Il punto di vista

Democrazia Futura. Decidere insieme per deliberare insieme

di Gianni Cerami (1937-2021), già ordinario di urbanistica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli |

Il piano e il ruolo dell’urbanista nella mobilitazione di un’unica e coesa Comunità di cittadini. Riguardo le politiche urbane, non senza una dose di ironia, Cerami invitava a “Uscire dalla pratica del navigare a vista. Ripensare il reale per poterlo ri-creare con nuove stelle polari".

Giovanni Cerami

In apertura della Rassegna di varia umanità che uscirà nella quarta parte del quarto fascicolo abbiamo deciso di pubblicare a pochi mesi dalla scomparsa un Elzeviro di Giovanni Cerami, architetto e urbanista “Decidere insieme per deliberare insieme (1). Il piano e il ruolo dell’urbanista nella mobilitazione di un’unica e coesa Comunità di cittadini”. In questo Intervento scritto il 17 maggio 2013, a tre mesi dall’insediamento del Comitato Interministeriale per le politiche urbane, non senza una dose di ironia Cerami invitava a “Uscire dalla pratica del navigare a vista. Ripensare il reale per poterlo ri-creare con nuove stelle polari”: “L’endemica tradizione del ricorso a Uomini della Provvidenza che vengono delegati a decidere, in nome e per conto di tutti, cosa è giusto concedere, continua a riproporsi; e sono molti a credere che ciò sia necessario, anzi auspicabile e, quel che è peggio, sono molti che si propongono come indispensabili e provvidenziali salvatori (se non della Patria) della comunità cui si rivolgono. […]. Occorre un grande lavoro, culturale e di fantasia, per progettare arene di dialogo che siano massimamente inclusive e recuperare la perduta cultura dell’agorà, del forum, della piazza: di quei luoghi dove i cittadini possono incontrarsi per decidere un futuro che componga gli interessi di tutti in una diffusa condivisione”. L’urbanista napoletano invita a confrontarsi con modelli che rafforzino la solidarietà. “Un processo di piano (urbanistico) [va] inteso come mobilitazione civica in una prospettiva di condivisione e di partecipazione deliberativa: “bisogna creare tutte le condizioni – chiarisce Cerami – per attirare e coinvolgere nuove intelligenze, portatrici di nuovi saperi e nuove esigenze”. In altre parole si tratta di “Ricostruire un’unica comunità olivettiana”:”Stiamo assistendo al formarsi di liberi movimenti che, pur nelle loro diverse modalità di rappresentarsi, esprimono la consapevolezza e la volontà di realizzare l’antico sogno per il quale le decisioni non possono che venire «dal basso», da tutti coloro che si sentono coinvolti, per fattori diversi, da queste”. Cerami prosegue cercando di delineare “Il ruolo dell’urbanista in una comunità di cittadini messi nelle condizioni di poter decidere e deliberare insieme”: “Nei fatti, il quadro normativo esistente, nonostante una consistente proliferazione di leggi, ai diversi livelli istituzionali, non ha cambiato la logica della prima legge urbanistica. Certo, sono state sostituite alcune parole d’ordine (“l’interesse della Nazione” con quello de “l’interesse collettivo”, il controllo della Stato è stato sostituito con quello delle Regioni) ma i principii per il quale le scelte in materia urbanistica sono oggetto di attenzione da parte di élite e, con argomentazioni e linguaggi diversi, vengono posti come indiscutibili”. Sul ruolo dell’urbanista rimane ancora “Il peso del fallimento della riforma urbanistica degli anni Sessanta”: significato di tali tensioni e a svolgere un concreto ruolo di controllo e di orientamento di queste”. Per Cerami occorre “Saper pre-valutare la qualità morfologica dei nuovi scenari urbani”: “Voler esaltare e valorizzare la dimensione «visionaria» dell’urbanistica, – una dimensione che è stata mortificata da quella indifferenza verso il mondo delle immagini che viene ancora ostentata da molti cultori del piano -, costituisce una affascinante ipotesi di lavoro: a) Occorre riconoscere quanto sia avvertita una forte «domanda di qualità urbana» che significa domanda di immagine e di memoria, di cultura e di creatività. B) La qualità urbana deve costituire uno degli elementi fondanti di un progetto di futuro che vuole essere vissuto come «bene comune». C) La bellezza della città deve diventare parte significativa di ciò che costituisce il “bene comune” per eccellenza e cioè la città stessa. D) La bellezza della città deve essere una delle argomentazioni più forti dell’intero progetto”. Si tratta, in definitiva, del formarsi di una nuova cultura comunitaria, di un neo comunitarismo che costituisce la sostanza di un’autentica democrazia – conclude Cerami.

