Il parere

Democrazia Futura. Draghi: il cigno bianco di Singapore

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

Parere in dissenso. Una valutazione critica della leadership dell’inquilino di Palazzo Chigi, di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli.

Michele Mezza
Michele Mezza

Il secondo approfondimento dedicato a Draghi prosegue con un “Parere in dissenso” in cui Michele Mezza docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli, in una lunga quando dotta argomentazione non priva di riferimenti storici, sociologici e di critica dell’economia politica, “Draghi: il cigno bianco di Singapore”, elabora quella che nell’occhiello viene definita “Una valutazione critica della leadership dell’inquilino di Palazzo Chigi”. “Questo è un governo che ci ha posto al vertice dell’Europa, riaccreditando il paese come socio fondatore e titolare di una parte costitutiva del know how comunitario. Siamo dunque in un punto alto del confronto politico, dove l’eventuale contrasto non può basarsi su singoli atti, su aspetti specifici di una politica, ma deve investire frontalmente un’intera strategia, se non proprio un destino che si sta parando all’Italia”. Ciò premesso secondo Mezza si tratta di “Un governo legittimo ma non per questo meno politicamente scivoloso. Per quanto sia costituzionalmente chiaro il suo fondamento parlamentare, nella sostanza, questo esecutivo mostra in maniera abbagliante il carattere di “affidamento personale” che segna il mandato ricevuto da Draghi. Non un segno di marca gollista, come pure qualcuno ha scritto, ma sicuramente una forzatura nella direzione di una possibile tendenziale autonomia delle sfere di decisione politiche dalle piattaforme di rappresentanza sociale […]: vedo, in virtù di una piena coerenza repubblicana del personaggio, lo svolgersi, inavvertito e indolore, di una deriva che muta la qualità e l’intensità del corso democratico, pur rimanendo nel solco e nel mandato dell’attuale dinamica istituzionale”.


Il compito è quello di esplicitare, in un coro plaudente che sta diventando assordante, e forse persino imbarazzante per l’interessato, a cui ormai ogni giorno gli si porge la corona dell’impero, come Antonio con Cesare, il fondamento di una possibile valutazione critica della leadership di Mario Draghi.

Questo è un governo che ci ha posto al vertice dell’Europa, riaccreditando il paese come socio fondatore e titolare di una parte costitutiva del know how comunitario.

Siamo dunque in un punto alto del confronto politico, dove l’eventuale contrasto non può basarsi su singoli atti, su aspetti specifici di una politica, ma deve investire frontalmente un’intera strategia, se non proprio un destino che si sta parando all’Italia.

Tanto meno si può giocare con i vecchi timori e le ancestrali paure dell’uomo forte o della trasgressione istituzionale.

Proprio su questo  il professor Gianfranco Pasquino, su queste colonne (1), con l’autorevolezza che gli è propria nella materia, ha risolutamente tolto dal novero dei temi di discussione la legittimità costituzionale e democratica dell’attuale governo. L’attuale è un esecutivo parlamentare, in una repubblica parlamentare, formato per una iniziativa reale e non formale, come appunto la legge fondamentale dello Stato impone, del Presidente della Repubblica.

Un governo legittimo ma non per questo meno politicamente scivoloso. Per quanto sia costituzionalmente chiaro il suo fondamento parlamentare, nella sostanza, lo ha spiegato Carlo Verdelli nel suo fondo sul Corriere della Sera del 17 settembre, questo esecutivo mostra in maniera abbagliante il carattere di “affidamento personale” che segna il mandato ricevuto da Draghi. Non un segno di marca gollista, come pure qualcuno ha scritto, ma sicuramente una forzatura nella direzione di una possibile tendenziale autonomia delle sfere di decisione politiche dalle piattaforme di rappresentanza sociale.

Nel campo delle mie riserve  nei confronti della pratica di questo “affidamento personale”, non vi è mai stato il dubbio che Draghi possa essere un cavaliere nero, portatore di un piano di svilimento della nostra storia del dopo guerra. Paradossalmente l’origine della mia critica è esattamente l’opposto: vedo, in virtù di una piena coerenza repubblicana del personaggio, lo svolgersi, inavvertito e indolore, di una deriva che muta la qualità e l’intensità del corso democratico, pur rimanendo nel solco e nel mandato della attuale dinamica istituzionale.

Uno shock di continuità e non di distrazione, potremmo dire.

Mi incoraggia su questa strada il fondo di Lucrezia Reichlin, sul Corriere della sera, del 19 settembre 2021. Per il credito dell’autrice, la cui estrazione culturale e pratica professionale va iscritta certamente più alla sfera del presidente Draghi che non dei suoi sparuti critici, e la lucidità dei riferimenti mi permette di semplificare la premessa del mio ragionamento.

Scrive la professoressa Reichlin, riferendosi ad un’Europa che pure, dopo la pandemia e la nuova realtà geopolitica in occidente, si è avviata sulla strada di un adeguamento gestionale e normativo delle sue strategie, in un momento, quale l’attuale, in cui si deve alzare il grado di pressione e intromissione delle istituzioni pubbliche nella vita dei cittadini:

I saggi e gli scettici, che abbondano nel nostro continente, diranno che così si è fatta l’Europa e questa è l’unica strada. Ma siamo sicuri che continuerà a funzionare? Tanto più le sfide sono grandi, tanto più si ha bisogno dei cittadini e della loro voce. Un progetto così ambizioso non può essere trainato solo da un establishment, per quanto illuminato. Il rischio è che l’Europa si avvii a divenire qualcosa di molto diverso da una democrazia liberale, e che — forse esagerando — direi si avvicini di più a un modello asiatico autoritario

Esattamente quanto mi pare di constatare nell’illuminata scena del governo Draghi.

Sia in Europa che in Italia si disegna uno scenario asimmetrico in cui i poteri esecutivi corrono, mentre le forme di partecipazione languiscono, e il risultato è quello di un’efficienza immediata che produce poi contraccolpi di resistenza e rivolta sociale, più o meno palese.

In questo gioco degli specchi ritengo persino che Draghi sia la bandiera ma non lo stratega di una trasformazione, che – se non viene riconosciuta e discussa – rischia di portare i suoi esiti verso approdi quelli sì molto preoccupanti, come Lucrezia Reichlin intravvede anche nella Comunità Europa (oggi Unione europea): un asiatismo autocratico.

