Con I contorni del caso Filippo Pogliani, Filosofo manager, consulente aziendale e poeta, inaugura una rubrica di Democrazia futura di riflessione filosofica sui nostri tempi. Il primo pezzo ispirandosi ad un quadro di Giacomo Balla, Finestra su Düsseldorf, e da una citazione dal Canto per l’Europa di Paolo Rumiz, tratta “Dell’opacità”: “…con la difficoltà a gestire i miliardi di dati che riceviamo nei dispositivi che usiamo- scrive Pogliani – quello che è sicuro è un senso che c’è nell’opacità delle cose, negli sguardi delle persone, nello spostamento del fuoco della visione, dalla diretta identificazione della realtà al suo perdersi”.
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“A ore undici tutti vedemmo un albatros planare in libertà
a filo di spruzzaglia per duettare con la sua ombra smisurata” *
Paolo Rumiz, Canto per Europa, Milano, Feltrinelli 2021, p. 215.
Siamo obbligati a pensare che lo sguardo sia sempre completamente trasparente, come se la luce sia sempre come un riflettore acceso su ciò che noi vediamo grazie all’impressionante grandezza delle immagini e delle rappresentazioni, delle telecamere in ogni angolo delle strade, degli incroci tra i sistemi informativi, delle valanghe di dati che ci seppelliscono.
Siamo obbligati a quello che è finito, qui e ora, e ogni cosa che è finita è già finita, in attesa di altre evenienze che aspettano con una moltiplicazione geometrica.
Eppure, con la difficoltà a gestire i miliardi di dati che riceviamo nei dispositivi che usiamo, quello che è sicuro è un senso che c’è nell’opacità delle cose, negli sguardi delle persone, nello spostamento del fuoco della visione, dalla diretta identificazione della realtà al suo perdersi.
È come se i nostri occhi abbiano una sorta di patina che rifiuta la luce diretta o diffusa, disposta nella grande gamma delle interpretazioni, dei dati, delle espressioni. L’opacità non è solo una caratteristica dei minerali ma è anche una condizione fenomenologica nella lettura del reale ed è una dimensione che porti a uno straniamento.
Se pensiamo alla Finestra su Düsseldorf di Giacomo Balla, proviamo infatti a rileggere il punto di vista, dall’esterno all’interno: l’opacità è lo spazio del silenzio, del dubbio, del rispetto del passato, del mistero della vita e della morte, del tempo del dolore.
L’opacità è la singolarità del proprio vivere, esposta e corrosa da quell’esteriorità che pensiamo di conoscere e di addomesticare, di contenere tramutandola in un luogo di vita possibile, lasciandola sedimentare un accogliente paesaggio di memorie, amicizie, distacchi, lacune e soprattutto di quegli affetti in cui si sedimentano, confermati o deformati dal tempo, le tracce e i passaggi, i volti, gli abbracci, le parole.
È come se l’opacità sia l’esercizio meditativo che propiziasse e schiudesse l’accesso a un sé più profondo, o a quel più rabdomantico abbandonarsi alle ispirazioni e alle risonanze del momento in cui le apparenze dell’esistere dischiudono piste inesplorate e accennano a inedite costellazioni di senso o possono giungere a nuova chiarezza frammenti, echi di sogni, intuizioni non colte.
In questo senso, l’esperienza dell’opacità è anche il regesto delle scansioni e degli accadimenti dell’esistere, un rallentamento meditativo che ha bisogno del tempo e dello spazio adatto e di un accordo interiore con quelle dimensioni sacrificate o rimosse nella quotidianità operativa e ripetitiva: un’apertura di faglie, di scorci, di cammini smarriti, ma anche il rivelarsi di quello che è sempre stato qui, sotto i nostri occhi, prossimo eppure remoto, evidente eppure dimenticato, abbagliante eppure indecifrato.
Proprio come l’ombra smisurata dell’albatros, qui l’opacità ha la sua palingenesi.
Giacomo Balla, Finestra su Düsseldorf, novembre 1912