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È, ormai, sempre più sentita l’esigenza di costruire nuovi sguardi e nuove prospettive, nuove stelle polari e nuove chiavi di lettura del reale per poter trovare un nuovo percorso radicalmente alternativo all’attuale navigare a vista, a quel navigare che da troppo tempo ha improntato di sé programmi, comportamenti e scelte.

Tale “navigare a vista”, – nel suo simulare un pragmatismo in verità piuttosto infondato ma sempre difeso e sostenuto con argomenti da guerre di religione -, viene raccontato, strumentalmente, come l’unica cosa possibile che ci è consentito fare; e ciò è falso poiché sappiamo che abbiamo bisogno d’altro, così come altrettanto false sono le giustificazioni che, al proposito, vengono addotte.

Non è più accettabile che una incapacità, o non volontà, di elaborazione propositiva possa essere legittimato solo da manieristiche parole d’ordine, da mantra che, vuoti di contenuto,  vengono declamati con forte intensità.

Il vantaggio di tale non scelta, è nell’evitare di cercare e comprendere le nuove domande che vengono poste dalla società e di limitarsi a dare risposte a più facili, ma ormai morte, domande.

Ma sappiamo che “quel che è difficile non è trovare le risposte giuste ma porre giuste domande”; il che definisce un ulteriore interrogativo che, fra l’altro, è il tema di fondo del nostro lavoro: chi è legittimato a costruire tali «giuste domande» e come valutare la loro giustezza?

L’endemica tradizione del ricorso a Uomini della Provvidenza che vengono delegati a decidere, in nome e per conto di tutti, cosa è giusto concedere, continua a riproporsi; e sono molti a credere che ciò sia necessario, anzi auspicabile e, quel che è peggio, sono molti che si propongono come indispensabili e provvidenziali salvatori (se non della Patria) della comunità cui si rivolgono.

Le procedure decisionali fondate sul principio del centralismo e dell’autoreferenzialità non hanno più alcun valore, perché è palese la loro assoluta inefficacia, la labilità delle loro certezze, la loro assoluta inadeguatezza a incidere sulla realtà.

Ma non solo, poiché il fornire risposte poco argomentate, e imposte con autorità, ha sempre determinato una forte conflittualità per la reazione di coloro cui è rivolta una parte di tali scelte e che si sentono, di fatto, inascoltati interlocutori.

Ed oggi, in tutte le arene di confronto (a qualsiasi livello istituzionale), è sempre più diffusa una deriva verso la conflittualità dei partecipanti e la loro conseguente frammentazione: il che esprime una incapacità di confrontarsi con il presente per costruire ipotesi di futuro .

L’aspetto più negativo di tale atteggiamento è il diffondersi di una pervasiva sfiducia sia nella possibilità di costruire condivisibili prospettive di futuro sia, e soprattutto, nella capacità non solo di «fare la Storia» ma di «stare nella Storia».

Se si vuole ri-pensare il reale per poterlo ricreare, occorre cambiare radicalmente il meccanismo delle tradizionali procedure decisionali: per andare oltre la tradizionale logica del primato della maggioranza occorre riconoscere pari dignità a quella parte di società che, per convenienza, viene definita minoranza; anche se oggi è più giusto parlare di una pluralità di minoranze, con le loro aspettative, le loro elaborazioni fantastiche, volte a risolvere disagi, bisogni e paure attraverso una coesistenza solidale.

