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Democrazia Futura. Di cotte, ma soprattutto di crude

Bruno Somalvico

In apertura del nono fascicolo di Democrazia futura l’editoriale. Dopo quindici mesi di conflitto ucraino, nonostante l’intensificarsi delle azioni diplomatiche per raggiungere perlomeno una tregua, in un futuro più o meno ravvicinato ne vedremo “di cotte e di crude”. Facendo sua l’analisi di Sergio Romano “L’Europa noi e il passato che ritorna” – “Sembra che stia accadendo quello che si era verificato prima della Grande Guerra. Agli inizi del ‘900 esistevano nel continente europeo cinque potenze imperiali o con ambizioni imperiali (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna). Vi erano anche potenze meno esplicitamente ambiziose che avrebbero tuttavia approfittato di un conflitto per appropriarsi di un territorio. E vi erano anche Paesi (fra i quali l’Italia) in cui la società era divisa fra correnti nazionaliste e movimenti pacifisti. Il quadro oggi non è molto diverso” – secondo il direttore editoriale della rivista quella che stiamo vivendo “sembra ormai destinata a diventare una guerra europea con inevitabili contagi in altri continenti”. Di qui – la necessità di una forte coesione politica e diplomatica dell’Europa all’interno di un Occidente che, senza rinunciare a prodigarsi con fermezza per la salvaguardia dei propri valori e dei diritti umani, sia in grado di negoziare un nuovo equilibrio geopolitico innanzitutto con la Cina per evitare una pericolosa escalation che potrebbe portare – come si chiede lo stesso Sergio Romano – alla terza guerra mondiale.

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La guerra in Ucraina nata dall’invasione russa è lungi dal concludersi. In varie occasioni si è pensato che il conflitto fosse ad un bivio e si sono intensificate le azioni diplomatiche per favorire perlomeno una tregua: da ultimi la telefonata fra Xi Jinping e Volodymyr Zelenskyj, la missione diplomatica a Mosca del rappresentante speciale per gli Affari Eurasiatici della Cina Li Hui e l’annuncio da parte della Santa sede della missione a Kiev del Presidente della Conferenza Episcopale italiana Matteo Zuppi. L’escalation nell’autunno-inverno 2022/2023 sembrava lasciar presagire il tentativo da parte degli invasori russi ma anche degli invasi ucraini di arrivare ad una tregua partendo dai rapporti di forza conquistati metro per metro sul territorio. Soluzioni escogitate inizialmente del tipo: rinuncia alla Crimea da parte dell’Ucraina in cambio di ripristino dell’integralità territoriale dell’Ucraina con statuto di larghissima autonomia nelle autoproclamate repubbliche filorusse all’estremità orientale del Paese, tornano oggi come possibili soluzioni di un conflitto che minaccia di allargarsi.

Chi ha voluto la guerra in Ucraina? […] L’invasione russa dell’Ucraina è stata un evento improvviso e nei mesi successivi potemmo constatare che un problema nato localmente si stava progressivamente ingrandendo sino a preoccupare anche altri Paesi (Francia, Germania, Italia).

Queste osservazioni provengono da uno fra i nostri massimi esperti di politica internazionale, lo storico ed ex ambasciatore italiano a Mosca Sergio Romano che in un corsivo per il Corriere della Sera “L’Europa, noi e il passato che ritorna” uscito il 23 aprile 2023 aggiungeva:

Sembra che stia accadendo quello che si era verificato prima della Grande Guerra. Agli inizi del ‘900 esistevano nel continente europeo cinque potenze imperiali o con ambizioni imperiali (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna). Vi erano anche potenze meno esplicitamente ambiziose che avrebbero tuttavia approfittato di un conflitto per appropriarsi di un territorio. E vi erano anche Paesi (fra i quali l’Italia) in cui la società era divisa fra correnti nazionaliste e movimenti pacifisti.

Sin qui la descrizione delle similitudini con il passato. Poi in base all’analisi propria dello storico, la previsione del diplomatico attento osservatore del scacchiere internazionale e dei conflitti che lo caratterizzano:

Il quadro, oggi, non è molto diverso. Negli ultimi anni le guerre sembravano destinate ad accendersi soprattutto in Africa e in Asia mentre le potenze europee avrebbero risolto diplomaticamente i loro litigi; e l’Italia, pur membro della Nato, proclama il «ripudio della guerra». Il quadro oggi potrebbe almeno in parte cambiare.