Scriveva Hannah Arendt – che non può certo essere accusata di radicalismo plebeo – nel contesto di una riflessione sulle forme di potere che crescono negli interstizi delle istituzioni democratiche, che:

 “è difficile che esista una figura politica che abbia più probabilità di un giustificato sospetto di colui il quale per professione dice la verità, ed ha scoperto qualche felice coincidenza fra verità e interesse“ (2).

La politica oggi: Draghi indispensabile  premier, taumaturgo a sua insaputa?

Questa coincidenza fra un’oggettiva verità e interessi che tracimano persino dagli intendimenti del personaggio che stiamo discutendo, è la chiave di ragionamento che vi propongo per mettere a fuoco, attraverso il profilo di Draghi, una fase politica assolutamente inedita che stiamo vivendo.

Provo per questo ad esplicitare sia i dubbi sia i termini di una discussione che mi interessa avviare in questo spazio.

Confesso subito che, mentre mi trovo a condividere gran parte dei singoli temi dell’azione del Presidente del Consiglio, avverto, nel senso che dicevo all’inizio, un istintivo allarme per l’insieme del suo messaggio, o ancora meglio, proprio per quell’azione di sfondamento che sta producendo nel sistema della politica organizzata, che va al di là del destino dei partiti.

So bene che con Draghi mi trovo dinanzi a un personaggio d’altissima personalità. La cui esperienza professionale e istituzionale in ogni singola tappa è indiscutibilmente permeata da senso dello Stato e, nel tratto finale, persino da audacia civile, come abbiamo visto nei suoi certo non indolori duelli con le forze più retrive dell’economia europea. Non ultimo il suo felpato ma risoluto braccio di ferro sul green pass e la centralità del motore pubblico nella lotta contro la pandemia. O, ancora, mentre lo vediamo tamponare e deviare gli attacchi che vengono al suo governo dalla destra del paese, che mira ad ingabbiarlo in una più tradizionale dimensione tecnocratica.

Non si tratta di misurarne la vicinanza a questo o quello schieramento, per trarne ragioni di delusione o di opposizione. Stiamo discutendo di una trasformazione profonda della vita politica e sociale del paese, di cui Draghi, ripeto, non è facilitatore, ma indispensabile taumaturgo. Persino a sua insaputa, forse.

Nella storia nazionale altri personaggi hanno incarnato questo dualismo, in cui singole scelte positive, persino salvifiche per il paese, convivevano con un ruolo globale opposto, in cui quegli stessi personaggi, si sono trovati, oggettivamente, a prefigurare  un’interpretazione più sorvegliata, recintata e contingente del possibile sviluppo democratico che il momento storico poteva consentire: da Camillo Benso Conte di Cavour, passando per Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, fino a Luigi Einaudi, Guido Carli o, per altri versi, Amintore Fanfani o Bettino Craxi .

Altri invece hanno sorpreso in senso inverso, rovesciando la naturale matrice tecnica ed efficientista, che li avrebbe collocati su un versante politico più decisionista, come ad esempio Carlo Azeglio Ciampi e Paolo Baffi, per rimanere nel novero dei grandi governatori di Banca d’Italia, e prima ancora Raffaele Mattioli e Donato Menichella per risalire all’epopea della resistenza finanziaria al fascismo, li abbiamo visti architetti di un’intelaiatura democratica riformatrice, aperta a competenze e interessi più diversi.

Decisione e democrazia.  Consultazione o contendibilità come bussola di un governo

Lo spartiacque che divide le due schiere di personaggi riguarda la visione della democrazia come partecipazione non condizionata, o compressa da compatibilità di interessi economici. In sostanza parliamo della relazione fra decisione e democrazia. A tutti i livelli.

In questa chiave non la consultazione ma la contendibilità delle decisioni è la qualità democratica. Non si tratta di contenere le pressioni, o di smussare eventuali polemiche. Il nodo è proprio la capacità di un conflitto politico di mutare senso e direzione alle decisioni, non di invece assicurarne l’attuazione nell’accezione iniziale.

La tesi che cercherò di giustificare, se non proprio di dimostrare, è quella che oggi Mario Draghi, nel nostro paese, si trova ad essere  strumento e motore di un processo globale,  profondo e di ampia portata, che attraversa l’intero scacchiere occidentale, e che  mira a separare strutturalmente  la decisione dal consenso. Creando un meccanismo per cui l’efficienza sarà proporzionale al rancore che verrà indotto in vasti ceti sociali che non potranno riconoscersi nel punto di maggior protezione o promozione che il governo assicurerà.

Una separazione questa, fra decisione e partecipazione, che vede il Parlamento come rispettato ratificatore, ma certo non come legislatore sovrano, e i partiti, di conseguenza , come corredo fastidioso di una nascente e rampante neo-burocrazia amministrativa che osserva anche riti e tradizioni, ma certo non contempla conflitti e mediazioni.

Si realizza qui il sogno dell’ex chairman del gruppo Alfphabet, che controlla anche Google, Eric Schmidt, che si beava sottolineando come Internet a lui apparisse come “il più grande spazio pubblico senza attrito sociale”. La dialettica democratica come attrito, se non proprio direttamente come costo.

Potenza di calcolo, relazioni reticolari e neutralizzazione del contrasto politico

Un processo  questa della neutralizzazione del contrasto politico, che affonda la sua origine proprio nella fase di straordinaria riorganizzazione delle forme di convivenza, e dall’irruzione sulla scena di un soggetto originale che muta la dialettica dei poteri, come la potenza di calcolo e le relazioni dirette reticolari. Draghi è oggi il leader politico che mi pare più affine metodologicamente all’azione sovversiva, avrebbe detto Antonio Gramsci, delle nuove élites tecnologiche e finanziarie.

E’ In questo contesto di mutazione antropologica della stessa fisionomia umana che ci troviamo a discutere, in cui, come scrisse Joshua Lederberg, un grande biologo, premio Nobel a 33 anni per le sue ricerche sulla genetica dei batteri, “l’uomo contemporaneo è una specie artificiale, prodotta dall’uomo” (3). Intendendo che moltissimi uomini sono oggi, biologicamente, e dunque ancora di più socialmente, il portato delle interferenze che su di loro esercitano pochi altri uomini tramite le nuove tecnologie biodigitali.