Recuperare la perduta cultura dell’agorà del forum, della piazza come occasioni di partecipazione, dove incontrarsi per decidere un futuro che componga gli interessi di tutti in un’unica condivisione (2)

Ed è proprio il tema della «coesistenza solidale» che deve costituire l’obiettivo centrale da perseguire con una nuova ed efficace procedura in grado di costruire e favorire occasioni di concreta partecipazione.

Occorre un grande lavoro, culturale e di fantasia, per progettare arene di dialogo che siano massimamente inclusive e recuperare la perduta cultura dell’agorà, del forum, della piazza: di quei luoghi dove i cittadini possono incontrarsi per decidere un futuro che componga gli interessi di tutti in una diffusa condivisione.

Ed è ricca di esempi significativi la tradizione italiana per quanto riguarda la storica «costruzione» di spazi che possiamo definire «comunitari» poiché in essi venivano affrontate e discusse le esigenze delle comunità più deboli della società: dalle Società operaie di mutuo soccorso (fin dai primi anni dell’Ottocento), alle Case del popolo, di ispirazione socialista, sorte nella seconda metà dell’Ottocento, nelle quali venivano svolte attività di servizi culturali, assistenziali, mutualistici e ricreativi, fino ai più «Centri comunitari» olivettiani che vennero sperimentati, negli anni Sessanta, in alcune regioni italiane.

Lo stesso vale per più recenti esperienze svolte in diversi luoghi di decentramento amministrativo in cui si sono realizzate ricche occasioni per una concreta e fruttuosa attività di aggregazione e partecipazione.

Bisogna poter discutere insieme per costruire un futuro comune e condiviso, ma avendo come prospettiva il reciproco rispetto, il riconoscimento della pari dignità e, in definitiva, l’affermazione del principio della solidarietà come mezzo e come fine della nostra presenza.

Confrontarsi con sistemi che rafforzino la solidarietà

Il tema con cui deve confrontarsi chiunque intende proporre progetti di futuro è che tale attività propositiva può essere ritenuta legittima e credibile solo se è in grado di “sviluppare e condividere sistemi di governo….. che rafforzino condizioni di solidarietà”.

L’efficacia delle scelte è legata a una loro ampia condivisione, ottenibile solo attraverso concrete forme di coinvolgimento: i destinatari del piano devono riconoscersi nei nuovi scenari che questo prefigura poiché vi ritrovano le proprie storie e le proprie speranze, le loro proposte e i loro sogni.

Ed è di grande attualità il pensiero di Adriano Olivetti che, a proposito del rapporto fra urbanistica e architettura nella costruzione di un futuro di una comunità, parla del ruolo che i cittadini devono avere nel definire gli obiettivi e i contenuti di tale progetto:

Il rapporto fra l’architetto e la sua comunità diventerà la sua legge,coscienza morale, segnerà la sua partecipazione creativa alla nascita della nuova comunità “.

Il concetto di comunità, concreta e radicata, corrisponde (nella concezione olivettianai) a due profonde necessità:

– creare una autorità democratica nuova di cultura stabile, fertile, elevata, atta a edificare la nuova città, che vivrà solo di scelte omogenee, organiche,unitarie;

– il volto della città nuova non può essere affidato all’estro di un uomo, ma a un sistema (una civiltà di cultura decentrata).

Un piano (urbanistico) inteso come mobilitazione civica in una prospettiva di condivisione e di partecipazione deliberativa

Il processo di piano deve essere in grado di costruire una mobilitazione dei cittadini, in una prospettiva fondata sulla «condivisione» e sul «consenso»: bisogna creare tutte le condizioni per attirare e coinvolgere nuove intelligenze, portatrici di nuovi saperi e nuove esigenze, bisogna creare nuovi e responsabili soggetti del cambiamento per far emergere anche quelle esigenze e aspettative che non hanno avuto occasioni per potersi esprimere liberamente: in tal modo il progetto potrà acquisire nuovi contenuti sia procedurali che propositivi.

