La sovrapposizione delle net-sommosse in Brasile e Stati Uniti ha imposto con forza il tema del neo caudillismo come categoria reazionaria della politica al tempo dei social.
Si tratta questa del neo caudillismo di una categoria della politologia che interpreta i processi di massificazione del rancore sociale verso le élites combinato con una adesione incondizionata a leadership personali. Il motore di questi addensamenti sociali attorno a personalità sovversive è quel meccanismo che permette di individuare, sulla base di una sofisticata profilazione di milioni di elettori, esattamente quelle figure sensibili a messaggi e sollecitazioni destabilizzanti che possono essere distribuite da un uso massiccio e dispendioso dei social network.
Una forma di regressione populista basata proprio sulla capacità di utilizzare le semplificazioni semantico cognitive che le nuove modalità di marketing amplificano al servizio di una mirata campagna per sostituirsi ai ceti dominanti liberali.
I due fenomeni – Donald Trump e Jair Bolsonaro – ovviamente mostrano, con evidenza, differenze e anche contraddizioni, sia sul versante della dinamica organizzativa che sul quello della composizione sociale.
I bolsonaristi che si sono ritrovati a Brasilia, esattamente due anni dopo il tentato assalto a Capitol Hill a Washington, erano più marcatamente plebe rispetto ad un ceto medio sovversivo che l’ex presidente americano ha formato e organizzato con le sue persuasioni digitali, attraverso il modello di Cambridge Analytica.
Nella capitale brasiliana si è mobilitata un’avanguardia di un vero popolo, ramificato e distribuito nella pancia del paese, organicamente connesso a quella borghesia compradora che ha dominato il Brasile fino all’insorgenza di Lula, opprimendo i settori più marginali della popolazione.
Diciamo che si è trattato di una spettacolare e apparentemente inspiegabile alleanza fra i secondi e i penultimi della gerarchia sociale, che sta caratterizzando, a diverse latitudini ideologico e politiche nel mondo, l’emersione di una destra di massa che sottrae temi e ceti sociali all’egemonia di una sinistra liberal.
Questa complicità fra frustrazioni dei pretendenti al primato e le ansie degli appena insediati nel sistema, appunto i secondi e i penultimi, l’abbiamo vista in azione nell’Inghilterra della Brexit, e persino nel nostro paese, dove, nelle regioni meridionali, si è assistito ad un apparente rito masochistico di larghi strati popolari meridionali, o della stessa borghesia professionale rivendicativa con il nord, accodarsi prima alla Lega e ora alla destra di Giorgia Meloni, formazioni politiche che rimangono forze saldamente imperniate sul primato settentrionale.
Una contorsione spiegabile solo con il montante odio antropologico per quelle smaltate élites progressiste che hanno occupato la vetrina sociale.
L’esercito populista contro l’intellettualità liberal
Un fenomeno non occasionale né locale che vede avanzare uno strano e composito esercito populista contro la smagliante egemonia culturale di un’intellettualità liberal che ha confiscato ogni spazio e speranza di futuro. Si rovescia così una tendenza che ha caratterizzato gli ultimi tre secoli, e che Alexis de Tocqueville in un saggio destinato al pubblico inglese, scritto nel 1836, dopo il suo primo viaggio negli Stati Uniti, e intitolato L’État social et politique de la France avant et depuis 1789[2], così descrive:
Mentre i sovrani rovinano nelle grandi imprese e i nobili si esauriscono nelle guerre private, i non nobili si arricchiscono con il commercio. Il denaro comincia a far sentire la sua influenza negli affari dello stato. Il commercio diviene una fonte di potenza e i finanzieri un potere politico disprezzato ma adulato. A poco a poco il sapere si diffonde: il gusto della letteratura e delle arti si risveglia; la genialità diviene elemento di successo, la scienza un mezzo di governo, l’intelligenza una forza sociale: i letterati arrivano agli affari di stato”.
Una marcia questa di un ceto di scienziati e letterati che si impossessa degli affari di stato che emargina ora persino gli arricchiti, da una parte, e sicuramente i subalterni dall’altra, imponendo gerarchie e percorsi sociali non contestabili. Siamo allo stadio finale di quell’evoluzione che ha trasformato il potere delle armi in peso della produzione, e infine tutto si è risolto in un bit, come dice Archibald Wheeler, il più longevo collaboratore di Albert Einstein scomparso all’inizio del nuovo millennio.
Questa borghesia dei bit oggi entra nel mirino dei non nobili, come dice Tocqueville.
