L'intervento

Democrazia Futura. Da partiti pigliatutti al vuoto, gli effetti della trasformazione dei partiti. Senza ritorno

di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna, e Socio dell’Accademia dei Lincei |

Gli effetti della trasformazione dei partiti, Democrazia Futura entra nel vivo con una riflessione sul tema "Effetto Draghi". Prove tecniche di post-democrazia sobria e di restaurazione di un’etica pubblica.

Con l’intervento di Gianfranco Pasquino intitolato “Da partiti pigliatutti al vuoto. Gli effetti della trasformazione dei partiti oggi”, Democrazia futura entra nel vivo con una riflessione sul tema Effetto Draghi. Prove tecniche di post-democrazia sobria e di restaurazione di un’etica pubblica. Mentre “i partiti di massa non erano e non avevano mai voluto essere organizzazioni puramente elettorali. Fra i loro compiti avevano inserito e esercitato quelli relativi al reclutamento di iscritti, alla loro educazione politica, alla selezione di dirigenti e candidati alle cariche elettivi”, al contrario a parere di Pasquino “I partiti pigliatutti si erano dati altri obiettivi distanti e talvolta molto differenti, sostanzialmente meno impegnativi di quelli perseguiti dai partiti di massa, di classe e confessionali”. […] Fra il 1994 e oggi nel caso italiano […] Tutti i partiti, che per lo più rifiutano persino questo appellativo, sono oramai pigliatutti. Nessuno di loro svolge qualsivoglia attività pedagogica (le “scuole” sono balletti per le leadership, esibizioni festaiole), di produzione di cultura politica. I loro meccanismi di reclutamento e di selezione funzionano poco, saltuariamente, male, a scapito del ruolo e della partecipazione degli iscritti. Per lo più i partiti italiani hanno e manifestano caratteristiche “personalistiche” con l’accentuazione della visibilità del leader. Quanto al “governo di partito”, gli esperimenti dei governi non-politici, ma affidati a personale sostanzialmente privo di appartenenze e esperienze politiche (Carlo Azeglio Ciampi; Lamberto Dini; Mario Monti; Mario Draghi), stanno a dimostrare che quel tipo di governo viene spesso messo in soffitta. La questione non è che i governi non-politici non sono eletti da nessuno/non escono dalle urne, come perseverando nell’errore costituzionale grave, affermano imperterriti alcune grandi firme e lo stesso Direttore del Corriere della Sera. La vera questione è che quei governi e molti loro ministri sono tecnicamente “irresponsabili”. Non hanno un elettorato di riferimento, non dovranno tornare a chiedere il voto agli elettori assumendosi la responsabilità di quello che hanno fatto, non hanno fatto, hanno fatto male. Anche in questo modo si svuotano le democrazie”.

Gianfranco Pasquino

Nel 1966 fu pubblicato postumo un articolo che per qualche decennio ha segnato l’analisi delle trasformazioni dei partiti fino ad oggi (1). L’autore, Otto Kirchheimer, Professore di Government alla Columbia University, era uno degli scienziati sociali e politici della Scuola di Francoforte che aveva dovuto lasciare la Germania di Adolf Hitler. Socialdemocratico, autorevole studioso della Costituzione di Weimar, aveva contrastato con vigore il pensiero di Carl Schmitt. Nel suo breve saggio, Kirchheimer sostenne che i partiti di massa di classe, socialisti e comunisti, e confessionali, le Democrazie cristiane, in Francia, Germania e Italia stavano diventando partiti pigliatutti (2). Con nostalgia per quel partito di massa, l’autore individuava cinque grandi cambiamenti in corso, anzi, in stadio avanzato: a) drastica riduzione del bagaglio ideologico; b) rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice e valutazione delle loro azioni e omissioni dal punto di vista dell’identificazione, non con gli obiettivi del partito, ma con l’efficienza dell’intero sistema sociale; c) diminuzione del ruolo del singolo iscritto; d) minore accentuazione di una specifica classe sociale o di una platea religioso-confessionale per reclutare invece elettori tra tutta la popolazione; e) apertura all’accesso di diversi gruppi di interessi. Quasi subito si aprì nel contesto italiano una colluttazione fra i comunisti, che negavano qualsiasi loro scivolamento verso il partito pigliatutti, e esponenti della sinistra non comunista che in parte lo criticavano per la perdita di slancio al cambiamento sociale e per l’integrazione nel sistema e in parte lo auspicavano. Quello che è successo in seguito, un po’ dappertutto, anche se in maniera diseguale, ai partiti di massa delle democrazie dell’Europa occidentale, conferma che Kirchheimer aveva colto una tendenza fondamentalmente inarrestabile.