In definitiva, occorre riconoscere la legittimità di tanti nuovi Interlocutori, di quelli che  riescono a dare forma compiuta alle loro richieste e di quelli che non sono in grado di elaborare proposte in cui i loro diritti possano trovare giusta ed equa soddisfazione: si tratta quindi di coinvolgere in un processo decisionale tali soggetti per dar forza e corpo alle loro domande (e quale che sia il grado di loro definizione).

Inoltre, e questa costituisce una peculiarità italiana molto consistente, non si può non riconoscere la forza e la tradizione del movimento cooperativo, del volontariato e dell’associazionismo, della galassia del Terzo Settore: si tratta di un modo di essere nella società che configura una pluralità di interlocutori che sono già oggi in grado di dare forma a quel processo decisionale che definiamo «partecipazione deliberativa», perché già dispongono della cultura necessaria.

E questo è un impegno che già da tempo vede coinvolte molte istituzioni pubbliche e associazioni private impegnate a costruire, anche matericamente, arene di confronto aperto fra cittadini.

Quello che è incomprensibile, ma forse neanche tanto, è il silenzio che accompagna tali esperienze più che positive.

Ricostruire un’unica comunità olivettiana

La sfida che dobbiamo raccogliere è di fare in modo che più comunità, nate ciascuna da specifiche aspettative, possano insieme costruire un condiviso progetto di futuro e, quindi, riconfigurarsi in un’unica comunità che sente l’orgoglio di essere artefice del proprio futuro e garante dell’attuazione di questo. Bisogna darsi come prospettiva di lavoro quella di riannodare i fili di quei discorsi vennero interrotti, qualche decennio fa, da argomentazioni portate avanti con forza e che, però, si sono rapidamente dimostrate labili e superate dalla realtà.

Fra questi discorsi, centrali furono i temi sviluppati, a partire dagli anni Cinquanta, dal movimento di Comunità che venne brutalmente e scientemente demolito e rimosso e che oggi viene da più parti rivalutato per il prezioso contributo che esso ha elaborato per costruire una cultura e una pratica autenticamente laica e democratica.

Quello che certamente oggi possiamo e dobbiamo fare, è cercare di legare quei fili di discorsi spezzati, e che ancora presentano elementi di attualità, costruendo nuovi discorsi, ricchi di potenzialità e prospettive e possibilità di crescita, anche se possono sembrare ancora solo abbozzati e contraddittori.

Si deve sviluppare tale azione propositiva che esprime più valenze; ed è veramente suggestiva la riflessione di Gustavo Zagrabelsky sul bisogno di avere rispetto, oltre che di sé, anche degli altri e delle loro narrazioni e rappresentazioni, presenti e future.

Questo rispetto di sé e degli altri, afferma Zagrebelsky,

è sempre esposto alla pressione della stanchezza e della delusione…., ad una rinuncia a sé stessi che è sempre molto faticosa da sopportare. E l’elenco delle delusioni è lungo: l’ingovernabilità delle società plurali, la rivincita degli interessi corporativi che soffocano l’interesse generale, la persistenza di oligarchie economiche, politiche e di ogni altra natura lo spazio limitato della democrazia”.

Stiamo assistendo al formarsi di liberi movimenti che, pur nelle loro diverse modalità di rappresentarsi, esprimono la consapevolezza e la volontà di realizzare l’antico sogno per il quale le decisioni non possono che venire «dal basso», da tutti coloro che si sentono coinvolti, per fattori diversi, da queste. Ed è importante comprendere come sia venuto a consolidarsi tale mutato atteggiamento, culturale e psicologico, nei confronti non solo del mondo «esterno» ma, soprattutto, nei confronti di sé stessi; si tratta di una tensione, in continuo divenire, che vuole e può sostituire quella endemica e paralizzante sfiducia verso il presente, espressiva di una sfiducia sulle proprie capacità di poter svolgere ruoli propositivi ed efficaci.