Questa la previsione dell’ex ambasciatore a Mosca che aggiungeva, tanto per chiarire le cose

Quella che continueremo a chiamare «guerra ucraina» sembra ormai destinata a diventare una guerra europea con inevitabili contagi in altri continenti. Non è forse sorprendente – si chiede preoccupato Sergio Romano – che un Paese neutrale come la Svezia abbia deciso, in queste tempestose circostanze, di riparare sotto l’ombrello della Nato e diventarne membro? Altri, come nella Grande Guerra, approfitteranno di questa situazione per riaprire vecchie questioni territoriali.

Come nel primo Novecento: l’Occidente e l’Italia di fronte alla prospettiva (che non può più essere scartata) di una III guerra mondiale. Evitare l’ennesima disunione diplomatica e militare europea

Da qui una conclusione che sebbene sia passata quasi inosservata in un’opinione pubblica nostrana “in altre faccende affaccendate” – dalle nomine dello “spoil system” alla consultazione dei partiti sulle riforme istituzionali dai negoziati informali con la Commissione europea sulle condizioni di attuazione del PNRR al prosieguo delle schermaglie diplomatiche con la Francia sulle politiche migratorie – se ci pensiamo bene è molto inquietante e ci invita dunque a riflettere con la massima attenzione

Non sappiamo ancora quali conseguenze avranno le vicende di questi giorni, ma le micce, negli arsenali dell’Europa, sono numerose

paventa Sergio Romano, concludendo con un interrogativo

Stiamo assistendo alle prime battaglie della Terza guerra mondiale?

Chi ha seguito quanto pubblicato da Democrazia futura in questi quindici mesi di guerra ucraina osserverà le similitudini fra l’analisi dello storico liberal conservatore Sergio Romano e quella di uno storico proveniente dall’estrema sinistra israeliana come Shlomo Sand che descriveva il quadro emerso dopo l’invasione dell’esercito di Vladimir Putin come molto simile a quello all’origine dello scoppio della prima guerra mondiale:

All’inizio degli anni Settanta, quando tutti i pacifisti combatterono contro la proliferazione delle armi nucleari e le tensioni tra i due blocchi quello occidentale e quello orientale si intensificarono sulla scia della brutale guerra del Vietnam, il filosofo liberale francese Raymond Aron sostenne che, se non fosse stato per queste armi, il mondo avrebbe conosciuto e attraversato molte altre guerre mondiali. Ora, all’inizio del 21° secolo, la sua argomentazione sembra più vera e corretta che mai. Ancora una volta, siamo di fronte al pericolo di dover affrontare una nuova guerra per la quale spingono le aspirazioni imperialiste, con le più svariate motivazioni politiche militari ed economiche.

Per questa ragione, anziché dividersi, i cinque grandi Paesi europei-  ivi compreso un Regno Unito sempre più vassallo delle scelte geostrategiche degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel Pacifico in Oceania e in Asia – e in ogni caso i quattro citati da Sergio Romano appartenenti all’Unione europea Francia, Italia, Germania e Spagna, anziché procedere in ordine sparso sul fronte ucraino e di fronte alle nuove aspirazioni “imperiali” della Polonia (il copyright appartiene a Lucio Caracciolo direttore del mensile Limes) dovrebbero tornare a guidare uniti l’Unione europea in direzione di una politica comune in materia di difesa e di politica estera. Non solo sugli equilibri sul proprio fronte orientale e nei confronti della Russia, ma anche di fronte alla grande offensiva diplomatica scatenata dalla nuova grande potenza mondiale emersa sulla scena, la Repubblica popolare di Cina, che nella sua offensiva nei cinque continenti o comunque in Asia, Africa, America Latina e nella stessa Europa tende a costruire un proprio fronte distinto dal mondo occidentale ma probabilmente anche dalla Russia e da quel che rimane dei suoi alleati un tempo appartenenti all’Unione Sovietica. Un nuovo fronte simile a quello dei Paesi non allineati promosso dalla Jugoslavia di Tito negli anni della Guerra fredda In questo contesto l’Occidente non deve vergognarsi di fare l’Occidente a cominciare dall’essere paladino della salvaguardia dei diritti umani nel mondo come scrive all’inizio di questo numero Gianfranco Pasquino sottolineando il primato occidentale evidenziato dall’Indice di Sviluppo Umano elaborato dalle Nazioni Unite” [basato su] tre elementi […]: il reddito pro capite, il livello di istruzione e le aspettative di vita. Di qui l’importanza di riprendere in mano l’offensiva non solo sul piano militare ma anche su quello diplomatico, su quello della cultura e della comunicazione dei propri valori rilanciando i principi della Conferenza di Helsinki menzionati nel nostro editoriale del numero precedente.

