 170 p.

[26] Scritti di Giuseppe Mazzini. Politica ed Economia, volume I, Milano, Sonzogno, 1876, p. 29

[27] Scritti di Giuseppe Mazzini. Politica ed Economia, volume I, Milano, Sonzogno, 1876, p. 206

[28] Andrea Chiti-Batelli, Mazzini precursore dell’idea di federazione europea? in «Il Pensiero mazziniano», I (1999), pp.34-47, cit. p. 36

[29] Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo (1859-1860), prefazione di Donald Sassoon, Milano, Rizzoli, 2010, 144 p; cit., p. 72 

[30] Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea (1961), Napoli, Guida, 1979; cit. in Andrea Chiti-Batelli, Mazzini precursore, op.cit., p. 40.

[31] Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, op.cit., pp. 72-73.

[32] Si veda ad esempio: Giuseppe Mazzini, Politica Internazionale, serie di articoli in “La Roma del Popolo” (1871), pubblicati in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol.XVI, Roma, 1887, pp. 128-156.

Alcuni passaggi contenuti in questi articoli hanno levato il sonno a non pochi europeisti convinti fino ad allora di aver correttamente interpretato il pensiero di Mazzini. Particolarmente ‘doloroso’ doversi confrontare con un Mazzini convertitosi a fautore dell’imperialismo coloniale italiano (con i consueti accenni alla grandezza di Roma): «Schiudere all’Italia, compiendo a un tempo la missione d’incivilimento additata dai tempi, tutte le vie che conducono al mondo asiatico: è questo il problema che la nostra politica internazionale deve proporsi colla tenacità, della quale, da Pietro il Grande a noi, fa prova la Russia per conquistarsi Costantinopoli. I mezzi stanno nell’alleanza cogli Slavi meridionali e coll’elemento ellenico fin dove si stende, nell’influenza italiana da aumentarsi sistematicamente in Suez e in Alessandria e in una invasione colonizzatrice da compirsi, quando che sia e data l’opportunità, nelle terre di Tunisi. […] Tunisi, chiave del Mediterraneo centrale, connessa al sistema sardo-siculo e lontana venticinque leghe dalla Sicilia, spetta visibilmente all’Italia. Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte […] di quella zona africana che appartiene veramente fino all’Atlante al sistema europeo. E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l’adocchiano e l’avranno tra non molto se noi non l’abbiamo», ivi, pp. 153-154.

Per ovviare all’imbarazzo di dover giustificare l’esistenza negli scritti di Mazzini di questa e altre simili teorie, i suoi esegeti europeisti hanno trovato la soluzione perfetta indicando nell’età avanzata dell’Apostolo e nelle amarezze generate sia dal sostanziale fallimento del suo progetto repubblicano, sia dal crescente diffondersi in Italia delle dottrine marxiste e anarchiche che egli tentava di arginare, una probabile causa dell’allontanamento dall’arioso umanitarismo di un tempo. Insomma, non era più lo stesso di prima, dunque le sue tesi del 1871 sarebbero da considerarsi nulle e prive di valore.

[33] Lucio Caracciolo la definisce “carolingica”. Cfr. Lucio Caracciolo, La pace è finita, op.cit. alla nota 19, pp.45-48

[34] Ibidem, p. 47.

[35] Per una sintetica riflessione sulla trasformazione in senso multietnico degli Stati nazionali europei, fino a snaturarli: Angelo Panebianco, “I migranti e l’Europa più unita. Gli Stati, il declino”, Corriere della Sera, 21 marzo 2023.  

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