La riflessione sui fattori che avevano dato inizio alla tendenza è stata forse meno approfondita del necessario. In estrema sintesi, sempre con la nota di cautela che le condizioni iniziali erano alquanto diverse da paese a paese e da partito a partito, fra quei fattori spiccavano le nuove modalità di comunicazione grazie alla diffusione della televisione, la prosperità conseguita e diffusa, i mutamenti nelle classi sociali a partire dalla classe operaia, i processi di secolarizzazione.

Quello che non apparve chiaramente allora e che anche in seguito non è stato, a mio parere, sufficientemente studiato, è che quei partiti di massa non erano e non avevano mai voluto essere organizzazioni puramente elettorali. Fra i loro compiti avevano inserito e esercitato quelli relativi al reclutamento di iscritti, alla loro educazione politica, alla selezione di dirigenti e candidati alle cariche elettivi. I partiti pigliatutti si erano dati altri obiettivi distanti e talvolta molto differenti, sostanzialmente meno impegnativi di quelli perseguiti dai partiti di massa, di classe e confessionali.

Praticamente negli stessi anni in cui scrisse Kirchheimer, si era affacciata una ambiziosa spiegazione della nascita e del consolidamento dei partiti in Europa occidentale basata sulle fratture sociali e, in parte, politiche: Stato/Chiesa; centro/periferia; città/campagna; imprenditori/lavoratori. Esposta per la prima volta congiuntamente dall’americano Seymour Martin Lipset e dal norvegese Stein Rokkan (3) questa tesi fu poi perfezionata e ampiamente utilizzata dal solo Rokkan. La combinazione variegata di quelle fratture aveva dato vita ai sistemi di partito che, consolidatisi già all’inizio degli anni Venti del ventesimo secolo, erano riusciti a durare attraversando tempi difficilissimi senza cambiamenti di rielievo (ad eccezione della nascita del Partito gollista, fondatore della Quinta Repubblica francese) fino alla metà degli anni Sessanta – proprio gli anni nei quali stavano emergendo i partiti pigliatutti. Implicita nella tesi di Lipset e Rokkan stava la necessità di vere e profonde fratture sociali per la comparsa di nuovi partiti (anche se Rokkan riconobbe che alla base dei partiti fascisti e comunisti si trovavano fratture eminentemente politiche). Qui mi corre l’obbligo di mettere in evidenza che Giovanni Sartori non aderì mai alla tesi di Rokkan, sostenendo piuttosto, in linea con una più che convincente interpretazione del pensiero di Max Weber in materia e anche di Joseph Alois Schumpeter, che i partiti sono il prodotto della abilità/volontà di un imprenditore politico che sfrutta le circostanze e utilizza lo spazio politico esistente.

Quello che è certo è che i partiti nati nei decenni successivi non sembrano avere un collegamento solido con qualche importante frattura sociale tranne, forse, quella industrialismo/ambientalismo che, infatti, ha dato vita a partiti verdi, anche se, nella maggioranza dei casi, non di grande successo elettorale e politico. Non mi spingerei fino a sostenere che esista una frattura “europeismo/sovranismo” e che sia di portata tale da ristrutturare i sistemi di partito delle democrazie europee, ma, forse, è prematuro discettare in proposito.

Partito è, nelle parole di Sartori che cito a memoria, un’organizzazione di uomini e donne che presenta candidature alle elezioni, ottiene voti, vince cariche. Fra queste cariche, le più ambite sono, ovviamente, quelle di governo. Kirchheimer si era fondamentalmente preoccupato del ruolo di rappresentanza politica delle preferenze degli elettori e del compito sociale e pedagogico del partito di massa. Da molto tempo, però, soprattutto in Gran Bretagna, l’attenzione degli studiosi era stata dedicata allo studio dei partiti che andavano al governo e ai loro comportamenti: party government. Peraltro, un po’ dappertutto le democrazie erano effettivamente casi di party government nei quali: “1). Le decisioni sono prese da personale di partito eletto (a cariche di governo) o da soggetti sotto il suo controllo; 2a) le politiche pubbliche sono decise all’interno dei partiti che 2b) poi agiscono in maniera coesa per attuarle; 3a) i detentori delle cariche sono reclutati e 3b) mantenuti responsabili attraverso il partito” (4). La Repubblica italiana, nella quale tutti questi criteri avevano trovato applicazione concreta, è sicuramente stata un caso di “governo di partito” dal 1946 al 1992, persino nella sua degenerazione chiamata partitocrazia (5).