L’Europa dia un segno di vitalità e riscatto dopo lo smacco subito con la Brexit e con l’aggressione dell’esercito di Vladimir Putin ai propri confini. Solo riaffermando autorevolezza e fermezza nella propria unità di intenti un’Unione politica vera dell’Europa potrà contribuire attivamente – seppur in un mondo molto cambiato rispetto a quello d’inizio Novecento alla soluzione dei tanti conflitti piccoli e grandi che imperversano nel nostro pianeta e affrontare con una voce sola le difficili trattative per la transizione energetica e la salvaguardia del clima.

Altrimenti nel vedremo di cotte e di crude.

Governare bene l’Italia è utile non solo per la destra ma anche per l’opposizione

Sul piano economico e su quello della politica estera il governo Meloni ha saputo sostanzialmente dar prova di continuità con quello precedente di Mario Draghi. Arrivata in quella che Pietro Nenni sessant’anni fa pensava fosse la “stanza dei bottoni”, la post fascista Giorgia Meloni – avvalendosi delle indubbie capacità di un ristretto numero di ministri – da Giancarlo Giorgetti a Guido Crosetto passando per il Guardasigilli Carlo Nordio – ha dato prova di pragmatismo evitando di applicare un programma elettorale che l’avrebbe portata in un’impasse. Al contrario, in occasione dei summit dell’Unione europea e di quelli internazionali ha dato prova di capacità politiche innegabili lasciando ad alcuni comprimari – non solo fra i parlamentari della sua generazione ma purtroppo anche ai presidenti delle due camere del nostro Parlamento – il compito di soddisfare le bramosie di rivincita del proprio elettorato e di truppe affamate di potere. Troppo presto per capire se Giorgia Meloni riuscirà a costruire il Partito della Nazione, ovvero finalmente un grande partito conservatore di destra del tutto rispettoso della democrazia occidentale e del rispetto delle regole che esso implica, e se tale partito verrà accolto nei salotti buoni di Bruxelles e delle grandi Cancellerie europee e non solo in quelle delle democrature e dei governi nazionalisti e sovranisti d’Europa orientale ostili al rafforzamento dell’Unione europea sul piano politico.

Certo è che le parate propagandistiche del nostro governo a Cutro dopo la strage di migranti, le dichiarazioni in tema di politiche demografiche che paventano il rischio di sostituzione etnica fra italiani vecchi e nuovi, quelle nostalgiche in camicia nera e saluti romani, la comunicazione ridotta a fotoromanzo stile Grand hotel con ammiccamenti della premier ai propri elettori prima di suonare il campanello in apertura del Consiglio dei Ministri, e purtroppo anche le modalità di occupazione di alcuni centri di potere fortemente simbolici come la Rai (del tutto simili a quelle perpetrate dai governi precedenti negli ultimi tre decenni … la qualità della lottizzazione nella prima repubblica era tutt’altra cosa!) sono davvero dettagli di poco conto che possono alimentare le cronache dei giornali e le aspirazioni di qualche deputato a farsi conoscere e riconoscere dai propri elettori. Ma non bastano certo per consentire all’opposizione di cacciare la premier da Palazzo Chigi.

Governare bene agevolerebbe non solo la strada di Giorgia Meloni a realizzare quanto Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Umberto Bossi prima e Matteo Salvini poi non sono riusciti a fare, ma di riflesso aiuterebbe anche l’opposizione a ricompattarsi e creare un’alternativa politica credibile. Un grande partito conservatore di tipo churchilliano capace di liberarsi degli ultimi simboli residuali dei partiti eredi del fascismo del dopoguerra – abolendo la fiamma dal propri simbolo – costringerebbe l’opposizione a ricompattarsi intorno ad un programma chiaro non demagogico  al contempo alternativo ma anche competitivo con il partito della nazione e di cui dovremmo rallegrarci noi tutti – anche quelli fra noi e come noi che non la hanno mai votata e mai la voteranno – e non solo chi ha semplicemente a cuore il benessere e la crescita della Penisola.