Viene affermato il diritto che è possibile, oltre che necessario, raccontarsi, esprimere i propri bisogni e le proprie aspettative, liberare le intelligenze da vecchie pastoie, ed elaborare proprie interpretazioni del presente e adeguate proposte per un possibile e auspicato futuro.

Ritengo molto significativa questa esplicita volontà, che tali gruppi esprimono, di riappropriarsi di quei diritti che sono stati negati e, fra questi il diritto di essere direttamente e attivamente coinvolti nel progetto del proprio futuro.

Il ruolo dell’urbanista in una comunità di cittadini messi nelle condizioni di poter decidere e deliberare insieme

La base per avviare una riflessione sui contenuti di un progetto politico e la definizione della attività necessaria alla sua attuazione non può non essere costituita che dal tema dei diritti civili.                                                                                

E parliamo di diritto al lavoro, diritto allo studio, diritto alla salute, diritto alle pari opportunità, diritti che sono riconosciuti dalla Costituzione ma vengono negati da una pratica politica sempre più estranea a tali valori  per più motivi, primo fra tutti l’assenza di quei definiti progetti politici che dovrebbero definire l’identità di qualsiasi formazione politica.                                                                     

Ma il diritto più significativo è quello di poter decidere il proprio futuro in quanto singolo cittadino e comunità di  cittadini.                                                    

Poter decidere significa essere messi nella condizione di partecipare e che tale  partecipazione non può limitarsi ad essere consultiva ma deve essere concretamente deliberativa.

Decidere insieme deve significare deliberare insieme. Si tratta di costruire un complesso di decisioni che riguardano il “cosa fare”, il “come”, e infine il “con chi”, quali le opere, come valutarne i costi e i vantaggi e poi i soggetti da coinvolgere per attuare e gestire quanto deciso.

Ma l’interrogativo da porsi è sul ruolo che deve essere svolto dall’urbanista e, quindi, sulla specificità del suo sapere e della relativa pratica all’interno di un nuovo processo decisionale; si tratta di un interrogativo  consapevole della crisi di ruolo e di contenuti che la disciplina sta, a mio parere, attraversando.

Una crisi che può essere attribuita sia all’endemico principio di autorità che a quello della autoreferenzialità, elementi che hanno informato di sé tutte le procedure adottate dalla pratica urbanistica, e fornito una non discutibile legittimazione a tutti i processi decisionali e ai loro esiti. Nei fatti, il quadro normativo esistente, nonostante una consistente proliferazione di leggi, ai diversi livelli istituzionali, non ha cambiato la logica della prima legge urbanistica.

Certo, sono state sostituite alcune parole d’ordine ( “l’interesse della Nazione” con quello de “l’interesse collettivo”, il controllo della Stato è stato sostituito con quello delle Regioni) ma i principii per il quale le scelte in materia  urbanistica sono oggetto di attenzione da parte di élite e, con argomentazioni e linguaggi diversi, vengono posti come indiscutibili.

Il che ha significato una impermeabilità a quelle tensioni di cambiamento che sono sempre più presenti nel dibattito politico e culturale e nei confronti delle quali si è sempre adottato un atteggiamento di benevola condiscendenza, una accettazione di maniera che ha sempre mortificato tali nuove istanze: fra queste, il principio di partecipare direttamente alla costruzione del proprio futuro, in quanto cittadini, e il diritto ad una maggiore, e condivisa, qualità urbana in tutte le scelte progettuali. Le motivazioni di questa inerzia politica e, ancor più, culturale sono certamente diverse e di antica data, in considerazione dei diversi interessi in gioco.

Il peso del fallimento della riforma urbanistica degli anni Sessanta

Certamente, ebbe un gran peso la mancata riforma della legislazione urbanistica che, negli anni Sessanta, era stata proposta dal ministro Fiorentino Sullo il cui disegno di legge intendeva costruire un quadro normativo più adeguato agli intensi processi di urbanizzazione, sia in atto che prevedibili.