Fra il 1994 e oggi nel caso italiano è andato perso tutto quello che, in conformità con le teorie e con le pratiche esistenti nelle democrazie occidentali, aveva funzionato soddisfacentemente fino allo smantellamento del Muro di Berlino nel 1989 (sì, asserisco anche l’esistenza di consequenzialità post hoc ergo propter hoc). Tutti i partiti, che per lo più rifiutano persino questo appellativo, sono oramai pigliatutti. Nessuno di loro svolge qualsivoglia attività pedagogica (le “scuole” sono balletti per le leadership, esibizioni festaiole), di produzione di cultura politica. I loro meccanismi di reclutamento e di selezione funzionano poco, saltuariamente, male, a scapito del ruolo e della partecipazione degli iscritti. Per lo più i partiti italiani hanno e manifestano caratteristiche “personalistiche” con l’accentuazione della visibilità del leader proprio come evidenziato e lamentato già da Kirchheimer. Quanto al “governo di partito”, gli esperimenti dei governi non-politici, ma affidati a personale sostanzialmente privo di appartenenze e esperienze politiche (Carlo Azeglio Ciampi; Lamberto Dini; Mario Monti; Mario Draghi), stanno a dimostrare che quel tipo di governo viene spesso messo in soffitta. La questione non è che i governi non-politici non sono eletti da nessuno/non escono dalle urne, come perseverando nell’errore costituzionale grave, affermano imperterriti alcune grandi firme e lo stesso Direttore del Corriere della Sera. La vera questione è che quei governi e molti loro ministri sono tecnicamente “irresponsabili”. Non hanno un elettorato di riferimento, non dovranno tornare a chiedere il voto agli elettori assumendosi la responsabilità di quello che hanno fatto, non hanno fatto, hanno fatto male. Anche in questo modo si svuotano le democrazie (6).

Note al testo

1 Otto Kirchheimer, “The Transformation of the Western European Party Systems”, in Joseph LaPalombara e Myron Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, Princeton, Princeton University Press, 1966, VIII-487 [pp. 179-200].

2 Il termine inglese è catch-all scorrettamente tradotto in italiano con pigliatutto, ma all significa tutti, mentre tutto può essere whole oppure everything. Però, il modello di partito che Kirchheimer delinea non vuole prendere tutte le risorse, tutto il potere. Quel tipo di partito cambia la sua organizzazione e il suo modo di fare politica per raggiungere il più alto numero possibile di elettori, a prescindere dalla loro appartenenza, origine, collocazione.

3 Seymour M. Lipset e Stein Rokkan, “Cleavage Structures, Party Systems, and Voter Alignments, in Seymour M. Lipset e Stein Rokkan (a cura di), Party Systems and Voter Alignments: Cross-National Perspectives, New York-London, The Free Press-CollierMacmillan, 1967, XVI-554 p. [pp. 1-64].

4 Richard S. Katz, “Party Government and Its Alternatives”, in Rudolph Wildenmnn (Ed), The Future of Party Government. Volume 2: Party Governments. European and American Experiences, a cura di Richard S. Katz,  Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1967, VIII- 312 p. [pp. 1-26].

5 Che è la tesi che ho argomentato in Gianfranco Pasquino, Italian Democracy. How It Works, London, Routledge, 2019, 234 p.

6 Questa inquietante prospettiva è presentata in chiave comparata da Peter Mair nel suo saggio uscito postumo, Ruling the Void: the Hollowing-out of Western Democracy, London – New York, Verso, 2014, 192 p. Traduzione italiana di Giovanni Ludovico Carlino: Peter Mair : Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016, XIII-166 p.  Mi riferisco in particolare al testo raccolto nel volume che raccoglie una selezione delle opere: Peter Mair, On parties, party systems, and democracy. Selected writings of Peter Mair, Colchester, ECPR Press, 2014, 666 p. [pp. 531-553]. 

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