Pubblichiamo poi una rilettura del Trattato del ribelle di Ernst Junger. Venceslav Soroczynski, pseudonimo di un giovane scrittore e critico letterario e cinematografico italiano presenta l’attualità di un libro: “Del saggio, mancano invece i connotati della scientificità, del rigore e della dotazione bibliografica. Eppure – chiarisce l’autore del pezzo – l’obiettivo del libro è tentare di spiegare qualcosa. Qualcosa che, forse, spiegare non si può, perché affatto primigenio, originario, intimo. Forse, addirittura istintivo: l’atto del divenire liberi”, poi aggiungendo più avanti: “[…] i suggerimenti concreti di Jünger appaiono estremamente rivoluzionari, al limite dell’impraticabile: senza mezzi termini, egli propone, in più passi del libro – talmente tanti che non possiamo pensare a prescrizioni sfuggite alla passione – di fare a meno dei medici, limitare l’uso dei farmaci, non vaccinarsi, stare lontani da industrie farmaceutiche e specialisti, e soprattutto dai “sierologi” definiti “vecchi orchi” che useranno il nostro corpo per ottenere “qualche farmaco miracoloso”. E, ancora, evitare l’inserimento in elenchi tenuti dallo Stato, non confidare nelle macchine, nei moderni sistemi di comunicazione, nell’amministrazione centrale, nei paesi considerati progrediti che, secondo l’Autore, sono i più arretrati […]. E ancora: “Jünger, insomma, sembra abbia vissuto ai nostri tempi, ma con perplessità: non si spiegano diversamente le sue convinzioni che il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno sia indice di angoscia; che sovrano debba essere il malato, non il medico, e che l’uomo sano debba evitare i dottori e affidarsi alla verità del corpo senza trascurarne gli avvertimenti. Si spinge addirittura a chiedersi se l’allungarsi della vita media sia veramente un vantaggio e a dire che una società vaccinata, rivaccinata e medicalizzata ha minori probabilità di sopravvivere”. L’articolo ha suscitato vive reazioni in seno alla nostra redazione. Lo pubblichiamo pertanto come “Parere in dissenso”. Pur dissentendo dall’autore e invitando tutti i cittadini a vaccinarsi per la tutela della collettività in un momento in cui la pandemia continua a mietere centinaia di morti in Italia e a riempire le terapie intensive dei nostri nosocomi prevalentemente con persone non vaccinate, Democrazia futura ospita volentieri questo bel contributo sul Trattato del ribelle di Ernst Jünger giudicandolo utile alla discussione. Mai più di oggi deve valere il monito di Norberto Bobbio: “Democrazia vuol dire dissenso”.
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Alle sette del mattino e alla stessa ora del pomeriggio, sono lunghe le code fuori dalle farmacie di città. Tutti ne conoscono le ragioni, ma non tutti hanno notato che, nelle mani di alcuni degli attendenti, c’è un libro sottile, dalla copertina verde acqua. Solo chi si avvicina per un’intervista o per mettersi anch’egli in coda, scopre che si tratta del Trattato del Ribelle, di Ernst Jünger.
Desta allarme la notizia che tanti italiani abbiano un libro in mano, pertanto si rende necessario scrivere due righe sull’opera e fare alcune ipotesi sul perché si sia diffusa. Una piccola nota personale: l’estensore della presente prova un sottile piacere a imbattersi in un testo tanto datato, dato che legge solo poeti morti – soprattutto perché non possono cambiare idea, ma anche perché, come disse nervosamente il protagonista di Arca russa percorrendo i saloni dell’Ermitage, “Tutti possono conoscere il futuro. È il passato che non si conosce” (1).
Anzitutto, il Trattato, probabilmente, non è un trattato. Dalla più accreditata critica, è rubricato fra i saggi, ma la categorizzazione traballa, quest’opera aleggiando equidistante fra i generi. Alcuno, infatti, sostiene che somigli a un romanzo, nei frequenti passi in cui un protagonista in terza persona proietta immagini che sembrano aderire all’idea di Jorge Luis Borges che “La letteratura non è altro che un sogno guidato” (2). Altri, adottando un illuminato criterio, potrebbe definirlo una poesia che non va a capo. Infatti, non gli manca una quota di bellezza e di mistero e chi l’ha letto pare che l’abbia poi riposto accanto al volume in cui sono raccolti i seguenti versi di Lawrence Ferlinghetti:
“La poesia è quello che invocheremmo / svegliandoci in una selva oscura / nel mezzo del cammin / di nostra vita” (3) .