In Brasile tutto questo si riflette nel bolsonarismo, Il collante che ha reso coeso e impermeabile a qualsiasi sbandamento, o evidente défaillance personale, i supporter dell’ex presidente, dichiaratamente candidato delle forze economiche più predatorie e oscurantiste che invece viene presentato come un vendicatore nei confronti di quell’aristocrazia intellettuale che si era imposta nel governo del paese.
Anche contro ogni evidenza che si è verificata nella risposta alla pandemia, Jair Bolsonaro ha potuto avvalersi dell’avversione viscerale ad un leader politico come Lula da Silva, identificato dall’alleanza populista espressamente come la minaccia diretta alla possibilità di rivincita individuale che, in assenza di ogni attuale proposta collettiva o comunitaria, rimane in campo per chi deve consolidare la propria posizione. L’orizzonte è la rivoluzione reazionaria basata sulla mitica teoria del gocciolamento, il cosiddetto trickel down, in cui solo un arricchimento concentrato in ambiti ristretti permette poi di spalmare il surplus sul resto della popolazione.
Le due presidenze di Lula avevano interrotto questa direzione che privilegiava monopoli edaree speculative, pensiamo al comparto agro industriale che promuove la deforestazione dell’Amazzonia, combinate con largo uso di spesa sociale per contenere le irrequietezze degli esclusi.
Mentre i comparti professionali urbani, più illuminati, con interessi globali e attività diversificate in diversi paesi del primo mondo, sicuri nel proprio status economico, si permettono di esibire una cultura della tolleranza e dell’inclusione, con grandi sensibilità ambientalistiche, sul versante opposto si radicalizzano a destra le figure di una borghesia imprenditoriale minore, non in grado di affacciarsi sulla scena internazionale dove comunque subiscono la concorrenza di paesi come la Cina, che li costringe a ridurre radicalmente i loro margini di guadagni, e di larghi strati popolari che si sentono minacciati dai flussi di urbanizzazione e autonomizzazione del proletariato indigeno che preme nelle grandi città abbassando il costo del lavoro.
Il riequilibrio sociale promosso dalla sinistra aveva inoltre inevitabilmente raffreddato la corsa al consumismo di una larga gamma di figure intermedie e non ancora soddisfatte, ceti subordinati che si sono trovati ancora senza una rappresentanza diretta: non più tutelati dal governo di sinistra e non più assistititi dalla destra speculativa.
In questo spazio di nessuno si è gonfiata la protesta che abili campagne di contatto e persuasione personale, condotte con largo uso di risorse e saperi, mediante le maggiori piattaforme di social, hanno saputo indirizzare contro l’evidente privilegio che, nomenclature liberali che appoggiavano culturalmente le riforme di Lula, conservavano.
Lungo questo crinale della rabbia e del rancore si è allentata se non disarticolata definitivamente quella trama identitaria e culturale che rende interessi diversi una nazione. Due Brasile si sono ritrovati, uno contro l’altro, a rinnegare legittimità e riconoscimento all’altro.
Il confronto fra quanto avvenuto a Brasilia e l’assalto a Capitol Hill
Proprio questo incrinamento del patto costituzionale è forze il tratto che congiunge Brasilia a Washington.
Negli Stati Uniti d’America il livello di intolleranza fra le diverse culture che si combattono politicamente sta intaccando quel robusto e istantaneo senso patriottico che pervade chiunque si trovi un passaporto blu fra le mani, indotto da un misto di riconoscenza per essere stati accolti e orgoglio per poter, una volta affermatisi, poi accogliere. Tradizionalmente il ring dove si combattono le battaglie politiche in quel paese è rappresentato da un’immensa piattaforma sociale di ceto medio, caratterizzato da una scala di frequenze larghissima, dove ai molti bordi convivono ricchezze e nuove povertà, ambizioni e frustrazioni, sofferenze e iper consumo. Un ceto medio che si trova dall’alto incombente l’élite più potente e ricca del mondo, quale è il top management americano, e dal basso minacciato da un continuo flusso di immigrati che cercano il proprio posto al sole intaccando le acquisizioni di coloro che si sono appena sistemati.
La demografia, come ha ammonito Steve King, un leader neo cons del congresso alla vigilia dell’elezione di Donald Trump nel 2016, “ è il nostro destino, non possiamo risanare la nostra civiltà con i figli di qualcun altro “. Un modo non certo politicamente corretto di rinfacciare ai centri urbani delle grandi metropoli democratiche quanto sta accadendo in provincia.
