Prosegue il dibattito sulla grande trasformazione digitale con un terzo blocco di universitari, ed esperti del settore: Piero De Chiara, ex dirigente Olivetti, Telecom Italia e La Sette e consulente AGCOM, Giorgio Pacifici, sociologo, già professore all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, e Francesco Siliato Professore in Sociologia dei processi culturali al Politecnico di Milano. Anche in questo caso molteplici sono i filoni lungo i quali si articolano le risposte, peraltro accomunate dalla preoccupazione comune sugli effetti sinora generati da questa grande trasformazione. Tranchant, Francesco Siliato considera d’emblée “La digitalizzazione delle vite è il proseguimento dello sfruttamento con altri mezzi. Mezzi sempre più in grado di esercitare controlli. Con ogni probabilità una necessità per proseguire l’occupazione del tempo umano. Dal lavoro lavorato, al lavoro di consumatore, anche di media, al lavoro di coltivazione del proprio ego narcisista. Un intreccio contro natura di cultura e tecnologia […] aggiungendo: “Radicalmente il digitale non cambia granché, né mette ordine, sembra anzi che prosperi nel disordine, nel creare separazione. Per riuscire a non cambiare nulla radicalmente, cambia tutto il resto”. E ancora : “Nel mercato dei media la merce sono le persone, l’oggetto composto da soggetti che si comprano e vendono, soggetti che mettono a disposizione il loro tempo.
Li si vende a gruppi detti target o singolarmente, per catturarli si utilizzano specchietti deformati dal riflesso dell’ideologia economicista, sotto forma di informazione, sport, varietà, eccetera, eccetera. il processo prosegue con la vendita degli stessi specchi nei quali specchiarsi”. Quanto alle piattaforme secondo Piero De Chiara “Dopo una breve fase iniziale caratterizzata da start up, fallimenti, innovazioni di prodotto, è molto difficile insidiare la posizione di chi possiede più dati e potenza di calcolo. Nell’economia digitale spesso winner takes all. Le autorità antitrust hanno sicuramente sbagliato a consentire acquisizioni di potenziali concorrenti (Google-YouTube; Facebook-Whatsapp-Instagram, eccetera)”; e ancora: “L’esperienza in tutte le grandi trasformazioni del passato insegna che il bilanciamento tra poteri nasce solo con una sequenza logica che parte da conflitti e classi sociali, poi diventa produzione di cultura e di nuovi attori politici e solo infine determina leggi e istituzioni che fotografano i nuovi rapporti di forza. Stavolta però il processo è molto più veloce e le istituzioni nazionali non sono la soluzione, ma parte del problema. Il controllo dei big data rischia anzi di essere l’oggetto e l’arma dello scontro tra nazioni”.
Per parte sua Giorgio Pacifici ritiene “che l’affermarsi di poche “piattaforme egemoni” sia dovuto in primo luogo alla carenza di reali autorità sovranazionali di regolazione e di controllo. Come osservavo già molti anni fa a proposito di imprese transnazionali di diversi settori, si tratta di soggetti “non democratici” – che hanno apparati di comando e controllo in grado di rispondere rapidamente ad ogni variazione della situazione in cui operano – non “appesantiti” dalle procedure a cui storicamente devono attenersi gli Stati. Una diversa regolazione può avvenire soltanto attraverso un reale e efficace meccanismo di governance. Controlli su scala nazionale mi sembrano quindi improponibili […] soltanto delle entità sovranazionali fornite di un reale potere possono forse far fronte alle nuove sfide: quindi il problema è essenzialmente di organizzazione internazionale.
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III. Le risposte di Piero De Chiara, Giorgio Pacifici e Francesco Siliato
1) La grande trasformazione digitale è interpretabile come “una grande trasformazione culturale”? O è più semplicemente una nuova modalità tecnologica (numerica) di produzione e distribuzione di creazioni ed oggetti culturali e della loro diffusione/divulgazione?