E’ questo il contesto in cui va calato oggi il confronto politico e culturale: valutare funzioni e valori nell’ambito di una stretta epocale in cui sta cambiando radicalmente l’idea stessa del libero arbitrio, più che l’esercizio delle semplici libertà costituzionali. Non stiamo analizzando provvedimenti o predilezioni di uno statista, ma la sua obiettiva capacità di trainare e rendere condivisibile una metamorfosi radicale del modo della nostra specie di essere composta da esseri sociali e politici, come intendeva già Aristotele.

Rifugiarsi in uno schema, apparentemente concreto, basato sulla pura osservanza dei codicilli costituzionali, delle singole decisioni, degli effetti di questa o quella legge, mi pare del tutto inadeguato e deformante, in un momento storico in cui  l’umanità sta cercando una stretta via in cui le complesse scelte di governo siano funzionali ma inevitabilmente e faticosamente condivise, come presupposto della loro efficienza.

La repubblica esecutiva: misurazione o mediazione negli interessi?  il conflitto come iter legislativo e non come intralcio burocratico

La politica oggi è cosa ben più complessa e densa nelle sue implicazioni epistemologiche di quanto non fosse qualche decennio fa. Anzi possiamo dire che partiti e istituzioni sono qualificati e identificati proprio nella loro capacità di promuovere un’abilitazione epistemologica di ogni singolo individuo, per permettergli di esercitare, collettivamente un arbitrio sulle scelte di fondo che oggi si propongono ogni giorno.

Altro che l’ironia sull’uno vale uno: oggi è esattamente all’ordine del giorno proprio quest’aspetto del conflitto che si è  innestato sull’onda della domanda sociale, di cui i grillini del Movimento 5 Stelle non hanno né coscienza né ambizione, che ognuno valga esattamente come tutti gli altri.

Con questa visione, colgo nell’attuale azione del nuovo esecutivo, autorizzata e realizzata solo grazie al carisma del suo presidente, non tanto una svolta banalmente tecnocratica, o ancora peggio, autoritaria, che, come ho già detto, escludo completamente, quanto invece una trasformazione sostanziale della composizione della solenne attività di governo, in un flusso deterministico di atti oggettivi, in una scorrevole e indisturbata governance, dove l’idea più alta di governo diventa gestione ordinaria e automatica, in cui le decisioni sono conseguenza reale e naturale dei fatti, o quello che si considerano e percepiscono come tali, e non la mediazione fra visioni e interessi diversi, che mirano a prevalere in virtù della capacità di interpretare, e rappresentare, domande sociali prevalenti.

Ed in cui la verifica del consenso diventa superflua se non proprio un intralcio.

La citazione degli ultimi giorni del compianto Beniamino Andreatta, pioniere di quella repubblica esecutiva di cui torna oggi la tentazione – bisogna fare le cose che si devono fare – dice molto di questa suadente svolta volizionale, come dicono i neuro-pisicologi (4), in cui la volontà  singola, di un singolo, è di per sé motivo dell’azione.

Il modello Singapore: piattaforme autoportanti che sanno automaticamente, in base ai dati, cosa si desidera e cosa si pretende dall’erogatore del servizio. Il laboratorio italiano della post democrazia

Si raccoglie qui la metabolizzazione di impulsi e sollecitazioni che da almeno vent’anni, diciamo sicuramente dal primo impatto sulla scena sociale delle prime piattaforme autoportanti, che, in base ai dati, sanno automaticamente cosa si desidera e si pretende dall’erogatore del servizio, stanno scavando sotto i piedi della democrazia dialettica. L’obbiettivo è quello di diluire ogni tentazione che veda nelle persone, soggetti portatori di soluzione più che di problemi, sostituendole con il cosiddetto modello Singapore, come lo descrive nel suo stile così sfacciato il sociologo indiano Parag Khanna (5), che spiega come sia l’armonia dei diritti e non la democrazia in quanto tale a permettere il successo di un paese.

La forma di questa dimensione del governo dei diritti – da assicurare dall’alto ma non da rappresentare dal basso –  è quella che viene  definita degli info-stati, come appunto Singapore, la Svizzera, Israele, gli Emirati Arabi, La Cina e l’India, in cui, incalza il sociologo citato

una post democrazia moderna combina priorità dal basso con management tecnocratico. Il loro mandato è cercare soluzioni in base ad un’unica ideologia politica: il pragmatismo”. Pertanto – conclude Parag Khanna – “nella nuova società veloce e competitiva della rete , la democrazia produce compromessi, le tecnocrazie producono soluzioni“ (6).

Poco rimane alla fantasia se sovrapponete questa descrizione con quanto sta accadendo sulla scena politica e di cui il nostro paese è laboratorio.

Pensate ad esempio quale sia la cultura che sta dietro alla strategia che vede, nella pandemia ad esempio, il governo continuare ad appoggiarsi esclusivamente sugli effetti dei vaccini, come scorciatoia pragmatica, ignorando ogni altra politica territoriale, che integri l’indispensabilità dell’immunizzazione, con misure quali il testing di massa o il tracciamento o il sequenziamento dei tamponi: l’alternativa è di una iniziativa tutta top down che aggira e ignora invece quella faticosa e complessa combinazione di comportamenti, relazioni e condivisioni che un welfare sanitario sul territorio implica.

Velocità + competizione produce volizione, come cultura di governo.

In questa chiave vi rendete conto che il nodo non riguardi più  la bontà delle singole azioni di Palazzo Chigi – dalla sveglia all’Europa, alla risolutezza sul green pass, alla scuola – quanto la genesi e la modalità di attuazione della suprema funzione della politica che è appunto governare una comunità, insieme alla comunità. Il metodo diventa sostanza

Qual è il canale, lo strumento il momento in cui si attua questa simpatia fra decisione e consenso, fra rappresentanza e amministrazione?

Draghi come Google o Facebook. Governare una post-democrazia calcolando le ragioni dei contendenti

Con una battuta, potrei dire che Draghi è come Google, o Facebook. In questo non è un cigno nero, che sorprende e stravolge un percorso, violentandolo, anzi è la conseguenza epocale di un paradigma esistenziale che segna questa parte della nostra storia.

A guidare la nostra vita in questi decenni, a intermediare ogni nostra azione e relazione, è un sistema automatico efficientissimo, che costantemente propone ad ognuno di noi, in miliardi di episodi, l’adesione ad una micro decisione che puntualmente ci affiora fra la comodità e il confort di un servizio efficace, a fronte di un minimo sacrificio in termini di autonomia e sovranità sulla propria vita.