Documenta Yascha Mounk nel suo saggio Popolo vs Democrazia[3]
“nel 1980 i due terzi di tutte le comunità americane erano altamente omogenee, con i bianchi a costituire oltre il 90 per cento dei residenti […] nel 2010 solo un terzo delle comunità americane era formato per il 90 per cento da bianchi“.
Nelle elezioni presidenziali Donald Trump riuscì ad imporsi nel 73 per cento delle contee dove l’equilibrio etnico era mutato più radicalmente. Si conferma così, scrive ancora Mounk, la dinamica della piramide di Maslow, che vede una trasformazione degli istinti sociali che una volta soddisfatti i bisogni più basilari, come cibo e assistenza, avvertono la necessità di una propria autorealizzazione sul territorio, vivendo ogni ostacolo come una minaccia insopportabile.
In questa tenaglia, fra sfarzo di élites liberal e demografia incombente, potremmo dire che il ceto medio americano abbia perso il suo centro.
Proprio la configurazione sociale più tipicamente moderata e centrale in un sistema politico, quale appunto un centro moderato e prudenziale dove si coltivano l’insieme degli interessi e comportamenti mediani, che ha sempre guidato le istituzioni del paese con minime oscillazioni fra i due campi, diventa oggi il luogo della radicalizzazione e della conflittualità ideologica ad oltranza: un ceto medio estremista che combatte sui due fronti: le élites liberal e gli emarginati competitivi.
In questo gioco dei quattro cantoni si logora il senso di appartenenza nazionale.
Ormai la distanza fra Texas e California, due Stati simbolo, sia politicamente che culturalmente, delle tendenze opposte che si contrappongono negli Stati Uniti d’America, è largamente superiore rispetto a quella che separa uno dei due Stati da realtà come un paese europeo o addirittura asiatico. Sul fronte dei diritti civili, delle strategie fiscali, dei valori sociali e, per la prima volta, addirittura sulla politica estera. Negli ultimi anni si è registrato un movimento di trasferimenti all’interno degli Stati Uniti guidato proprio dalle identità ideologiche: i conservatori si spostavano negli stati “rossi” che sono nella simbologia americana quelli repubblicani, e i progressisti in quelli blu, dei democratici.
Questa separazione costituzionale, in cui i contrasti socio culturali prevalgono sulle identità statuali, sembra oggi l’elemento che ridisegna l’intera geografia politica non solo statunitense.
Gli Stati non sono più un’entità uniforme e monolitica nemmeno nelle loro proiezioni internazionali, tanto più se conflittuali, come invece una meccanica, e del tutto superata, logica geopolitica, che ancora oggi, nel commentare la guerra in Ucraina e le dinamiche che ne conseguono sullo scenario globale, tende ad accreditare.
Il conflitto sociale forse per la prima volta sta prevalendo su altre convenienze istituzionali, geo economiche e perfino religiose, rendendo precarie le identità nazionali.
Esemplare è stato il fatto che durante il golpe-ombra a Brasilia Jair Bolsonaro fosse ospite di Donald Trump nella sua tenuta in Florida, mentre la Casa Bianca esprimeva la sua solidarietà al presidente Lula da Silva arrivando a contemplare l’espulsione dal paese del leader brasiliano.
Potremmo dire che dopo secoli di furenti contrasti religiosi, economici e ideologici che hanno visto contrapporsi visioni del mondo e modelli di vita e di organizzazione sociale del tutto antitetici, il famoso apologo di Menenio Agrippa, in cui si celebra la superiorità di una concordia nazionale che produca vantaggi per tutti, di cui la Roma imperiale fu la culla, e che venne riprodotto in ogni successiva entità statuale, viene ora contestato e messo in mora proprio nel momento in cui sbiadiscono le ideologie e si affievoliscono le tensioni sociali.
Paradossalmente il conflitto sociale sembra meno mediabile proprio nella società piatta, come si definisce l’infosfera, che si è sostituita alle lotte nazionali del capitalismo colonialista, prima, agli scontri nel lavoro industriale poi, e anche alle contese fra interessi e culture diverse nel nuovo scenario terziario infine. Sembra che rispetto alla guerra fra classi o religioni sia più insidioso per il collante statuale proprio il ronzio di uno sciame di infiniti individui che cercano di affermarsi individualmente con linguaggi e strumenti che gli consentono comunque di intervenire sulla scena globale.
Del resto la globalizzazione come processo frenetico e incontrollato, che ha travolto limiti e valori di localismi istituzionali e culturali non poteva certo non comportare un allentamento di quella intelaiatura che aveva fino ad oggi fatto prevalere proprio l’identità nazionale sugli interessi locali o internazionali.