Del saggio, mancano invece i connotati della scientificità, del rigore e della dotazione bibliografica. Eppure, l’obiettivo del libro è tentare di spiegare qualcosa. Qualcosa che, forse, spiegare non si può, perché affatto primigenio, originario, intimo. Forse, addirittura istintivo: l’atto del divenire liberi. Ma perché scriverne, nel 1951, visto che i nazisti sono stati sconfitti? Perché:
“Le masse, nel nostro paese almeno, si trovano in una situazione che impedisce loro di rendersi conto delle violazioni della Costituzione. … La violazione del diritto assume talvolta apparenza di legalità … La maggioranza può contemporaneamente agire nella legalità e produrre illegalità: le menti semplici non afferreranno mai questa contraddizione.”
Il problema è così delineato con immediatezza e precipita il lettore direttamente nell’opera. La quale, però, non si preoccupa di definire una collocazione storica, individuare le cause, fare nomi: il male è semplicemente il punto in cui ci si trova e l’intento è quello di individuarlo e poi salvarsene.
Se il primo momento è discernere il legale dal giusto, il secondo è reagire alla tirannia della legge. E la reazione è il Passaggio al bosco (Der Waldgang), che è anche il titolo originale del libro.
Se dovessimo dirlo con una sola proposizione, useremmo quella dello stesso Jünger: il passaggio al bosco è “l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale.”
Se ci fosse invece concessa una sola parola per definirlo, essa sarebbe “No”, un no pronunciato come risposta alle imposizioni dello Stato. Un no che significa: “Piuttosto, passo al bosco”. Un no che suona simile al cioraniano “Ogni no scaturisce dal sangue” (4).
Questa negazione è l’atteggiamento dell’uomo che non è disposto a trattare sulla propria libertà: “Il «sì» parlerebbe in favore della necessità. Il «no» in favore della libertà”, scrive Jünger. E quanto somigliano queste parole a quelle di George Orwell:
Per l’uomo c’è una sola alternativa: di scegliere tra la libertà e la felicità, e la maggior parte degli uomini tra le due preferisce la felicità! (5).
E se volessimo trasformare lo slancio teorico in atto pratico?
Qui, il testo si fa più debole, poiché, se è vero che, entrando nell’intimo, si scopre l’infinito raggio dell’azione spirituale, è anche vero che i suggerimenti concreti di Jünger appaiono estremamente rivoluzionari, al limite dell’impraticabile: senza mezzi termini, egli propone, in più passi del libro – talmente tanti che non possiamo pensare a prescrizioni sfuggite alla passione – di fare a meno dei medici, limitare l’uso dei farmaci, non vaccinarsi, stare lontani da industrie farmaceutiche e specialisti, e soprattutto dai “sierologi” definiti “vecchi orchi” che useranno il nostro corpo per ottenere “qualche farmaco miracoloso”. E, ancora, evitare l’inserimento in elenchi tenuti dallo Stato, non confidare nelle macchine, nei moderni sistemi di comunicazione, nell’amministrazione centrale, nei paesi considerati progrediti che, secondo l’Autore, sono i più arretrati.
Si resta senza parole, vero? Ma perché il lettore contemporaneo non può semplicemente confinare le idee di Jünger nell’ambito del più deresponsabilizzante esoterismo – peraltro quasi stuzzicato dall’incipit, che autocertifica il passaggio al bosco come “un’escursione perigliosa, non solo fuori dei sentieri tracciati, ma oltre gli stessi confini della meditazione”?
Perché, nello stesso anno in cui in Germania usciva questo libro, si pubblicava anche la ben più rigorosa opera di Theodor Wiesengrund Adorno, nella cui prima pagina sono incise le seguenti parole:
Solo in quanto non sono ancora del tutto controllati e assorbiti dall’ordine, gli uomini sono in grado di creare un ordine più intimo (6).
Ad ogni modo, anche se si volesse considerare quello di Jünger un esperimento isolato, scapestrato e disordinato, va detto che, in queste 130 paginette propagate in Italia da Adelphi, vi è una potenza, un lirismo, una ispirazione, una forza che travolgono il lettore del nostro tempo, abituato alla modesta letteratura contemporanea, così attenta a dire la cosa giusta e a dare spiegazioni razionali di ogni cosa. Si può, infatti, spiegare razionalmente l’istinto a essere liberi?
In un’epoca nella quale tutte le scienze vorrebbero essere esatte, chi posa gli occhi sulla impavida prosa di Jünger si ubriaca, letteralmente. Comincia a sentire nei polmoni più ossigeno, nei muscoli più forza, nel cuore più coraggio e nel pensiero più alternative. E a credere impunemente di poter ambire a un’autonomia.