Piero De Chiara
Il cambiamento del modo di produrre e distribuire cultura è solo la punta dell’iceberg di una trasformazione che affonda le sue radici nella crisi del modello di sviluppo basato su risorse non rinnovabili. È sempre più difficile distinguere tra tecnica, cultura ed economia. Dal punto di vista finanziario l’innovazione digitale ha avuto un successo spettacolare: in meno di due decenni si è operata una rivoluzione del corrispettivo del capitale accumulato, la maggior parte del quale è oggi rappresentato da beni immateriali e in particolare da dati e brevetti. È una miniera che pare inesauribile. L’Intelligenza artificiale promette la trasformazione dei saperi umani (e soprattutto del “saper fare”) in beni esclusivi. Questi nuovi titoli proprietari tendono però a un grado di concentrazione e squilibrio fiscale a sua volta non sostenibile. Il conflitto sull’appropriazione del sapere è la questione politica dei prossimi decenni
Giorgio Pacifici
Sarebbe abbastanza strano che dopo aver sostenuto tutta la vita che nella tecnologia dell’informazione c’era qualcosa di qualitativamente e culturalmente diverso dalle altre tecnologie, oggi non interpretassi la “grande trasformazione digitale “come un fenomeno essenzialmente culturale”. Un fenomeno culturale del quale è difficile analizzare la complessità, e di cui produzione e distribuzione di “oggetti culturali” di vario tipo si possono considerare epifenomeni.
Francesco Siliato
La digitalizzazione delle vite è il proseguimento dello sfruttamento con altri mezzi. Mezzi sempre più in grado di esercitare controlli. Con ogni probabilità una necessità per proseguire l’occupazione del tempo umano. Dal lavoro lavorato, al lavoro di consumatore, anche di media, al lavoro di coltivazione del proprio ego narcisista. Un intreccio contro natura di cultura e tecnologia.
2) II digitale è davvero un “ordine che cambia radicalmente l’economia, la politica, la società, la storia e muta radicalmente i modi di apprendere, lavorare, relazionarsi, fare impresa, amministrare la cosa pubblica” o è più semplicemente un aggettivo che caratterizza l’attuale fase dello sviluppo tecnologico, come fu per la meccanica, l’elettronica, eccetera?
Piero De Chiara
All’inizio delle loro applicazioni anche la meccanica, l’elettricità, la radiotelevisione e, molto prima, la scrittura e la stampa, sembravano semplici aggettivi migliorativi del vecchio modo di vivere e lavorare. In una prima fase volendo parlare dei principali beneficiari, si è trattato spesso di caste, fanatici, baroni e tycoon di ogni tipo, che hanno aggravato lo squilibrio di potere e ricchezza, finché non furono addomesticati dal conflitto sociale, nuovi soggetti politici, nuove istituzioni.
Giorgio Pacifici
Direi che il digitale è un “ordine” che ha cambiato i modi di lavorare e di fare azienda e ha la potenzialità di cambiare i modi di apprendere e di amministrare la cosa pubblica. Esiste all’interno della Pubblica Amministrazione (non soltanto di quella italiana) una forza (che si potrebbe definire “viscosità amministrativa”) che si oppone al cambiamento, e l’opposizione ai tentativi di riforma di Franco Bassanini e Sabino Cassese ne è in qualche modo un esempio. Occorre quindi un grande sforzo comune se non si vuole che il mutamento digitale finisca per portare un deterioramento della situazione del cittadino utente. Per quanto riguarda la storia credo che si debba distinguere tra studio della storia e storia in atto. Per quanto riguarda lo studio della storia, l’analisi sarà certamente avvantaggiata dalla trasformazione digitale, ma rimarrà condizionato dai pregiudizi pre-digitali degli storici. Per quanto invece riguarda la “storia in atto” (lavoro, impresa, istruzione), valgono le considerazioni fatte all’inizio.
Francesco Siliato
Radicalmente il digitale non cambia granché, né mette ordine, sembra anzi che prosperi nel disordine, nel creare separazione. Per riuscire a non cambiare nulla radicalmente, cambia tutto il resto. Promuove culture “post” per nascondere che è tutto pre.
3) Per quali ragioni la promessa di “un universo digitale libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere” si è trasformata in una realtà di “disinformazione, polarizzazione settaria, sfiducia risentita, forti diseguaglianze”? È possibile che la straordinaria utopia del World Wide Web possa essere riutilizzata per consentire un dibattito pubblico informato, consapevole e partecipato?
