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Democrazia Futura. Da che parte sta la Costituzione? 

Paolo Luigi de Cesare

Paolo Luigi De Cesare nell’odierno articolo scritto per Democrazia futura in un articolo dedicato a “La probabile governance della Rai al banco di prova del Titolo V e del nuovo Governo di centrodestra” si chiede provocatoriamente “Da che parte sta la Costituzione?”.
Per il poeta e ideatore di format di Cisternino, dopo la Legge Cinema, Le Film Commission e il Tax Credit, urge una riforma della Rai per tornare a rappresentare come era indicato nella prima Riforma del 1975 le Regioni e i territori: “La concessionaria del servizio pubblico appare in ogni caso in questi anni Venti come Il Media di Servizio Pubblico in Europa più indietro e più avaro di spazi di palinsesto e produzione decentrati alle Regioni”.

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Ricordiamo innanzitutto come recita l’Articolo 3 della nostra Costituzione:

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese“.

Nella Pandemia del 2020 è riemerso con forza il tema del “valore della capillarità geografica”, quell’insieme di presidii e servizi che ripagano socialmente i contribuenti; ed evitano le catastrofi. L’esercito dei medici di famiglia, per  esempio, una presenza attiva  in ogni luogo più remoto della Repubblica. Quel far coincidere efficacia della capillarità e razionalizzazione dei costi della Pubblica Amministrazione è stato da sempre un annoso tema italiano. Anche lo stesso PNRR di Mario Draghi rilancia con forza le “semplificazioni”, e il futuro prepara avvincenti nuove sfide per il Modello Sociale Europeo. Nel maggio 2021 partono I tavoli tematici di concertazione del governo con le associazioni dei Comuni, delle Province e delle Regioni. Finché si è parlato della velocizzazione digitale della burocrazia, è andato tutto bene. Chi può essere contrario? 

Quando invece si affronta il ruolo che la “Cosa Pubblica” deve avere nei Territori, per creare ed accelerare: opportunità di reddito, civiltà e coesione sociale, modelli economici e culturali sani, a quel punto la cosa si fa più complessa. Facciamo due passetti indietro.

La pandemia sopraggiunge nel 2020, dopo una lunga stagione di “tagli”, la famosa spending review, durante la quale si è spesso buttato il cosiddetto bambino con all’acqua sporca. E hanno preso vita norme basate su una vaga “presunzione di colpevolezza”. Alcuni tagli, come quelli del Cnel e delle Province, facevano parte dei quesiti del Referendum Costituzionale del 4 dicembre 2016. Ma prima di allora, il Governo Renzi, aveva varato tra il 2015 e il 2016 tre riforme destinate a incidere nel comparto culturale: la RAI, il Cinema e le Società Partecipate. Norme elaborate nel solco di una “guerra lampo”, tesa a modernizzare e rendere virtuosa la “Cosa pubblica”. Una moral suasion anche di quei vari, e creativi, modi di essere “Impresa di Servizio Pubblico” sparsi per la Penisola.

All’epoca è emersa una strana coincidenza. Quelle tre riforme vengono tutte scritte nella certezza matematica dell’approvazione delle otto modifiche Costituzionali. Una sorta insomma di atto finale, eroico e vincente, di quella che avrebbe dovuto essere una stagione di riforme. Quelle stesse riforme avevano infatti dei versanti applicativi, di grande potenziale. E si intravvedeva una convergenza tra: azione culturale, economia immateriale e coesione sociale nei Territori. Ma facevano una certa fatica ad essere funzionanti a prescindere dalla conferma delle prefigurate Riforme Costituzionali.

Di conseguenza, dopo la bocciatura del referendum – non essendo intervenuti ripristini né adeguamenti – sono trascorsi cinque anni di incertezze, disagi istituzionali, e interrogativi rimasti ancora senza risposta. E nessun governo ci ha messo mano sul serio. Oltretutto, piuttosto scarsa – per usare un eufemismo – è stata l’attenzione giornalistica e, più in generale, dell’opinione pubblica italiana, sulla vicenda.

La Legge Cinema,  le Film Commission e il Tax Credit

La Legge Cinema Franceschini è stata approvata solo tre settimane prima del 6 Dicembre 2016, in piena ed accesa campagna referendaria.

Essa impatta i temi del Titolo V e dell’Art.3 della Costituzione con i capitoli alle Film Commission ed al Tax Credit esterno.

Con quella Legge, per la prima volta, le Film Commission vengono riconosciute dalla Stato. Uno dei pochissimi casi nella Storia dove lo Stato riconosce un dispositivo istituzionale denominato in lingua Inglese.