In questa prospettiva diventa davvero fuorviante mantenere nell’analisi delle controversie internazionali una ferrea logica geopolitica, in cui gli stati coincidono con il loro esercito, che si intende come un’entità uniforme e univoca. Cosa che non è più così.
Dalla geopolitica delle entità statuali alla società dei Joiners
La guerra in Ucraina ci mostra come siano le casematte sociali, la convergenza di interessi, capacità e figure professionali, avrebbe detto Antonio Gramsci, che combattono più dei carri armati.
E’ la società civile, con la sua articolazione e conflittualità interna, che adotta e gestisce gli apparati digitali, ormai centrali nella guerra algoritmica come provo a spiegare nel libro Net War:in Ucraina il giornalismo sta cambiando la guerra. Apparati che impongono procedure e modelli di attuazione decentrati, che si basano sulla complicità di singoli cittadini che rimangono nell’anonimato.
Certo la tecnicalità che permette una visione sulle dinamiche e le possibili strategie rimane un’ottica utile, ma va integrata con una nuova e costantemente aggiornata mappa delle forze in campo, in cui la politica dei confini viene superata e annebbiata dalla sociologia dei bordi.
Nel saggio Progettare il disordine[4] di Pablo Sandra e Richard Sennet si spiega come le società urbane moderne tendano a distinguere “i confini che sono margini dove le cose finiscono mentre il bordo è una linea dove gruppi diversi interagiscono “. Un nuovo modo di disegnare le forme di convivenza sociale che coglie l’aspetto emergente della nuova comunità digitale: l’interattività delle moltitudini.
Una relazione che produce capitale umano, combinando esperienze e saperi in un continuo scambio di posizioni. Uno scambio che produce inevitabilmente attrito, che diventa poi conflitto. Nel secolo della fabbrica, il Novecento, il conflitto si basava su un’unicità di luogo e di tempo: la catena di montaggio. Un’uniformità che pur nell’asprezza della contesa salvaguardava una matrice comune fra i due contendenti che si riconoscevano come legittimi reciprocamente: la cultura del lavoro.
Questo legame ha cementato, pur nella lotta sociale, la comunità nazionale percepita come l’insieme di queste fabbriche, di questi sistemi di produzione della ricchezza. La materialità del lavoro è stato un forte giunto di connessione nella società di massa.
Nella società pulviscolare, dove gli individui si separano dalle rispettive comunità di identificazione, il quadro appare più precario e sfuggente.
Non a caso la faglia lungo cui si frammenta fino a frantumarsi l’infrastruttura statuale diventa più visibile proprio negli Stati Uniti, il paese dei Joiners, intesi come cittadini che creano comunità mediante una micro negoziazione permanente, come lo definì gia nel suo primo viaggio Alexis de Tocqueville. Un paese che si forma mediante la reiterazione e istituzionalizzazione di intese territoriali, dove la socialità diventa un’occasionale convenienza e opportunità rispetto al proprio interesse personale.
Come approfondisco nel testo gia citato Net War
“La straordinaria, quanto profetica, definizione che Tocqueville sceglie per definire quell’impasto fra piccola proprietà, grandi latifondi e autonomie locali che germina poi quello che saranno gli Stati Uniti, sarà anche il terreno di coltura di quel fenomeno che è stata appunto la «nascita della società in rete», come la definisce Manuel Castells nel primo dei volumi che compongono la sua trilogia sull’età dell’informazione.
La forma di convergenza e occasionale cooperazione fra individui e grumi di interessi, in cui è la provvisorietà ad assicurare autonomia e indipedenza a tutti i soci, a differenza delle esperienze europee, e italiane in particolare, di collaborazione e cooperative fra lavoratori strutturate in apparati permanenti per acquisire e incrementare una piccola proprietà di terra o accedere vantaggiosamente a beni e servizi, fa crescere la figura dell’anonimo e momentaneo interlocutore che in rete si aggrega su un tema o una richiesta facendo montare la valanga fino a minacciare i giganti”.
La trama sociale di questa realtà, dove appunto lo Stato è la conseguenza e non la causa della società civile, regge fino a quando i joineers ritengono conveniente confermare il mosaico dei patti sociali che stabiliscono quotidianamente. Una sorta di habeas corpus istituzionale: lo stato esiste finché si verifica la sua convenienza.