Google o Facebook  non sono  tiranni, che prescindono dal senso comune, e ignorano i nostri bisogni. Esattamente l’inverso: loro proprio perché automaticamente acquisiscono le informazioni sulle nostre necessità ritengono, di conseguenza, che non ci sia né l’obbligo di consultarci, né la pendenza di misurare il consenso medio sulle singole soluzioni adottate. In questo realizzano appunto la descrizione di Parag Khanna: sono gli strumenti della post democrazia, in cui il pragmatismo e il risultato sostituiscono la partecipazione.

Dalle tesi di Paul Virilio sulla democrazia automatica alla nuova antropologia sociale generata dalla pervasività digitale che ridisegna la democrazia rappresentativa secondo Yuval Noah Harari

Qualche anno fa ebbe grande successo un romanzo – Il Cerchio di Dave Eggers (7) – che raccontava la storia distopica di un grande social network, che, inglobando ossessionantemente tutti i dati e le informazioni, componeva con estrema precisione la vita di tutti i suoi utenti. Giungeva così inevitabilmente  alla conclusione per cui

 “se sappiamo esattamente cosa vuole la gente perché dobbiamo essere sottoposti a procedure burocratiche come la democrazia? in questo contesto la democrazia non è un costo?” (8).

Anche in questo caso, se provo a valutare ogni singola azione di Google o Facebook, non posso che convenire sulla loro indispensabilità, e gestibilità. Ma se guardo poi al totale della sua intromissione nella mia vita, l’insieme di quella concatenazione di scelte e decisioni che formano il mio comportamento digitale, istintivamente ricavo la sensazione di un dominio sottratto ad ogni controllo e bilanciamento. Questa forma di democrazia automatica, la definiva così, già alla fine degli anni Novanta Paul Virilio (9), è strettamente legata a quell’antropologia sociale che è stata generata dalla pervasività digitale. Questo in fin dei conti è il fondamento del mio ragionamento: Draghi è oggi parte di un governo numerico del mondo che si sta proponendo come unica soluzione alla complessità delle variabili (ambientali, biologiche, economiche e sociali), e dalla pulviscolare e caotica partecipazione di sciami sempre più possenti di popolazioni. La democrazia, come vera e continua esposizione di saperi e decisioni alla critica pubblica organizzata, diventa una gobba da spianare, come l’indice RT nella pandemia.

Di questo dunque mi interessa parlare, l’automatizzazione delle istituzioni, per tornare a Paul Virilio e al suo testo La Bomba Informatica che abbiamo già richiamato, e l’informatizzazione della politica che non a caso sta investendo prevalentemente il segmento esecutivo, i governi, scavalcando quelli partecipativi e legislativi, come i parlamenti e soprattutto i partiti, che rimangono schiacciati  dalla propria inadeguatezza a rispondere alla pressione dei propri aderenti, incalzati e agitati dallo spettacolo che va in scena, dalle domande di simultaneità fra le proposta e le decisione. In cui le seconde tendono sempre a precedere le prime, ormai.

Proprio un grande antropologo sociale contemporaneo, come Yuval Noah Harari, nel suo testo Homo Deus (10) ne coglie il punto di convergenza fra mercato tecnologico e istituzioni civili quando scrive:

 “ad una prima occhiata la modernità può sembrare un patto estremamente complicato e per questo pochi cercano di comprendere davvero i termini di quanto hanno sottoscritto. Proprio come quando si scarica un nuovo software e ci viene richiesto di firmare  un contratto di licenza che consta di dozzine di pagine scritte in giuridichese: diamo un’occhiata, scorriamo rapidamente fino all’ultima pagina, spuntiamo la casella “accetto” e poi ce ne dimentichiamo. Ma a ben vedere si tratta di un patto molto semplice e il contratto può essere riassunto in una sola frase: gli esseri umani accettano di rinunciare al significato in cambio del potere” (11).

La semplificazione degli ingegneri nella complessità della politica: una tentazione della tecnologia

Questo scambio utilitaristico fra significato e potere che sta ridisegnando la democrazia rappresentativa proprio nei suoi punti più alti come Stati Uniti ed Europa è oggi il contesto in cui si muovono i Draghi, potremmo dire giocano facilmente sul cognome del presidente.

Questa scissione fra autonomia e semplificazione, fra partecipazione e decisione, che oggi vediamo oggi indotta e rappresentata dalle tecnologie sociali, è al centro di una tendenza che viene da molto lontano, in cui il mondo digitale si è incaricato di ampliare e sistematizzare una domanda che era tutta sottesa nel dibattito politico da almeno tre secoli.

Per rimanere ai tempi moderni diciamo che l’alternanza fra liberalismo e assolutismo, approdata come dialettica storica nel Seicento, si trasformò successivamente in una dualismo fra forme di governo partecipate da quei soggetti che via via formavano l’opinione pubblica (dai possidenti ai nuovi borghesi, dai produttori alla cerchia degli attivi per poi arrivare al suffragio universale) a formule basate sul mascheramento di ambizioni aristocratiche che affioravano nella richiesta di far governare i migliori, i più sapienti, i più responsabili, i più tecnici.

Alla fine dell’Ottocento in molti paesi che entravano nell’industrializzazione più accelerata, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, alla Germania, o, in altri scacchieri, al Giappone o al sistema ottomano, proprio come precipitato della potenza meccanica che stava stupendo il mondo, mostrando come tutto potesse essere linearmente compreso in una macchina, presero piede movimenti e organizzazioni che chiedevano governi tecnici, dove esperti e scienziati potessero sostituire ogni forma di mandato democratico a governare.

Alle loro spalle vi erano anche rodate e corpose riflessioni come quelle di  Henry de Saint Simon o di Auguste Comte, i quali, benché tesi a spazzare il campo dalle vecchie bardature feudali e nobiliari, erano comunque fortemente preoccupati dalla marea di massa che saliva e rendeva caotico e inaffidabile ogni strategia di governo.

Una spinta che arrivò con Thorstein Veblen a teorizzare il partito degli ingegneri, come l’unico abilitato a guidare un paese. Ambizione che trovò una sua approssimativa applicazione con la conquista della Casa Bianca di Herbert Hoover nel 1928, proprio alla vigilia della grande depressione.

Il 1929 fu lo spartiacque che rovesciò quella tendenza.