Ma non va dimenticato che la traduzione di Commission è semplicissima: “Commissione”, ovvero  una aggregazione di scopo tra competenze di dipartimenti istituzionali diversi tra loro, perché l’arrivo di un set cinematografico implica quasi tutto: ospitalità, interruzione del traffico, sicurezza, prevenzione sanitaria, ordine pubblico ( se ci sono dei divi), occupazione di suolo pubblico, gestione fisica di cittadini e minori e relative liberatorie legali, contrattazione di contropartite per il marketing territoriale, opportunità formative eccetera.

Le Legge 220/2016 parla di un ruolo importante per il Cinema Italiano delle Film Commission  Regionali, e questo, come già detto in precedenti testi usciti su Democrazia Futura, ha portato in molti, tra gli addetti ai lavori,  a pensare che le Film Commission possono essere solo Regionali perché “lo dice lo Stato”.

Il 25 gennaio del 2018,  arriva il Decreto: “Disposizioni applicative in materia di Film Commission e indirizzi e parametri generali per la gestione di fondi di sostegno economico al settore audiovisivo, stanziati tramite le regioni o province autonome“. 

Anche qui viene conservato l’impianto della Legge 2016  che, ottimisticamente, prevedeva l’abolizione delle Province.

Nel frattempo il “grumo legislativo” tra: Decreto Del Rio e la conferma del vecchio testo della Costituzione, non si è ancora sciolto. Ma il Decreto 2018, pur parlando solo di Regioni e Province Autonome, introduce elementi molto più chiari, anche se timidi, che non lasciano dubbi.

Non è lo Stato che riconosce solo le  Film Commission Regionali; ma devono essere le Regioni e le Province Autonome a riconoscere le Film Commission. Quindi non vi è alcun divieto di Stato a dar vita a Film Commission comunali, provinciali, di Gruppi di Azione Locale (GAL), di Comunità montane o di Camere di Commercio territoriali.

Tanto è che il Testo, alla fine, propone un coordinamento nazionale, presso il Ministero. La Direzione generale Cinema del vecchio Mibact (oggi Ministero della Cultura – MIC), di cui però può far parte un solo rappresentante per Regione, anche se una Regione ha “più di una Film Commission”.

Il Decreto difetta in eccesso di ottimismo burocratico. Infatti non fissa un termine temporale entro il quale le Regioni e le Province Autonome debbano dotarsi di un regolamento; per il riconoscimento delle probabili, o preesistenti, Film Commission sub-regionali.

Tutti sappiamo che un Ente di Governo Locale non può procedere in nessuna azione se non vi è un regolamento apposito. Quindi ogni dichiarazione discrezionale, e soggettiva, di un Dirigente di Film Commission, o di un funzionario di Regione, circa la legittimità, o non legittimità, di una Film Commission sub-regionale non dovrebbe avere valore se non vi è un regolamento apposito.

Ma al di là dell’aspetto regolamentare, vi è un aspetto di opportunità economica, e di sostenibilità, che rende giustissima una pluralità di soggetti che il Ministero della Cultura fa bene a non ostacolare.

L’argomento che ha supportato, negli anni, tutte le iniziative per l’abolizione delle Province è stato lo spreco. Lo spreco come disvalore.  

Ma tutto dipende dell’etica che si ha, dall’impostazione che si dà, e dagli equilibri che si creano. Negli Stati Uniti ci sono i Comuni, le Contee, gli Stati federati e la Federazione degli Stati. E nessuno ha mai chiesto l’abolizione delle Contee.

Anche il “fattore capillarità” è un valore, e durante la gestione della pandemia ci si è lamentati del deficit dei presidi pubblici sui territori. In merito alle mission classiche, e americane, della Film Commission (che non sono quelle finanziarie) una agguerrita rete di Commission, nei piccoli borghi, aumenterebbe il potere attrattivo di una intera Regione. Non costringendo la stessa Regione ad esercitare quel potere attrattivo solo con masse di denaro a fondo perduto.