La reazione nei confronti della proposta di legge urbanistica fu violenta e, in molti casi, volgare: gli interessi in gioco erano molti  ma il rifiuto della legge, che certamente conteneva elementi che richiedevano più attente riflessioni, segnò la fine di un periodo ricco di speranze, nel corso del quale i governi nazionali avevano avviato, tra molti conflitti, un complesso di riforme che riguardavano, fra l’altro, la sanità, il lavoro, la scuola.

Tale rinuncia da parte della politica (e di buona parte della cultura «ufficiale») a prendere posizione nei confronti di poteri ed economie forti, anche per non spaventare un elettorato restio ad accettare qualsiasi limitazione a egoistiche aspirazioni, significò l’inizio di quel continuo giocare di melina (per usare una espressione calcistica) che ha caratterizzato, e ancora oggi caratterizza, buona parte della cultura politica italiana.

Ma il chiudersi all’interno dei propri recinti a difesa di puntuali interessi, ha contribuito a spegnere quel fermento innovativo che, con tutte le sue contraddizioni, violenze e ricchezza di creatività, aveva caratterizzato l’Italia della Ricostruzione.

La scelta di non correre rischi e non prendere chiare posizioni, per non scontentare nessuno, ha significato, e ciò è pateticamente reso evidente anche da più recenti accadimenti, il rinunciare a darsi un progetto politico e, quindi, a fare politica.

La mancanza di un adeguato quadro legislativo, con il moltiplicarsi di norme che non hanno modificato in alcun modo lo status quo, ha reso  estremamente difficile e, in alcuni casi, ambigua la pratica urbanistica.

E non è casuale l’assenza dall’agenda di qualsiasi parte politica di impegni per elaborare un nuovo quadro legislativo relativo al controllo del territorio: il che esprime una indifferenza della politica nei confronti dell’urbanistica e della sua stessa indispensabilità.

Simmetricamente, si assiste a un patologico irrigidirsi della disciplina e a un rafforzarsi di quella deriva autoritaria che, dalla sua fondativa legge del ’42 fino a oggi, non ha saputo o non ha voluto accettare l’esigenza di rinnovarsi (ad esempio costruendo nuove modalità di rapporto fra istituzioni e cittadini) e ha rafforzato, e in termini perlomeno apodittici, la propria autoreferenzialità.

Questa disattenzione verso il continuo formarsi di nuove istanze di partecipazione da parte di nuovi interlocutori, ha certamente impedito la comprensione di quelle tensioni che fanno parte naturale della mutevolezza del reale: il che è estremamente contraddittorio se si considera che è proprio nei confronti del reale che le istituzioni e i cultori della materia sono chiamati per esprimersi e formulare progetti di futuro. Ma tale chiusura non ha determinato un rafforzarsi del ruolo della disciplina ma, anzi, ha compromesso la sua credibilità e necessità.

Il necessario e generale ripensamento della cultura e della pratica urbanistica – di quelle che costituiscono le sue procedure, le sue narrazioni, i suoi valori di riferimento, il modo di rapportarsi ai suoi interlocutori –, costituisce una sfida che richiede un forte impegno culturale. L‘elemento più significativo di tale ripensamento, riguarda il modo di porsi della disciplina nei confronti del reale, di quel mondo per il quale viene chiamata a esprimersi per costruire e proporre futuri possibili. L’urbanistica degli ultimi decenni, -nel suo non interpretare o, peggio, delegittimare qualsiasi spinta verso la trasformazione-, sembra aver voluto rinunciare a interrogarsi sul significato di tali tensioni e a svolgere un concreto ruolo di controllo e di orientamento di queste.

Per cui, nonostante sia evidente il manifestarsi di tensioni verso il cambiamento, che presentano, molte volte, una ricchezza di capacità propositive, l’atteggiamento che, ufficialmente, è stato assunto, è quello di un diffuso manierismo: nel timore di doversi interrogare sulle nuove domande, ci si rifugge in gratificanti e consolatorie autorisposte, in soluzioni di maniera dettate da moralismi part time o ideologismi di maniera che, anche sul piano delle immagini, testimoniano la preoccupante pervasività di un vuoto di reali contenuti.