Il capitalismo anti totalitario nel confronto con i movimenti sociali. Il laboratorio fordista, il derby fra le élites nell’economia della pandemia

Già nel mondo si erano manifestate le sindromi di rigetto della tecnocrazia aristocratica con l’avvento dei regimi totalitari: il fascismo in Europa rispondeva al sussulto sovietico del 1917 per dare uno sbocco reazionario all’opposizione popolare a quella tendenza che ostruiva alle masse che si concentravano nelle grandi città l’accesso alla scena politica. Ancora Hannah Arendt ci aiuta con il suo lucido sguardo analitico sui totalitarismi quando scrive che quella tragedia europea fu resa possibile “dall’irruzione delle plebi nella storia, anche a costo della loro distruzione“.

Con la grande depressione entra in campo una proposta di liberalismo sociale, di stampo in qualche modo socialdemocratico, guidata dalla presidenza di Franklin Delano Roosevelt. Il keynesismo diventa il linguaggio dell’economia e la democrazia rappresentativa la forma del governo: la gente diventa portatrice di soluzioni e non solo di problemi.

Le sollecitazioni – che vengono dallo sviluppo industriale e tecnologico, con le prime forme di terziarizzazione e di centralità dei consumi individuali – spingono istituzioni e sistema economico a convergere sulla capacità di interpretare l’opinione pubblica: la democrazia non è solo condivisione del governo, è anche interpretazione di comportamenti, e dunque orientamento e condizionamento degli stessi, che determinano la congiuntura economico e sociale.

Il laboratorio che distilla e materializza questa straordinaria suggestione democratica è proprio la catena di montaggio fordista. Un sortilegio che vede concentrarsi in un unico luogo l’insieme del mosaico sociale delle figure rilevanti e decisive nella produzione del valore.

La fabbrica è la base sociale dello stato keynesiano e delle democrazie parlamentari. La consapevolezza di diritti ma soprattutto la pratica negoziale che conclude ogni conflitto precede e alfabetizza la stessa meccanica parlamentare.

Il paradosso di un’economia che deve fare i conti con la società viene colto e sintetizzato proprio da Lord John Maynard Keynes quando – in una lettera scritta a George Bernard Show il 1° gennaio del 1935 riprendendo un passaggio molto suggestivo apparso già l’anno precedente nella sua General Theory, ancora sotto l’influsso del trauma della terribile crisi planetaria del 1929, così denunciava gli abbagli degli economisti contemporanei e preconizzava un cambio di pelle del sistema economico industriale:

 “geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali scoprendo  che nell’esperienza concreta due rette apparentemente parallele spesso si incontrano, sgridano aspramente  le linee stesse per la loro incapacità di andare diritte come se fosse l’unico rimedio alle disastrose  collisioni che si verificano un po’ ovunque. Mentre in realtà l’unico rimedio possibile è quello di buttare via  l’assioma delle parallele e mettersi a lavorare  su una geometria non euclidea. Qualcosa del genere bisogna fare oggi nel campo dell’economia politica” (13).

Quanta eredità di Federico Caffè possiamo rintracciare in queste parole del grande economista inglese. Un Federico Caffè che sappiamo maestro e mentore del nostro  attuale premier. Lo dico per anticipare le osservazioni di chi trovasse contraddittorio il mio percorso.

Mentre so bene che ad essere contraddittorio, non euclidea, è proprio la vicenda che coinvolge il presidente Draghi, stretto in una contraddizione fra la missione europea, che gli viene richiesta di interpretare dai suoi corifei, e la cultura  democratica che lo ha informato fino ad oggi.

Come leggere altrimenti quella faglia di interessi e culture che sta dividendo proprio le élites economico finanziarie, come abbiamo clamorosamente osservato proprio nel cuore della fase più feroce della pandemia, in cui, il 2 aprile 2020, abbiamo letto il reportage di The Economist che titolava “A Grim Calculus”, per chiedere – siamo proprio nei giorni della sfilata dei camion con le bare di Bergamo- un darwinismo produttivo che non lasciava spazio a prudenze sanitarie, e, esattamente il giorno dopo, il 3 aprile 2020, il Financial Times che dava a quel capitalismo non euclideo, in cui, scriveva il prestigioso quotidiano londinese,

per chiedere un sacrificio collettivo devi offrire un contratto sociale che avvantaggi tutti”, aggiungendo per non lasciare dubbi: “i governi devono accettare un ruolo più attivo nell’economia. Devono considerare la funzione pubblica un investimento più che una passività, e cercare la maniera di rendere meno insicuro il mercato del lavoro. Figurerà di nuovo nel programma di governo la distribuzione, saranno messi in questione i privilegi di ricchi ed anziani. Misure fino a poco tempo fa ritenute stravaganti, come il reddito di cittadinanza e le tasse sui ricchi, dovranno fare parte dell’insieme“.

Non ho difficoltà a riconoscere che Draghi sia parte di quest’insieme di cui parla il Financial Times, ma a maggior ragione devo insistere sulla forma e sostanza della decisione: una politica così radicale – che giunge esclusivamente dall’alto – si chiama “compassionevole”, per quanto non euclidea, per rimanere a Keynes, o a Caffè, mentre – se approda in una consapevole e critica partecipazione di forze e competenze – diventa democrazia.

La fatica della democrazia. Simone Weil, Adriano Olivetti, la tentazione di andare “oltre i partiti” e la solitudine nella “stanza dei bottoni”

Contraddizione che per altro ha segnato anche il campo democratico proprio sul tema del rapporto fra decisione e democrazia.

Proprio nel cuore della cultura liberal progressista si è fatto largo un sogno “pragmatico “, una sorta di Singapore dolce.

Penso, ad esempio, a quella “democrazia senza partiti“ vagheggiata da Simone Weil (14) o da Adriano Olivetti (15), a cavallo della seconda guerra mondiale.

Due esempi di una profonda anima democratica che si trovano, ad un tornante della storia, a nuotare contro corrente.

In quel caso erano i due profeti dell’Europa comunitaria – che ambivano e vagheggiavano per sostituire, alla pressione degli apparati dei partiti, forme di autoorganizzazione territoriale che portassero a un cervello collettivo come anima di un governo sociale -.

Si intuisce qui quel bisogno di connessione punto a punto che la rete poi colmerà.

Più che senza partiti siamo ad una domanda di oltre i partiti.

Suggestioni che forse agiscono, in parte, in quella pratica di costituzione materiale che stiamo vedendo in scena in questi mesi di governo con un modello di a-partitismo, un’alfa privativa che riduce la complessità politica ad una linea di amministrazione ordinaria, dall’alto in basso. Lasciando la rappresentanza sociale e politica fuori dalla stanza dei bottoni, direbbe Pietro Nenni.