Piero De Chiara
La polarizzazione settaria è funzionale a produrre attività degli utenti, dati, profilazione; in ultima analisi genera valore d’impresa, che è lo scopo e il motore del sistema. In rete esiste però una massa sterminata di attività cooperativa senza scopo di lucro. Queste attività coinvolgono un numero di soggetti molto più ampio dei partiti e degli stessi sindacati. Alla nascita del capitalismo l’embrione del contropotere non si formò grazie al luddismo, che fu rapidamente sconfitto, ma grazie alla saldatura tra le organizzazioni mutualistiche e le avanguardie operaie che impararono a comunicare le loro istanze lungo la stessa catena di montaggio che ne parcellizzava il lavoro.
Giorgio Pacifici
In realtà la promessa di “un universo digitale libero, aperto trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere” non era una promessa ma un’ipotesi interdisciplinare di sociologia della conoscenza, di filosofia della politica e di filosofia della scienza. La trasformazione in una “realtà di disinformazione” è avvenuta in primo luogo per le carenze culturali della classe dirigente (europea) che non ha saputo esercitare nessuna azione di “governo” del mutamento. Ma le “forti diseguaglianze”, se non ci si vuole rifugiare in una neo-mitologia, esistevano da prima della rivoluzione digitale. Riutilizzare il www per un dibattito pubblico può essere solo il frutto di una comune tensione verso questo obiettivo di gruppi e forze assai diversi.
Francesco Siliato
In Mediaterraneo (1997 circa) io e Clelia Pallotta descrivemmo il futuro del World Wide Web come “catalogo di tutte le merci”. Nel mercato dei media la merce sono le persone, l’oggetto composto da soggetti che si comprano e vendono, soggetti che mettono a disposizione il loro tempo. Li si vende a gruppi detti target o singolarmente, per catturarli si utilizzano specchietti deformati dal riflesso dell’ideologia economicista, sotto forma di informazione, sport, varietà, eccetera, eccetera. il processo prosegue con la vendita degli stessi specchi nei quali specchiarsi.
4) Per quali ragioni si sono affermati monopoli di fatto di poche piattaforme egemoni fondate su sistemi proprietari e in che modo queste potrebbero essere diversamente regolate e responsabilizzate in un’economia di mercato più aperta?
Piero De Chiara
Dopo una breve fase iniziale caratterizzata da start up, fallimenti, innovazioni di prodotto, è molto difficile insidiare la posizione di chi possiede più dati e potenza di calcolo. Nell’economia digitale spesso winner takes all. Le autorità antitrust hanno sicuramente sbagliato a consentire acquisizioni di potenziali concorrenti (Google-YouTube; Facebook-Whatsapp-Instagram, eccetera); ma una regolazione efficace non può limitarsi a qualche ormai tardiva dismissione forzata o debunking obbligatorio. La chiave sta nella natura stessa dei dati che, come abbiamo visto, possono essere esclusivi, ma diversamente dai beni materiali, non sono beni rivali, possono cioè essere ri-utilizzati senza deperire. La regolazione necessaria deve quindi non solo tutelare la privacy, ma soprattutto ridurre l’area del segreto industriale, rendendo gran parte dei dati accessibili e interrogabili per esigenze di pubblica utilità e di ricerca scientifica.
Giorgio Pacifici
Mi sembra che l’affermarsi di poche “piattaforme egemoni” sia dovuto in primo luogo alla carenza di reali autorità sovranazionali di regolazione e di controllo. Come osservavo già molti anni fa a proposito di imprese transnazionali di diversi settori, si tratta di soggetti “non democratici” – che hanno apparati di comando e controllo in grado di rispondere rapidamente ad ogni variazione della situazione in cui operano – non “appesantiti” dalle procedure a cui storicamente devono attenersi gli Stati. Una diversa regolazione può avvenire soltanto attraverso un reale e efficace meccanismo di governance. Controlli su scala nazionale mi sembrano quindi improponibili.
Francesco Siliato
L’ideologia economicista prevede di rubare ai poveri per donare ai ricchi. Per imporsi ha dovuto affermare che le ideologie erano finite. Si è resa così immanente da essere considerata assente, invisibile, indistinguibile dal naturale flusso delle vite e della natura. Dall’ideologia economicista discende la cultura neo-liberista che, come avviene alle culture discendenti da ideologie, si auto- nomina per l’opposto di quello che è. Chi urla “libertà” pretende le dittature, chi si nomina liberista, pretende che a dominare l’economia siano i monopoli. Donne e uomini dediti alla politica si sono messi a disposizione, la tensione ad essere più realisti del re nel solleticare i più ricchi ha reso i ricchi potenti e ha procurato alla politica la perdita di ogni credibilità. Anche grazie a campagne mirate contro la “politica” e i “politici”.
