Key4biz

Democrazia Futura. Discutere per deliberare, Da Porto Alegre (2001) alla Conferenza sul futuro dell’Europa (2021) e oltre

Pier Virgilio Dastoli

Democrazia futura dopo l’analisi di Giampiero Gramaglia prosegue la sua riflessione sullo scenario internazionale con un appassionato articolo di Pier Virgilio Dastoli che nella sua veste di Presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo sottolinea la necessità di “Discutere per deliberare. Da Porto Alegre (2001) alla Conferenza sul futuro dell’Europa (2021) e oltre”. Per Dastoli “la dimensione della democrazia partecipativa è emersa con la mobilitazione no global del cosiddetto “popolo di Seattle” in occasione del Vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1999 e si è consolidata poi a Porto Alegre in Brasile dove fu organizzato nel 2001 il primo Forum Sociale Mondiale visto in contrapposizione con il World Economic Forum che riunisce a Davos dal 1970 l’élite politica e finanziaria del mondo […].  L’idea della democrazia partecipativa, nata a Porto Alegre nel 2001, non ha prodotto nessun cambiamento sostanziale nella governance del mondo e anche nei sistemi democratici più evoluti il principio scolpito nelle nostre costituzioni secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” trova inadeguate applicazioni pratiche con uno scarso coinvolgimento dei corpi intermedi nel governo della cosa pubblica (respublica). Dastoli conclude il ragionamento applicandolo alla Conferenza sul futuro dell’Europa.Essa “è stata invece avviata e si sta sviluppando secondo un percorso che costringe la partecipazione di un numero limitato di cittadine e di cittadini in uno ristretto spazio di consultazione,  non prevede azioni adeguate azioni di comunicazione, informazione e formazione pubblica (che Stefano Rolando ha chiamato teatro civile) per creare le condizioni di quella consapevolezza che si traduce nello empowerment, esclude la possibilità di un momento deliberativo collettivo lasciando ad un nucleo ristretto di rappresentanti delle istituzioni europee il potere di deliberare a nome di tutti – ma senza accountability – sul futuro dell’Europa. Sarebbe necessario e urgente un atto di “ribellione” democratica del Parlamento europeo da una parte e delle reti europee della società civile dall’altra per denunciare questa forma di falsa democrazia partecipativa – conclude Dastoli – salvando non solo la Conferenza ma anche il dibattito sul futuro dell’Europa e creando le condizioni per aprire di nuovo il cantiere della riforma dell’Unione europea quattordici anni dopo la firma affrettata del Trattato di Lisbona.

_________________________

La dimensione della democrazia partecipativa è emersa con la mobilitazione no global del cosiddetto “popolo di Seattle” in occasione del Vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1999 e si è consolidata poi a Porto Alegre in Brasile dove fu organizzato nel 2001 il primo Forum Sociale Mondiale visto in contrapposizione con il World Economic Forum che riunisce a Davos dal 1970 l’élite politica e finanziaria del mondo.

Prima di Seattle, erano tuttavia nate nell’Unione europea alcune iniziative di coordinamento della società civile legate alle nuove politiche dell’Unione europea di cui la più importante fu la rete di organizzazioni riunite dall’autunno 1995 nel Forum Permanente della Società Civile che elaborò e adottò nel marzo 1997 in Campidoglio a Roma una sua Carta dei diritti della cittadinanza europea e ottenne dal governo tedesco l’impegno a convocare la convenzione che portò alla Carta dei diritti dell’Unione europea ispirata dal progetto di Trattato sull’Unione europea approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 (www.cairn.info e https://gallica.bnf.fr).

Il fenomeno moderno o contemporaneo della globalizzazione (o mondializzazione) è iniziato alla fine degli anni Settanta ma la società civile o le società civili sul pianeta hanno intrapreso con fatica la strada tortuosa del coordinamento e del tentativo di agire insieme solo vent’anni dopo cercando di creare sinergie fra coloro che si erano già impegnati a livello nazionale o regionale sui temi centrali della giustizia sociale: la pace, l’acqua, l’alimentazione, l’ambiente, la povertà, i diritti fondamentali, la parità di genere, più recentemente le non discriminazioni sessuali e ora il diritto alla salute, l’accoglienza e le politiche migratorie.