Leggiamo meglio le cronache degli incontri del premier con i leader di partito: del tutto espunte le richieste, le piattaforme i programmi di questa o quella organizzazione politica, tutto rimane sul versante emotivo, del rapporto personale fra Draghi ed Enrico Letta o Matteo Salvini. Un rapporto di pelle e non di politiche.

In questa svolta si perde ogni ambizione del proprio significato, come intende Yuval Noah Harari, che vede nel contratto individuale di ognuno di noi con i sistemi intelligenti la prefigurazione di una destrutturazione della democrazia.

La matrice di questa scissione fra significato e potere è proprio il fatidico 1989.

L’Ottantanove informatico: la forzatura tecnocratica nella democrazia Open source

In quell’anno si consumano due straordinari eventi geo politici: il 9 novembre 1989, come sappiamo, crolla il Muro di Berlino e si cancella l’altra faccia della luna che l’Ottobre del 1917 in qualche modo aveva incarnato. Ma, qualche mese prima, nel mese di marzo 1989, viene pubblicato da Tim Berner-Lee il protocollo del web che abiliterà miliardi di uomini e donne a dialogare fra di loro creando collettivamente forme di convergenze intelligenti, riportando ancora le nuove plebi ad irrompere sulla scena politico culturale, come ci diceva Hannah Arendt .

Gli effetti appariranno ben presto devastanti. Ma sarà già troppo tardi

Lo smottamento del socialismo come orizzonte vuol dire togliere ogni carica politica ai ceti subalterni che si trovano a rintanarsi nel proprio localismo, o ogni obiettivo di controllo di impresa, dove solo il premio di produzione è l’ambizione, o di presidio del territorio, dove le minacce vengono inevitabilmente dalla marea degli immigrati.

Si sfaldano i partiti popolari, si gonfiano i movimenti populisti.

Il destino di un articolo: la fine della storia o il fine [di una nuova fase] della storia?

Il combinato disposto dei due eventi è la vera causa di quella riflessione contraddittoria di Francis Fukuyama che venne intesa per lo sbrigativo, e subito smentito titolo de La Fine della storia (16), e che l’autore invece ha corretto, cambiando l’articolo determinativo da femminile in maschile: Il fine della storia.

Dopo l’89 la storia ha come fine proprio l’ibridazione delle forme di governo per contenere da una parte la pressione popolare che trova nel dominio delle élites, prevalentemente progressiste, il proprio bersaglio, o per proteggere l’azione dei nuovi interessi finanziari e tecnologici che non possono essere  ingabbiati da norme troppo stringenti.

La base sociale di questa nuova dialettica d’interessi non sono masse identitarie, ma sciami di individui interconnessi, che  vengono scagliati contro le istituzioni da chi può manovrare piattaforme e linguaggi digitali.

I partiti non colgono questa svolta e si accucciano nelle occasionali rendite elettorale, abbandonando ogni strategia di promozione attiva della partecipazione popolare, che rimane preda di momentanei plebisciti di potere.

In questo gorgo si consuma cosi quel legame fra innovazione scientifica e crescita economica, materializzando l’idea di progresso.

Storicamente quel progresso ha comportato un’estensione della consapevolezza dei saperi delle élites: prima la religione, poi la guerra, successivamente i commerci, poi la sovranità dei territori ,e ancora la competitività delle città, infine l’avvento della scienza come metodo e alfabeto per  gestire gli stati nazionali. Tutto quanto prima era riservato e mediato, diventava nei secoli senso comune.

Ma mentre si faceva più intima l’intrusione della tecnologia nella nostra vita, cresceva anche, come effetto dello scambio fra efficienza connettiva e subalternità algoritmica, la consapevolezza media : ognuno ai nostri giorni ne sa molto di più di quanto i suoi omologhi potessero ambire solo qualche decennio fa.

L’arbitrato dell’algoritmo: la calcolabilità del reale come interfaccia delle decisioni.

Oggi anche i processi cognitivi più sofisticati, la stessa tecnica epistemologica, si vede reclamata da grandi masse di persone che ambiscono a condividerla, a farsene una ragione, dagli algoritmi ai vaccini.

Il numero diventa consapevolezza. Il calcolo, inteso come legge automatica estrema e riservata agli esperti, è al centro di pressioni sociali.

Nelle prime narrazioni, da Omero ai miti, proprio le enumerazioni (quanti gli armenti delle ecatombe, o quanti i guerrieri nella battaglia, o quale il numero preciso delle navi Achee dinanzi a Troia) avevano il compito di dare solidità, concretezza al racconto. Così come Platone e Parmenide usano i numeri per fissare la funzione del logos che fa sintesi delle molteplicità.

Da allora a oggi la sequenza dei saperi ha tenuto sempre al centro la calcolabilità del reale.

L’economia è stata l’ultima tecnicalità che ha guidato e orientato il patto del potere. 

Per almeno tre secoli il controllo della ricchezza è stato presupposto del potere.

Al centro di ogni marca di capitalismo che si affacciava sulla scena, sempre contraddistinto dall’emblema di un territorio guida (Venezia, Firenze, Bruges, Anversa, Madrid, Parigi, Londra, New York, San Francisco, Pechino) emerge uno stretto connubio fra sapere e moneta: dalle tecniche di gestione dell’acqua, a quelle del nomadismo, al trasporto marittimo, fino alla gestione dei primi capitali, e poi ancora dell’energia e dell’uso delle risorse naturali, fino alla gestione dell’atomo).

La nuova società digitale è oggi l’approdo della nuova geometria non euclidea che guida l’economia politica, non in virtù della forza del consumo, che induce e orienta a livello di massa, come è stato nel fordismo, ma grazie all’esclusivo dominio di quegli algoritmi che, Dominique  Cardon, vede come ”indicatori per guidare i comportamenti” (17).

Persuadere o calcolare: dai persuasori occulti di masse ai big data di tutti gli individui. Draghi come superamento della rappresentanza sociale.

Potremmo dire che siamo passati dal dominio dei persuasori occulti di Vance Packard della fine degli anni Cinquanta (18) in cui si sanciva la supremazia dei produttori sui consumatori, proprio grazie alla capacità dei primi di imporre ai secondi bisogni e desideri con l’uso concertato dei mass media, ad una economia informazionale, basata sulla centralità dei distributori, meglio, dei connettori, che gestiscono lo scambio permanente e progressivo di dati, permettendo ad ognuno, in ragione della quota di dati ai quali si permette l’accesso, di poter partecipare al gioco del big data, prevedendo o predicendo la volontà dei propri clienti o utenti.