Una precarietà che diventa anche una forza come accade in Ucraina come cerco di spiegare ancora nel mio testo appena richiamato: ”Tanto più se la guerra è una competizione di intelligence, come avremo modo di vedere, dove bisogna massificare i dati, moltiplicare gli occhi, gestire e combinare le informazioni”. Così George Friedman, direttore della rivista Geopolitical Futures inquadrava, nel marzo del 2022, lo svolgimento della prima fase delle operazioni belliche:
“L’Ucraina non ha un centro di gravità ma solo una fanteria sparsa, che non ha fornito alcun obbiettivo specifico da distruggere. Anche se si potrebbe considerare guerriglia, non lo è, e l’Ucraina ha sorpreso il nemico con la sua resistenza e imprevedibilità. L’aggressore può rispondere con attacchi brutali sulla popolazione ma così non lascia agli ucraini altra scelta che combattere. L’esercito russo non era organizzato per questa guerra, non l’aveva pianificata e non può che adottare provvedimenti brutali contro i civili “.
Ora se davvero quello che si sta combattendo nell’est europeo è una net war allora sicuramente non potrà non esserci una net peace. Anche rispetto alle possibili strategie per arrivare alla pace, la tradizionale geo politica, che riduce tutto ad un’equazione di potenza statuale, sia sul versante della forza militare che su quello delle convenienze tattiche, poco ci aiuta a prevedere le reali dinamiche delle forze in campo che sia a Kiev sia a Mosca saranno fortemente condizionate dai partner sociali che sono stati allertati.
I sindaci e i governatori locali che hanno retto la resistenza anti russa, da una parte, insieme alle compagnie digitali che hanno supportato ancora più degli alleati occidentali, l’impegno sul terreno, non potranno non essere parte attiva nella decisione sul tipo di pace da accettare. Così come perfino al Cremlino lo Zar Vladimir Putin nel suo totalitarismo mostra di non poter ignorare le lobbies militari e finanziarie che si sono prodigate per sorreggere la sua operazione speciale.
Siamo dunque in un nuovo territorio in cui la politica internazionale, la stessa guerra, si integra con le nuove geometrie del conflitto sociale scomponendo il totem dello Stato e riportando alla luce interessi e culture che si innervano solidamente nelle comunità civili.
Uno stadio in cui il cinismo dei grandi strateghi dovrà tornare a fare i conti con l’economia domestica di Joiners, che di volta in volta stanno imparando a valutare se e come scambiare la propria sicurezza con la propria intraprendenza. Una transizione appena abbozzata, ma difficilmente recintabile, dove, per tornare ad Antonio Gramsci, il vecchio muore ma il nuovo stenta a nascere, forse.
[1] Ispirandosi alle considerazioni espresse da Tocquevile Arthur Schlesinger nel 1944 in un articolo per l’American Historical Review definisce gli Stati Uniti come A Nation of Joiners che potremmo tradure come “Una nazione di soggetti aggregatori della società civile”. Su questa base vedi il primo capitolo di Michele Mezza Net-War. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra, Con un post scritto di Pierluigi Iezzi, Roma, Donzelli, 2022, VI-226 p.
[2] Alexis de Tocqueville, L’état social et politique de la France avant et depuis 1789, esce in Inghilterra nel 1836 vent’anni prima de L’Ancien Régime et la Révolution. Tocqueville, divenuto noto in Europa dopo la pubblicazione del primo volume De la démocratie en Amérique, scrisse questo testo su richiesta di John Stuart Mill. Il saggio apparse nel 1836 sulla London and Westminster Review, in cui Mill era impegnato al tempo. Il testo, che aveva lo scopo di spiegare lo sviluppo storico della Francia a un pubblico inglese, contiene già alcuni tratti fondamentali dell’argomentazione dell’ultimo lavoro che uscirà due decenni nel 1856 con il titolo L’Ancien Régime et la Révolution e ne costituirà la prima parte. Vedilo ora nell’edizione critica de La Pléiade curata e introdotta da François Furet e Françoise Mélonio: Alexis de Tocqueville, Oeuvres. III. Etat social et politique de la France, Textes présentés par François Furet et Françoise Mélonio, établis et annotés par Françoise Mélonio, Paris, Gallimard, 2004, LXXVII-1294 p.
[3] Yascha Mounk, The people vs. Democracy. Why our freedom is in danger and how to save it, Cambridge – London, Harvard university press, 2018, 393 p. Traduzione italiana di Francesca Pè: Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Milano, Feltrinelli, 2018, 333 p.
[4] Pablo Sendra, Richard Sennett, Designing Disorder. Experiments and Disruption in the City, London- New York, Verso, 2020, 160 p. Tradizione italiana di Daria Cavallini: Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo, Roma, Treccani Editore, 2022, 192 p.