Gli stessi ritardi, a livello del processo di integrazione economica sul continente europeo o meglio della realizzazione di un mercato libero da vincoli nazionali, erano avvenuti nelle Comunità europee se si tiene conto che la prima rete delle industrie private nella “piccola Europa” della CECA nacque nel 1953 e cioè immediatamente dopo l’entrata in vigore del Trattato di Parigi e che il sindacato europeo – nella sua struttura attuale dell’ETUC che tutto è fuorché monolitica così come del resto non è monolitico Business Europe – ha tenuto il suo primo congresso europeo vent’anni dopo a Bruxelles nel 1973.

Nonostante la mobilitazione, i passi in avanti nella difesa e nello sviluppo di una vera giustizia sociale sono stati in tutti questi anni più che modesti nella conquista di quei beni comuni – collettivi più che individuali – che abbiamo indicato più sopra, sapendo che:

Le numerose convenzioni adottate dalle Nazioni Unite nel corso degli anni sono rimaste sostanzialmente disapplicate su tutti i temi che abbiamo citato perché si sono scontrate con il sistema di governance onusiano che affida ai governi il potere assoluto di decidere o di non decidere e al Consiglio di Sicurezza il compito di intervenire nelle materie di sua competenza solo se non c’è il veto di uno dei  suoi membri permanenti escludendo qualunque capacità di empowerment da parte delle molte organizzazioni non governative che tuttavia sono riconosciute dalle stesse Nazioni Unite.

Gli unici successi della società civile nel corso di questi anni sono avvenuti per via giudiziaria, non esistendo ancora e non potendo prevedersi che possa esistere a lungo una assemblea parlamentare delle Nazioni Unite dotata di un minimo di legittimità democratica.

Il risultato maggiore – pur nei limiti legati ai crimini di cui è competente, al fatto che essa agisce in modo complementare rispetto alla competenza degli Stati e al fatto che essa non sia stata riconosciuta ad esempio dagli Stati Uniti, dalla Russia e da Israele – è lo statuto della Corte Penale Internazionale stipulato a Roma il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.

Per via giudiziaria si ottengono risultati significativi a livello regionale come avviene con la Corte Europea dei diritti fondamentali legata al Consiglio d’Europa e alla sua Convenzione firmata a Roma nel 1950 o davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea che difende il primato del diritto europeo e il carattere vincolante della Carta dei diritti adottata a Nizza nel 2000 ed entrata nel sistema giuridico dell’Unione nel 2009.

Sui temi ambientali, la società civile è riuscita a ottenere la condanna dei governi in Francia, Italia, Irlanda, Belgio, Paesi Bassi e Germania per mancato rispetto degli impegni nella lotta al cambiamento climatico così come la Commissione europea è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’UE per mancata applicazione della Convenzione di Aarhus che obbliga a consultare i cittadini su materie ambientali.

Questo tema si porrà certamente se, su sollecitazione di alcuni governi, la Commissione vorrà riaprire il dossier della politica nucleare di tipo civile.

Nulla è stato potuto fare a livello internazionale perché non esiste una Corte Penale Internazionale sui crimini ambientali anche nello statuto della Corte istituita a Roma è stato iscritto l’art. 8 su questi crimini legati tuttavia e per ora ad azioni di guerra, né esiste un’autorità sovranazionale che abbia il potere di monitorare – da una COP all’altra – l’attuazione degli impegni presi dai governi e sanzionare il loro mancato rispetto.

La prova dei modesti passi in avanti è data dal costante monitoraggio della realizzazione dei diciassette obiettivi dello sviluppo sostenibile approvati dalla Assemblea delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015 che rientrano nella Agenda 2030 per la trasformazione del mondo che dovrebbe dunque avvenire fra poco più di otto anni.