Lo scontro fra centralizzazione dell’intelligenza artificiale e domanda di partecipazione che è l’unico motore che attiva i sistemi digitali fornendo dati, e alimentando le macchine che catalogano i sogni di carburante immaginativo, arriva ad un punto di non ritorno.

Il vecchio muore – ma il nuovo non nasce diceva Antonio Gramsci – e oggi si ripropone quest’impasse. I partiti del Novecento sono sfarinati ma la democrazia digitale non decolla, e nel frattempo infuria la pandemia, e le tecniche diventano sostitutive del libero arbitrio.

Questa è l’emergenza che chiama un ceto di potere a combinare verità e interessi, come recitava all’inizio Hannah Arendt, generando sospetto in chi rimane escluso.

Come combinare governabilità con ordine delle decisioni necessarie?

Draghi, come grand commis di Stato, come civil servant della Repubblica, viene incaricato di dare una forma ad un governo che si basa su un appoggio parlamentare ampio, un consenso che comunque lui deve sempre trascendere e neutralizzare.

Palazzo Chigi sonda, interpella, misura le richieste dei partiti che fanno parte della sua maggioranza, e poi, parallelamente, traccia un quadro di compatibilità entro cui la decisione che assume diventa inappellabile. Sono i partiti che devono, successivamente, adeguare le proprie posizioni a quanto deciso.

Una metodologia tipica di un CEO di una grande corporation, che deve, alla fine del mandato assicurare la soddisfazione degli azionisti, ma non rifletterne individualmente le aspirazioni.

Per fare questo inaugura una procedura inizialmente sorretta e giustificata dall’indispensabilità del suo ruolo. Draghi è garante verso l’esterno, più che il rappresentante della maggioranza del paese. E’ un tutore istituzionalizzato, un assistente, diciamo più popolarmente, il badante del paese, rispetto al Recovery Fund e alle compatibilità che dovremo garantire a chi ci osserva e esamina.

Siamo oggettivamente un paese a sovranità limitata.

Non per la prevaricante invasione di altri poteri, ma per la nostra fragilità, per l’accumulo di errori e di miopie che hanno destrutturato il sistema economico nazionale, riducendolo a debitore tecnicamente insolvente. Siamo in un regime di  amministrazione controllata, in cui il presidente del consiglio è l’incaricato del tribunale globale a curare l’evoluzione della nostra crisi.

Conclusioni. Mario Draghi tutore del PIL in una repubblica dei calcolanti

A questo punto è evidente che un eventuale avvocato difensore, avrebbe gioco facile ad appellarsi alle responsabilità altrui. E’ responsabilità di Draghi se siamo a questo punto? e colpa delle sue affinità? E’ lui che frena e impedisce ai partiti di ritrovare una via di comunicazione che rinnovi il mandato democratico e rivitalizzi il Parlamento non come notaio ma come effettivo titolare del potere legislativo?

Certo che no.

Ma stiamo forse parlando di un’istruttoria che colpisca un responsabile?  No, stiamo ragionando per cogliere il senso, il valore e, se possibile, intuire l’epilogo di un’esperienza che non ha nulla di tecnico e ineluttabile. Ma proprio la sua aurea istituzionale lo rende capofila di un processo di trasformazione reale del paese.

Draghi offre nome e cognome a questa contingenza. E ci permette di discutere in maniera più agevole di un’intera fase socio politica, facendo perno sulla sua missione.

Il suo nome copre e nobilita la rimozione della democrazia come contesa e crea una forma di repubblica del risultato, di un paese che ogni tre mesi controlla il PIL, come il suo fatturato, e ignora le modalità e le forme di quel governo. Non a caso oggi tutte le energie sociali, le spinte che vengono dal basso sono visibili solo nelle iniziative referendarie, su temi tipici di un diritto agiato. Valori centrali, indispensabili, naturalmente, ma che non incidono nella gerarchia dei poteri, nella distribuzione del reddito, nella formazione della ricchezza.

La sostituzione della contraddizione capitale/lavoro con quella calcolanti/calcolati richiede disperatamente un aggiornamento del sistema politico, guardando alla forma partito per capire quale organizzazione al tempo della discriminazione del calcolo. Ritengo questa oggi la vera emergenza: dotare la dialettica fra cittadini e proprietari delle piattaforme computazionali, che oggi si candidano a guidare l’evoluzione genetica della forma umana, la prima emergenza ambientale, che possa mitigare e riprogrammare lo squilibrio che oggi impera. Quale contributo viene dall’articolato processo di riadattamento nella pandemia: lavoro, scuola, assistenza, amministrazione, governo, in che direzione vanno? Si profila un riequilibrio fra calcolanti e calcolati o invece si cronicizza un’asimmetria, a volte persino virtuosa, ma pur sempre oppressiva?

Il governo Draghi che contributo dà?

La sfolgorante personalità, lo dico senza ironia fuori luogo, del suo premier che input trasmette ?

Su questo non è concesso derogare. Il copione è scritto, la cambiale è stata firmata.

La relazione fra interessi e ambizioni a contendere il governo, nella forma di forma partito competitiva, è il vero imputato, ma gli altri sono solo comprimari?

I partiti inerzialmente si mettono nella scia del tutore del PIL, e sperano, ognuno per la sua parte di lucrarne consensi. Ma per farne cosa? Come parlano alla contemporaneità? Come interagiscono nel mondo dell’intelligenza artificiale e dell’automatizzazione dei rapporti umani?

Davvero si pensa che se questa è la china lungo cui siamo avviati i giochetti istituzionali possano mutare di segno alla tragedia ambientale di cui la partecipazione è motore, che incombe ?ci riduciamo a dividervi fra i supporters di Draghi presidente della repubblica o  permanente tutore del debito nazionale ? l’eventuale spostamento del premier al Quirinale cosa muta realmente nel destino del sistema?

Come può la sinistra drogarsi, ancora una volta di possibili conquiste delle grandi città, come pure avvenne con Achille Occhetto nel 1993 dopo l’insediamento di Carlo Azeglio Ciampi a Palazzo Chigi, e poi non misurare il suo spiantamento dal Paese reale, dalle cinture produttive delle metropoli, che pure oggi vanno al voto?  