5) Il controllo della gestione dei big data è davvero lo strumento di una nuova forma di dominio di un capitalismo digitale che esercita una stretta sorveglianza su tutta l’attività in un mondo globalizzato e come tale è destinato ad essere il motore di un nuovo profitto per un lungo periodo dell’umanità o siamo solo in una prima fase di accumulazione primitiva cui seguirà una fase di assestamento e di ridistribuzione delle ricchezze grazie alla ripresa del controllo o comunque dell’indirizzo esercitato da entità statuali o sovra-statuali di fronte alle nuove sfide e ai nuovi rischi globali: sanitari, climatici, ambientali?
Piero De Chiara
Guardiamo all’America del secolo scorso: senza gli scioperi del Pane e le rose, non ci sarebbe stato Il tallone di ferro di London o Tempi moderni di Charlie Chaplin e poi il New Deal. L’esperienza in tutte le grandi trasformazioni del passato insegna che il bilanciamento tra poteri nasce solo con una sequenza logica che parte da conflitti e classi sociali, poi diventa produzione di cultura e di nuovi attori politici e solo infine determina leggi e istituzioni che fotografano i nuovi rapporti di forza. Stavolta però il processo è molto più veloce e le istituzioni nazionali non sono la soluzione, ma parte del problema. Il controllo dei big data rischia anzi di essere l’oggetto e l’arma dello scontro tra nazioni.
Giorgio Pacifici
Preferirei alla formula di “capitalismo digitale” una definizione in grado di rappresentare l’intreccio conoscenza-finanza-tecnologia. Non credo che alla fase attuale di accumulazione possa seguire una fase di redistribuzione delle ricchezze mediante un controllo esercitato da entità statuali. Come ho scritto sopra soltanto delle entità sovranazionali fornite di un reale potere possono forse far fronte alle nuove sfide: quindi il problema è essenzialmente di organizzazione internazionale.
Francesco Siliato
Il capitalismo digitale è una forma primitiva di accumulazione della ricchezza. La merce definita immateriale è invero molto materiale, sono le donne, gli uomini, le bambine e i bambini. La schiavitù certo non è “fisica” ed è persino una libera scelta inconsapevole, ma la merce rimangono le persone sottratte del loro tempo. Non so se le donne e gli uomini che svolgono attività politica siano in grado di frenare l’irruenza dei monopoli.
6) “Le bolle e i filtri digitali costruiti attorno gli utenti dalle piattaforme restringono gli spazi pubblici, frammentando e polarizzando le opinioni, anziché favorire come la stampa e i mezzi di comunicazione nelle società aperte la formazione di un’opinione pubblica informata e conoscenze aperte e verificate”. Si tratta di un fenomeno irreversibile di riduzione e frammentazione della sfera pubblica destinato a segnare la storia nei prossimi decenni o è ancora possibile governare la rete e rilanciare quella società della conoscenza aperta e condivisa a cui aspiravano i fondatori del Web?
Piero De Chiara
Anche la stampa è stata a lungo uno strumento al servizio soprattutto delle élites industriali; anche la radio è stata usata da Joseph Goebbels prima che nelle fireside chats di Francis Delano Roosevelt; anche la televisione, che aveva unificato le nazioni, ha prodotto Silvio Berlusconi e Donald Trump. Senza idealizzare i mezzi del passato, dobbiamo però vedere il salto quantitativo della potenza di calcolo applicata alla massa dei dati che consente di costruire innumerevoli micro-target e inviare a ciascuno il messaggio più efficace. Questi algoritmi, che si erano sviluppati in origine per utilizzi di pubblicità commerciale e predizioni finanziarie, sono stati utilizzati molto bene dalla destra politica per individuare le paure di ciascuno e trasformarle in rancore, rabbia e odio. Il pensiero di sinistra si è invece impigrito in una comoda e colpevole autoreferenzialità. Inoltre esistono evidenti incentivi economici di mercato alla segmentazione nella raccolta dei dati e nello sviluppo degli algoritmi. Di fronte all’evidente fallimento del mercato nella ricerca e sviluppo di algoritmi di coesione e condivisione è necessario un intervento pubblico, che per essere significativo deve essere almeno a livello europeo: come ho già scritto su Democrazia futura ci vuole un modello Ginevra per la ricerca sull’Intelligenza artificiale.