A questo proposito, Adriano Olivetti così si esprimeva sul tema dell’incapacità di comprendere e rispettare

 “i sentimenti, il desiderio di partecipare delle ansie, delle speranze, dei timori della popolazione ha deviato più volte il nuovo linguaggio […] che si è immiserito informali e spesso demagogici omaggi al folklore”.

L’alternativa è quella di costruire “piazze”, materiali e virtuali, in cui discutere e far discutere:  rendere concreto un confronto propositivo di soggetti diversi per la definizione di scelte  che devono costituire impegni  per tutte le istituzioni che devono essere coinvolte ma  organizzate per una valutazione non più’ in sequenza, come di norma, ma in parallelo.         

Un reticolo orizzontale di soggetti che propongono, valutano e decidono.

Il che afferma il primato di due criteri: quello della necessità di saper argomentare sia le proposte che le relative valutazioni  e quello della responsabilità di cui devono farsi carico tutti gli interlocutori.

Una procedura in cui predomina non il principio della conformità a regole predeterminate ma quello della coerenza efficace a valori condivisi. 

È ciò significa dare nuovi nomi alle “cose”, elaborare nuove misurazioni, sviluppare nuove logiche e nuove riletture, liberarsi criticamente da feticci ormai di maniera, da determinismi che legano cause ed effetti sbagliando (perché non sono stati in grado di comprenderli) sia gli uni che gli altri.

E parliamo non già di ipotesi e di futuribili procedure ma di esperienze che molte realtà italiane hanno già vissuto ed altre stanno vivendo: quello che stupisce, ma neanche tanto, è il silenzio che viene avvolto su tali esperienze  da parte dell’ufficialità, politica e culturale.          

Il «fare» dell’urbanistica si è sempre espresso nel costruire e rendere realizzabile un progetto di organizzazione del territorio (un pezzo di città, una città, un insieme di città). Questo significa che, se il campo di applicazione dell’urbanistica è lo spazio abitato dall’uomo, allora il contributo più pregnante della disciplina dovrebbe essere costituito dal suo saper leggere e interpretare tale spazio e costruirne nuove riconfigurazioni, nuove immagini.

Il relazionarsi con altri saperi, altre discipline e procedure si traduce, così, nella capacità di assorbire e metabolizzare i diversi scenari cui i diversi saperi, con i loro linguaggi, alludono, per poi costruire una esaustiva immagine di futuro, efficace e condivisa.

Da tempo, invece, la pratica urbanistica ha espresso una assoluta indifferenza nei confronti della futura immagine urbana: e il risultato di tale atteggiamento è costituito dalla assoluta mancanza di controllo preventivo sulla qualità morfologica delle opere che dovrebbero partecipare alla realizzazione di tale immagine urbana; tale qualità è, infatti, del tutto  casuale poiché costituisce un impegno che viene delegato «all’esterno» e demandato alla «sensibilità» dei soggetti attuatori.

A mio parere, l’aver trascurato, e così ostentatamente, gli aspetti morfologici nella costruzione e nella realizzazione del piano (fattori che dovrebbero,invece, costituire la tensione più seduttiva dell’intero progetto) è uno degli elementi che hanno maggiormente contribuito ad offuscare la credibilità e il fascino della disciplina.

E la scarsa qualità d’immagine che si ritrova in tanta parte delle recenti trasformazioni territoriali va certamente addebitata a questa scellerata scelta culturale.

Nell’orientare i processi di trasformazione, l’urbanista deve essere in grado di dare corpo alle immagini prefigurate e garantire che queste si traducano in «manufatti» di alto e diffuso livello qualitativo; una attività di orientamento e controllo che comporta un notevole impegno progettuale.

Saper pre-valutare la qualità morfologica dei nuovi scenari urbani

L’elemento centrale di riflessione dell’urbanista è costituito dal suo saper pensare per immagini (così come il regista cinematografico) e pre-valutare la qualità morfologica dei nuovi scenari urbani che dovranno essere abitati da individui e da comunità.