Ebbene, questo libretto, trovato su una panchina, rinvenuto sul sedile di un vagone della metro, lasciato sul tavolo di una biblioteca, esposto nella vetrina di una spregiudicata libreria è una pietra focaia che fa ardere il fuoco della libertà e illude l’uomo di essere l’unico a guidare la propria vita, ad ambire l’adescamento del rischio di vivere.
E così il bosco dilaga, la macchia si allarga, abbraccia chi non ha potere, né può imporre la propria parola. E lo fa in ogni dove, poiché il concetto di bosco jungeriano non delimita un luogo:
Il bosco è dappertutto: in zone disabitate e nelle città, dove il Ribelle vive nascosto oppure si maschera dietro il paravento di una professione. Il bosco è nel deserto, il bosco è nella macchia. Il bosco è in patria e in ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza. Ma il bosco è soprattutto nelle retrovie del nemico stesso. … Il Ribelle organizza la rete di informazioni, il sabotaggio, la diffusione delle notizie tra la popolazione.
Ed ecco che si introduce la figura del Ribelle, con l’iniziale maiuscola. Egli è colui che riconosce la legge ingiusta e se ne divincola passando al bosco.
Non è semplicemente un rivoltoso, ma può diventarlo, se necessario:
I despoti tendono naturalmente ad attribuire un significato criminale alla resistenza legale e anche al semplice non accoglimento delle loro pretese.
Dunque, anche il crimine è ammesso per “conservare la sovranità in mezzo al disfacimento, allo sgretolamento nichilistico dell’essere”.
Nemmeno la Chiesa è più una garanzia, dato che “può offrire assistenza ma non esistenza”.
Pare dunque che Jünger abbia in odio tutto ciò che è organizzato, imposto dall’uomo all’uomo, soprattutto se ha la paura come strumento di coercizione, latente o meno:
L’accerchiamento del nemico è prima razionale, poi sociale … Non vi è destino più disperato che essere catturati in questa spirale, dove il diritto è usato come arma. … E così ora sarà la paura a imprimere la spinta … La vita è diventata grigia ma sembrerà più tollerabile se a un passo da noi scorgiamo la tenebra, il nero più assoluto.
Che tutto questo non sembri, però, una passeggiata: passare al bosco può voler dire innanzi tutto andare verso la morte, visto che quell’atto significa vincere la paura e tutte le paure dell’uomo si riconducono alla paura della morte.
Parole grosse, insomma, ma forse non spropositate: lo Jünger del Trattato può apparire eccessivamente paranoico, oppure profondamente lucido; dipende da dove ci troviamo: se dentro o fuori la farmacia.
Dipende da che mestiere fa lo scrittore: talvolta, laddove il teorico sta cercando le prove, il poeta ha già descritto il mondo avvicinandosi alla realtà come l’asintoto si avvicina alla curva. Scrisse Jerome David Salinger:
Tu non ti sbagli mai, Bessie. Quel che dici è sempre falso o esagerato, ma sbagliato mai (7).
In ogni pagina, l’Autore sembra spingerci a chiedere: “Questo è giusto?”
L’interrogativorisuona come quei versi di Hans Theodor Storm che divennero comandamento morale per Jünger stesso:
Uno domanda: e poi che cosa ne consegue? / Un altro domanda soltanto: questo è giusto? / Così si distingue il libero dal lacchè” (8)
Il concetto di libero e di giusto ci appaiono oggi condizionati, o condizionabili, a beni ulteriori, o necessità superiori: io sono libero ma…, questo è giusto ma… e, invece, nel Trattato sono valori che vengono prima di ogni altro.
Alcuni passi ci fanno venire il sospetto che il libro non sia finito solo nelle mani degli attendenti l’esito quotidiano, ma anche in quelle dei manifestanti. Per esempio:
“Non fa alcuna differenza se l’opinione del singolo contrasta con quella di cento o di mille altri individui. … il suo giudizio, la sua volontà, la sua azione possono fare da contrappeso a dieci, venti o mille altre persone”, quindi: “Il Ribelle è deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, seppure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo”.
Ogni pagina del Trattato ha del fascino, instilla il dubbio, costringe le coscienze a tirare un filo fra l’istinto e la norma, per vedere quanto distano. In alcuni passaggi, sembra un libro di fantascienza scritto settanta anni fa:
“Una forza predominante, se pure riesce a modificare il corso della storia, non può creare diritto” e ancora: “L’essere umano è ridotto al punto che da lui si pretendono le pezze d’appoggio destinate e mandarlo in rovina.”