Giorgio Pacifici
Indubbiamente le “bolle e i filtri digitali” restringono gli spazi pubblici. Ma precedentemente la stampa e le televisioni di molte società occidentali non hanno favorito la formazione di un’opinione pubblica informata e conoscenze aperte e verificate. Se le fake news sono il pane quotidiano della società digitale, la costruzione di pseudo verità ha attraversato tutta la nostra vita di indifesi spettatori delle televisioni. Basti pensare alle verità costruite da “imparziali” organi di informazione come la BBC. Se il fenomeno possa essere reversibile dipende dalla volontà politica. Mi si consenta un esempio che può dare l’idea della inattività della politica: le agenzie di rating – che sono colossali centri di potere finanziario – hanno spesso svolto un’attività che è sconfinata nella criminalità finanziaria. Le valutazioni spesso infondate e faziose hanno contribuito a danneggiare milioni di cittadini dei paesi occidentali, eppure i governi si sono astenuti dal proporre la creazione di un’agenzia di rating europea, sottoposta alla sorveglianza della Commissione dell’Unione europoea.
Francesco Siliato
I fondatori del web aspiravano allo scambio di informazioni tra dipartimenti universitari. I militari hanno capito per primi il suo potenziale ed è con i fondi militari il web si è sviluppato. La guerra tra monopoli, cittadine e cittadini, sempre considerati target a cui sottrarre informazioni e tempo, prosegue imperterrita. Difficile immaginarne la fine. Non percepisco concreti segni di irrequietezza da parte delle popolazioni. Riguardo alla sfera pubblica è attiva nel fare di tutto per agevolare la conoscenza dei monopolisti. Le autorità per la privacy sono campioni in questa attività. Proibiscono il sapere del “pubblico”, siano cittadini o istituzioni, per lasciare che tutto sappia solo chi ha il controllo di scrivere leggere dati e algoritmi, di supportare l’intelligenza artificiale, il machine learning e chi più ne ha più ne metta.
7) La politica e la democrazia potranno riconquistare campo nel disegno del futuro e nella ricerca del bene comune o il tecno-capitalismo dei dati e della sorveglianza è destinato ad egemonizzare il governo delle prossime generazioni, segnando il tratto caratteristico di società tecnocratiche, autocratiche, post-democratiche?
Piero De Chiara
Il capitalismo delle piattaforme negli ultimi due decenni ha saputo costruire consenso, alleanze e scambi, prima con le avanguardie libertarie, poi con i consumatori e con la finanza. Il problema negli ultimi decenni è stata debolezza degli altri attori politici e sociali. Segnali di un cambio di vento sono iniziati dai punti alti dello sviluppo e da quelli più marginali, dalle lotte dei dipendenti di Google e da quelle dei rider. Non si è creata ancora la connessione con i soggetti più consistenti che sono i movimenti ambientalisti, quelli civici e i lavoratori sindacalizzati. Neanche i Big data possono predire la fine della Storia.
Giorgio Pacifici
Certamente – non soltanto sotto un profilo scientifico – sarebbe importante stabilire i tratti delle società post-democratiche, quando cioè – attraverso un continuum di eventi – una società non si può più definire “democratica” ma “post-democratica“. Certamente alcuni fenomeni di pseudo democrazia pongono in difficoltà chi voglia tracciare una linea di demarcazione precisa. Permettere un libero confronto di opinioni infondate e avulse dalla realtà, come sta avvenendo oggi in Europa a proposito di virus e vaccini, non costituisce certamente la base di una società democratica.
Francesco Siliato
Oggi sembra evidente che è la seconda che hai detto. Ma spes ultima dea est speremus igitur semper. La “post” democrazia ha già vinto; senza movimenti composti da donne e uomini che ne svelino le ambiguità vivrà quanto vorrà, innestando tutte le tecnologie che riterrà opportune, senza opposizione. Perfino la maternità, la gestazione e la nascita sono diventate una technè. In teoria un movimento può nascere da qualsiasi tema, anche dal clima, per poi espandersi nell’insoddisfazione generale, ma al momento il movimento sul clima è usato per incentivare i profitti delle industrie che hanno creato i problemi. Nella cultura neo-liberista i circoli viziosi vengono in fretta trasformati in virtuosi per chi è disposto a crederci.