Nella volatilità del lavoro tradizionale come presidiare la democrazia se non si diventa contendenti dei nuovi poteri esecutivi del calcolo? Come si può tornare a candidarsi al governo se non si organizzano le nuove forse di produzione nella società immateriale?

Contemplare la crisi dei partiti per trovarsi poi, persino senza furbizia, a deviare le forme del controllo della Repubblica mi pare oggi la colpa che devo attribuire anche a Mario Draghi.

Sono queste le fragili ragioni che mi rendono critico di un uomo che non posso non stimare ma di cui temo l’inconsapevole funzione.

Ancora una volta grandi spiriti si trovano a realizzare missioni oblique, come pure toccò anche a  Gottfried Wilhelm von Leibniz, che nel 1673, davanti ad una platea di scienziati a Londra, constatava il fallimento della sua ennesima macchina di calcolo e così li ammoniva:

“fatta questa macchina, quando sorgeranno controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione fra due filosofi di quanto ce ne sia fra due calcolatori” (19).

Note al testo

(1) Gianfranco Pasquino,Mario Draghi fra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica. Un bilancio della sua presenza a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale”, Democrazia futura, I (3), luglio-settembre 2021, pp. 553-556. Cfr. https://www.key4biz.it/democrazia-futura-mario-draghi-fra-presidenza-del-consiglio-e-presidenza-della-repubblica/373725/.

(2) Cfr. Hannah Arendt, Verità e politica, seguito da: La conquista dello spazio e la statura dell’uomo. Traduzione e cura di Vincenzo Sorrentino, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, 99. p. [il passo citato è a p. 60]. Prima edizione: 995. Questi due saggi sono inizialmente usciti nella raccolta di testi: Hannah Arendt, Between Past and Future, New York, Viking Press, 1961, 246 p.  Traduzione italiana di Alessandro Del Lago: Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, 309 p.

(3) Joshua Lederberg, “Viruses and humankind. Intracellular Symbiosis and Evolutionary Competition”, in Stephen S. Morse (eds), Emerging Viruses, Oxford, Oxford University Press, 1989, pp. 3- 9. Vedilo riprodotto fa una fotocopia on line: https://www.pbs.org/wgbh/pages/frontile/aids/virus/humankind.html.

(4) Si veda Giuseppe Trautteur, Il Prigioniero libero, Milano, Adelphi, 2020, 144 p. Si veda in particolare la p. 17.

(5) Parag Khanna, Technocracy in America: Rise of the Info-State, Seattle, Amazon CreateSpace, 2017, 130 p. Traduzione italiana di Franco Motta: La rinascita della città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution, Roma, Fazi, 2017, 159 p. 

(6) Parag Khanna La rinascita della città-stato, op. cit., p. 23.

(7) Dave Eggers, The Circle. A Novel, London – New York, Penguin-Alfred A. Knopf, 2013, 491 p. Traduzione italiana di Vincenzo Mantovani: Il cerchio. Romanzo, Milano, Mondadori, 2014, 391 p.

(8) Dave Eggers, Il cerchio, op. cit. alla nota 7, p. 311

(9) Paul Virilio, La bombe informatique, Paris, Galilée, 1998, 159 p. Traduzione italiana: La bomba informatica, Milano, Raffaello Cortina, 2000, 150 p. L’espressione si trova alla p. 103.

(10) Yuval Noah Harari, Homo Deus. A brief history of tomorrow, London, Vintage, 2017, 513 p. Traduzione italiana di Marco Piani: Homo Deus. Breve storia del futuro, Milano, Bompiani, 2017, 665 p.

(11) Yuval Noah Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, op.cit.,p. 108.

(12) Hannah Arendt The origins of totalitarianism, New York : Harcourt, Brace and Co., 1951, XV-477 p. Traduzione italiana in tre tomi: Le Origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967, XXXV-710 p. (tre volumi: L’antisemitismo, L’Imperialismo e Il totalitarismo). Il passo citto è a p.78.

(13) John Maynard Keynes, The general theory of employment interest and money, London, MacMillan&Co, 1934, XII-403 p. Traduzione italiana di Alberto Campolongo: Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1947, XV-358 p. [il passo citato è nel primo capitolo alla p. 15].

(14) Si vedano, in particolare: Simone Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, nella traduzione di Franco Ferrarotti, uscita sulla rivista olivettiana: Comunità, V (10) ottobre 1951, ora con una postfazione di Antonio Castronuovo: Imola, La Mandragora, 2014, 77 p. Vedilo anche nella traduzione di Fabio Regattin, con la prefazione di André Breton, Roma, Castelvecchi, 2008, 67 p.; Simone Weil, Senza partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica, traduzione e cura di Marco Dotti, premessa di Marco Revelli, postfazione di Andrea Simoncini, Milano, Feltrinelli, 2013, 87 p.

(15) Adriano Olivetti, Democrazia senza partiti. Fini e fine della politica, Presentazione di Stefano Rodotà, Ivrea, Edizioni di Comunità, 2013, 79 p. Testo originale: Democracy without political parties, Torino, Community Movement, 1951, 187 p.

(16) Francis Fukuyama, “Noi, oggi, alla fine della storia”, Corriere della sera 30  giugno 2018. Estratto anticipazione del  saggio “Trent’anni dopo, ritorno su La fine della storia”, Vita e Pensiero, CV (3) luglio-settembre 2018. Cfr https://www.corriere.it/cultura/18_giugno_30/francis-fukuyama-la-fine-della-storia-vita-pensiero-84cebf1e-7c72-11e8-87b8-02c87e8bc58c.shtml.

(17) Dominique Cardon, À quoi rêvent les algorithmes. Nos vies à l’heure des big data, Paris, Seuil, La République des idées, 2015, 105 p. Traduzione italiana: Cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei big data, Milano, Mondadori, 2016, IX-90 p. Il passo citato è a p.3.

(18) Vance Packard, The hidden Persuaders, New York, McKay, 1957, VIII-275 p. Traduzione italiana di Carlo Fruttero:  I persuasori occulti, Torino, Einaudi, 1958, 271 p.

(19) Ricavo questo episodio dal saggio di Robert Blanché, La logique et son histoire d’Aristote à Russel, Paris, Armand Colin, 1970, 366 p. Traduzione italiana  di Augusto Menzio: La logica e la sua storia da Aristotele a Russel, Roma, Ubaldini editore, 1973, 414 p.

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