Se vogliamo gettare le basi di un mondo fondato sulla giustizia sociale – ispirandosi alla lettera che Martin Luther King scrisse dal carcere ai  vescovi statunitensi dicendo “l’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque” dobbiamo cambiare il sistema della governance nel mondo partendo dalle forme più avanzate di integrazione regionale come quella che è stata avviata agli inizi degli anni cinquanta in Europa occidentale per giungere alla riforma delle regole di funzionamento delle Nazioni Unite.

L’idea della democrazia partecipativa, nata a Porto Alegre nel 2001, non ha prodotto nessun cambiamento sostanziale nella governance del mondo e anche nei sistemi democratici più evoluti il principio scolpito nelle nostre costituzioni secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” trova inadeguate applicazioni pratiche con uno scarso coinvolgimento dei corpi intermedi nel governo della cosa pubblica (respublica).

Negli ultimi venti anni delle forme di democrazia partecipativa o meglio di spazi pubblici secondo la concezione di Juergen Habermas dove si apre un dialogo fra cittadini e istituzioni si sono fatte strada in Islanda, in Irlanda, in Belgio, nei Paesi Bassi e parzialmente in Francia ma anche in Canada legate alla convinzione che fosse utile coinvolgere la cittadinanza su temi di natura costituzionale andando al di là della democrazia rappresentativa.

L’idea – forse non espressa in maniera compiuta – da coloro che hanno immaginato la creazione di questi spazi pubblici di natura costituzionale era legata all’obiettivo di rafforzare la consapevolezza delle cittadine e  dei cittadini nel controllo delle proprie decisioni e azioni nell’ambito della vita economica e sociale della propria comunità a livello locale, regionale o nazionale, una consapevolezza che si traduce efficacemente in inglese nell’espressione empowermentforse intraducibile in una parola nelle altre lingue.

A valle del dialogo all’interno di questi spazi pubblici ci sono stari sempre dei momenti deliberativi che hanno trasformato la consapevolezza in scelte responsabili.

Ci rendiamo perfettamente conto che sarebbe stato difficile tradurre simili forme di democrazia partecipativa a livello di un’Unione europea di ventisette stati, ventiquattro lingue e quattrocento cinquanta milioni di abitanti il dibattito che si sarebbe aperto nella Conferenza sul futuro dell’Europa, allo scopo di sollecitare le cittadine e i cittadini europei alla consapevolezza del loro essere europei oltre che appartenenti al loro stato, alla loro regione e alla loro città.

Avevamo tuttavia sollecitato come Movimento europeo (www.movimentoeuropeo.it)  più volte le istituzioni europee a studiare quel che era avvenuto in quegli spazi pubblici per esaminare in che misura fosse stato possibile tradurre quegli esperimenti in scelte di democrazia partecipativa realmente innovative a livello europeo.

La Conferenza è stata invece avviata e si sta sviluppando secondo un percorso che costringe la partecipazione di un numero limitato dì cittadine e di cittadini in uno ristretto spazio di consultazione,  non prevede azioni adeguate azioni di comunicazione, informazione e formazione pubblica (che Stefano Rolando ha chiamato teatro civile) per creare le condizioni di quella consapevolezza che si traduce nello empowerment, esclude la possibilità di un momento deliberativo collettivo lasciando ad un nucleo ristretto di rappresentanti delle istituzioni europee il potere di deliberare a nome di tutti – ma senza accountability – sul futuro dell’Europa.

Sarebbe necessario e urgente un atto di “ribellione” democratica del Parlamento europeo da una parte e delle reti europee della società civile dall’altra per denunciare questa forma di falsa democrazia partecipativa salvando non solo la Conferenza ma anche il dibattito sul futuro dell’Europa e creando le condizioni per aprire di nuovo il cantiere della riforma dell’Unione europea quattordici anni dopo la firma affrettata del Trattato di Lisbona.

Note al testo

  1. Amartya Sen, Development as Freedom, Oxford, Oxford University Press, 1999, 366 p. Traduzione italiana Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori 2000, 355 p.
Exit mobile version