La riforma delle istituzioni. Un imperativo urgente da realizzare con il più ampio sostegno

Certo è che Giorgia Meloni non potrà evitare di affrontare e fare i conti con il tema delle riforme istituzionali di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno e non potrà accontentarsi della “consultazione” avviata in materia in un giorno di primavera di questo complicato 2023 con l’opposizione. E con essa dovrà affrontare di petto anche la riforma elettorale per restituire al Parlamento un ruolo sovrano dotato del potere non solo di conferire la fiducia al governo e di controllarne l’operato ma anche quello di legiferare secondo il principio della separazione dei poteri che è appunto uno dei cardini delle nostre democrazie. Democrazia futura ha avviato una riflessione sul tema delle riforme istituzionali/costituzionali necessarie per garantire al nostro Paese al contempo una maggiore solidità agli esecutivi (governabilità) e una rappresentanza effettiva delle varie complesse componenti geografiche della nostra Penisola (le tante “Italie” di cui parlava Fernand Braudel) ponendo il cittadino elettore al centro di una competizione dove risultino effettivamente contendibili entrambe le elezioni e in questo modo cercando di combattere il crescente fenomeno di disaffezione verso la politica che si esprime attraverso l’astensionismo.

Punto di partenza ormai chiaro è che la vecchia democrazia dei partiti (partitocrazia) è morta e che oggi i partiti possono ritrovare un ruolo che è essenziale solo come veicolo credibile ed efficiente delle scelte dei cittadini. In questa ottica diventa in effetti a parere dei promotori della nostra rivista del tutto cruciale porre nuovamente al centro della nostra attenzione il tema della rappresentanza rispetto a quello della governabilità che ha guidato le scelte in questo campo negli ultimi decenni. La governabilità va ovviamente garantita ma la sua base e condizione è una effettiva rappresentanza. Senza di che astensionismo e fiammate populiste non potranno che aumentare. Questo, a nostro parere significa consentire il più possibile ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti e questo significa avere ben presenti due criteri: collegi uninominali e meglio se piccoli per l’elezione del Parlamento ed elezione diretta del Presidente della Repubblica con trasferimento al Quirinale di più ampi poteri. Solo così gli elettori, specie più giovani potranno essere indotti a pensare che la democrazia è un modo di scegliere chi ci governa e non un modo per garantire un posto privilegiato ad alcuni eletti invero cooptati da un ristretto numero di leader di quel che resta dei partiti. Di qui l’idea di rispolverare una proposta lanciata negli anni Novanta dal compianto Antonio Maccanico, il cosiddetto “lodo Maccanico” che proponeva ai due schieramenti dominanti in quella stagione Il Polo di centrodestra intorno a Silvio Berlusconi e l’Ulivo di centrosinistra intorno a Romano Prodi un compromesso: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica attraverso un sistema elettorale a doppio turno nell’ambito di una Riforma in grado di consentire una forma di governo di tipo semi presidenziale sul modello francese, in cambio dell’elezione dei deputati attraverso un sistema maggioritario di collegio anch’esso a doppio turno anche in questo caso prendendo come punto di partenza il modello francese. Come chiarito bene dal professor Gianfranco Pasquino

“Alla logica del doppio turno è, dunque, opportuno dedicare la massima attenzione. Al primo turno vince il seggio il candidato/a che ottiene il 50 per cento dei voti più uno purché abbia votato almeno il 25 per cento degli elettori aventi diritto”. Al secondo turno quello che ha raccolto più voti.  “Per venire incontro ai critici e agli oppositori italiani del maggioritario francese, Giovanni Sartori tentò di sventare l’obiezione al criterio della soglia percentuale di voti indispensabili per passare al secondo turno indicando una modalità diversa. Stabilendo una soglia percentuale tutti i dirigenti dei partiti piccoli erano/sono/si ritengono in grado di valutare quanto penalizzante potrebbe essere per le loro candidature. Per rendere i calcoli meno affidabili e meno influenti, Sartori suggerì che, invece, di definire una soglia percentuale, il criterio da utilizzare fosse che in tutti i collegi uninominali l’accesso al secondo turno venisse comunque consentito ai primi quattro candidati introducendo nel sistema maggiore elasticità complessiva” rispetto al sistema adottato in Francia.

Per questa ragione crediamo che il tema tornerà al centro della nostra democrazia futura e lo sottoponiamo all’attenzione dei nostri lettori con l’auspicio che da questo confronto possa emergere un consenso bi-partisan come avvenne in qualche modo in occasione dell’Assemblea Costituente al momento del varo della nostra Costituzione.

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