Jünger, insomma, sembra abbia vissuto ai nostri tempi, ma con perplessità: non si spiegano diversamente le sue convinzioni che il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno sia indice di angoscia; che sovrano debba essere il malato, non il medico, e che l’uomo sano debba evitare i dottori e affidarsi alla verità del corpo senza trascurarne gli avvertimenti. Si spinge addirittura a chiedersi se l’allungarsi della vita media sia veramente un vantaggio e a dire che una società vaccinata, rivaccinata e medicalizzata ha minori probabilità di sopravvivere.
I moniti di Jünger sembrano scritti da sobillatori contemporanei, dotati però di un fuoco d’altri tempi: si immaginerà, dunque, quale fascino esercitino su coloro i quali non si fidano dello Stato, sospettano di molte cose e hanno paura di tutte, i poco informati, quelli che cercavano una giustificazione morale alle loro scelte istintuali, quelli il cui rifiuto è solo un capriccio, quelli che, magari dotati di strumenti dialettici e retorici, trascinano gli altri. A causa dell’intensità espressiva di Jünger, il danno è fatto: il libro si diffonde, eccita le coscienze, viene spedito via Amazon, prestato fra amici, acquistato in libreria.
Ed ecco che un certo tipo di lettore s’infiamma e questo volumetto, dalla copertina colorata in modo così inoffensivo, corre di mano in mano nelle file – con ciò aumentando il rischio del contagio, oltre che quello della disobbedienza. E ci si mette poi anche il titolo a esercitare una certa attrazione nei confronti dei renitenti: da un lato, la parola “ribelle” ammicca a una certa indole; dall’altro, la compresenza del termine “trattato” dissipa un sospetto di ignoranza e conferisce alla figura del ribelle contemporaneo la terza dimensione, quella della profondità.
Questo libretto, piccolo e pericoloso come una rivoltella da taschino, leggero e denso come una razione da guerra, va letto con giudizio critico e senza eccessivo fervore, poiché ricorda all’uomo cos’è un uomo. Al singolo, che non è una frazione della massa. Al pensiero, che non è una discendenza dell’educazione. Al ragazzo, che non è il risultato di quella cosa che si chiama formazione – poiché resta il dubbio se debba essere un uomo a dare la forma a un altro uomo.
Il tono mistico che lo pervade, unito alle parole chiare, semplici, inequivocabili, ne fa una anarchia ordinata la quale, in materia letteraria, stravolge la classificazione dei generi e, forse, è tutte e tre le cose fra cui eravamo indecisi a inizio lettura: un saggio che racconta, poeticamente, qualcosa.
Adesso, però, calma: lasciamo il marciapiede, chiudiamo il libro, accendiamo la televisione, andiamo sui siti dei quotidiani. Per fortuna, oggi sappiamo che tutto questo non ci riguarda più, che le parole di Jünger erano pensate in un altro luogo e per un altro tempo; che, dopo settant’anni, il passaggio al bosco non è più necessario, che il pericolo è scampato, che il cittadino è libero nelle sue scelte ed è adeguatamente istruito, che la mano saggia dello Stato trova le soluzioni e quella invisibile del mercato fornisce la materia prima. E che, grazie alla società dell’informazione, non rischiamo di perderci lo spettacolo.
Note a fine testo
(1) Aleksandr Sokurov, Arca russa, lungometraggio del 2002.
(2) Si veda il Prologo in Jorge Luis Borges, El informe de Brodie Buenos Aires, Emecé Editores, 1970, 153 p. Traduzione Italiana: Il Manoscritto di Brodie, Milano, Rizzoli, 1971, 125 p.
(3) Lawrence Ferlinghetti, What is poetry, Berkeley California, Creative Arts Book Co, 2000, 70 p.
(4) Emil Cioran, De l’inconvénient d’être né.Paris, Gallimard, 1973. Traduzione italiana di Luigi Zilli: L’inconveniente di essere nati, Milano, Adelphi, 1991, 187 p.
(5)George Orwell, Nineteen Eighty-Four, 1914 London, Secker & Warburg, 1949, 314 p. Traduzione italiana di Gabriele Baldini: 1984, Milano, Mondadori, 1950, 328 p.
(6) Si veda la dedica in Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Minima moralia Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Berlin/Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1951, 338 p. Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Introduzione e traduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1954, LXI-236 p,
(7) Jerome David Salinger, Franny and Zooey, Boson Little Brown 1961 202 p. Si tratta di due racconti inizialmente usciti nel 1955 e nel 1957 sul New Yorker Magazine. Traduzione di Romano Carlo Cerrone e Ruggero Bianchi, Franny e Zooey,Torino: Einaudi, 1963, 175 p.
(8)Si veda il Diario Hans Theodor Storm, Gesammelte Werke. Band 6.: Einleitung ; Fontane über Storm ; Briefe ; Erinnerungen und Betrachtungen, Herrliberg ; Zürich : Bühl, 1947, 336 p.