Si tratta di un tema che è stato trascurato per molto tempo e che ritengo necessario recuperare: il che implica una verifica circa la adeguatezza della nostra scatola degli attrezzi e l’efficacia delle competenze disciplinari finora esercitate.

Voler esaltare e valorizzare la dimensione «visionaria» dell’urbanistica, – una dimensione che è stata mortificata da quella indifferenza verso il mondo delle immagini che viene ancora ostentata da molti cultori del piano -, costituisce una affascinante ipotesi di lavoro:

  • Occorre riconoscere quanto sia avvertita una forte «domanda di qualità urbana» che significa domanda di immagine e di memoria, di cultura e di creatività.
  • La qualità urbana deve costituire uno degli elementi fondanti di un progetto di futuro che vuole essere vissuto come «bene comune».
  • La bellezza della città deve diventare parte significativa di ciò che costituisce il “bene
  • comune” per eccellenza e cioè la città stessa.
  • La bellezza della città deve essere una delle argomentazioni più forti  dell’intero progetto.

Oggi la richiesta di bellezza costituisce una domanda sempre più diffusa: le scelte del piano, nel loro esprimere un progetto di futuro condiviso, devono tradurre tale aspirazione in altrettanto condivise immagini, la cui realizzazione deve costituire un impegno di tutti poiché esse interpretano i sogni dei cittadini  per un mondo migliore e per una sua  coerente immagine .

Oggi stiamo subendo narrazioni nelle quali i diritti dei cittadini vengono raccontati come un costo insopportabile: in questo modo viene giustificato l’azzeramento di una cultura in cui tali diritti hanno, invece, costituito un irrinunciabile valore primario.

Questa progressiva mortificazione dei diritti riguarda anche l’annullamento del diritto alla bellezza, legittima il disinteresse verso la buona qualità progettuale, ostacola l’esplicarsi di creatività e di ricerca per quei progetti di futuro che vogliono coniugare equità e bellezza.

Occorre grande volontà, politica e soprattutto culturale, per saper esaltare la inesplorata ricchezza del poter decidere insieme, del progettare insieme e liberamente il proprio futuro, del poter sognare e realizzare il rispetto dei propri diritti.

Conclusioni

Si tratta, in definitiva, del formarsi di una nuova cultura comunitaria, di un neo comunitarismo che costituisce la sostanza di un’autentica democrazia.

E molto suggestivo è il ruolo dell’urbanista per il suo dover essere “emozionato” dalla ricchezza dei temi con cui deve confrontarsi, dalle aspettative che vengono riposte nella sua attività, dal complesso dei saperi che deve coinvolgere e con cui deve dialogare: a ciò si aggiunge la consapevolezza di dover essere “emozionante” poiché deve essere in grado di suscitare positive emozioni in chi abita o abiterà i luoghi interessati da quel progetto di futuro alla cui elaborazione ha partecipato.

E solo riconoscendo la centralità di tali fattori l’urbanista può ritrovare la centralità del suo ruolo. Si tratta, certamente, di costruire e vivere un processo il cui esito non è mai prevedibile, ma di cui deve essere chiara la direzione: e le stelle polari della solidarietà, sobrietà, bellezza e condivisione costituiranno il continuo riferimento in un percorso che certamente richiede umiltà nel cercare e passione in ciò che possiamo fare.


(1) Intervento scritto del docente napoletano recentemente scomparso per un convegno sul tema delle Smart Cities promosso dalla Comunità di Pitagora- iniziativa promossa dalla nostra associazione Infocivica – Gruppo di Amalfi, insieme all’Ordine degli Architetti di Roma e l’Università del Molise, tenutosi otto anni fa a Forlì, il 17 maggio 2013 a tre mesi dall’insediamento del Comitato Interministeriale per le politiche urbane.

(2) Le tesi qui affrontate sono state approfondiste dall’architetto e urbanista nel suo ultimo saggio. Cfr. Giovanni Cerami, Costruire comunità per costruire futuri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, 170 p.

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