Soprattutto le produzioni americane, inglesi o indiane non sono interessate più di tanto agli incentivi finanziari (poche centinaia di migliaia di euro a fronte di percorsi burocratici faticosi). Esse pretendono invece rapidità decisionale, efficienza e la capacità di dialogare in inglese delle persone con cui si interagisce. Meglio un vigile urbano e dieci tirocinanti che parlano bene inglese, in ogni singolo Borgo, che 1 milione di euro in più, a fondo perduto,  del budget della Film Commission regionale. E per film italiani che spesso faticano ad oltrepassare i confini del Paese, con incassi nelle Sale che non superano, quando va bene, neanche un terzo del loro costo, il “fattore capillarità” diventa indispensabile risorsa anche per l’utilizzo dei Fondi Europei destinati alla “Coesione Sociale”, e alla riduzione del “divario”. In verità in Italia, sia i Fesr, i Fsc e lo stesso Recovery Fund dovrebbero stare più attenti affinché la contropartita prioritaria dell’investimento sia quella di emancipare le periferie dal “giogo” della Criminalità organizzata, dal disagio sociale estremo, dello spaccio devastante di sostanze psicotrope. dalle estorsioni, dalle minacce, e dal riciclaggio che mostra normalità. Se i fenomeni negativi, nelle periferie, invece di ridursi crescono, vuol dire che quella specifica Regione non sta utilizzando I Fondi Coesione nel modo più virtuoso.

Come ha dichiarato giustamente Giuseppe Pontecorvo vice questore aggiunto di Latina:  

“Se pensiamo di sconfiggere la mafia pontina solo con l’azione repressiva, abbiamo perso in partenza perché le mafie si cibano di cultura o sub cultura mafiosa“. 

Quindi il campo di battaglia vero è difficilissimo, è il “consenso culturale”.

Le mafie hanno una economia parallela che giorno dopo giorno si impossessa dell’economia normale, hanno un sistema militare parallelo ed una produzione culturale parallela.

Rispetto agli anni analogici di certi neomelodici, oggi è decisamente più facile produrre e mettere in circolazione videoclip musicali inneggiando ai leader  di quella mafia pontina citata da Pontecorvo. Non c’è soluzione senza il concorso di tutti. La Polizia, il volontariato, le parrocchie, o gli artisti portati nelle periferie, non bastano. 

Buono quindi il valore della “capillarità”, ma in alcuni casi, più che le Film Commission, la cui utilità resta comunque inclusa, occorrerebbero strumenti più multipli, che fanno prevenzione, che direzionino la libido esistenziale delle nuove generazioni verso le professioni della creatività. Saperi che poi verranno messi al servizio di neo redditi da lavoro basati sulla produzione green, l’economia circolare, l’e-commerce autogestito e di prossimità eccetera. E anche con l’aiuto di una Rai “rigenerata, autogestita, rivoluzionata e multi-polarizzata“. 

La Regione Lazio, più che la Regione Lombardia, presenta un forte squilibrio tra Capoluogo di Regione e le diverse province. Certo, Roma ha eventi Glamour di profilo internazionale come Los Angeles e Los Angeles ha periferie problematiche come Ostia e Latina, ma la California non riceve Fondi Europei per “ridurre il divario”. Né le più grandi emittenti televisive americane hanno obblighi di Servizio Pubblico. 

Il meccanismo del Tax Credit. Luci e ombre

Altro elemento potenzialmente utile al riequilibrio territoriale dell’Industria Culturale, e quindi a gratificare l’Art.3 della Costituzione, è il Tax Credit esterno del Cinema. Lo strumento che concede alle imprese esterne alla filiera audiovisiva un credito di imposta che permette loro di diventare coproduttori di un Film, avendo anche il vantaggio di una tassazione sugli utili del solo 5 per cento.

Questo permette di moltiplicare i soggetti finanziatori e investitori nell’audiovisivo in tutti i Territori. A prescindere dalle singole disponibilità o scelte strategiche delle Regione e dei loro Film Fund.

Nei fatti, a partire dal debutto del dispositivo con il Decreto Urbani, nel 2004, e come indicò una puntata di Report dell’aprile 2017,  si era sviluppato un fenomeno problematico di squilibrio tra vero capitale investito e presunto capitale documentato ai fini dei benefici del credito di imposta.

Protagonisti delle operazioni i produttori e le banche; principali utilizzatrici del Tax Credit esterno. Ma quando andò in onda Report il Ministero aveva gia preso provvedimenti mesi prima con le Legge Cinema 2016, portando lo sconto del Credito di imposta dal 40 per cento al 30 per cento.

Nel febbraio 2017 si è tornati al 40 per cento e sembra essere iniziata una nuova fase.

Urge nelle regioni una attività tesa all’incoraggiamento delle medie aziende territoriali “materiche”  ad investire in audiovisivo con il Tax Credit, il Product Placement e la Coproduzione, e con questo incoraggiamento il Servizio Pubblico potrebbe avere un ruolo decisivo, offrendo nel pacchetto vantaggi per chi fa la pubblicità sui propri canali.

Il Decreto Madia è le Fondazioni di Partecipazione.

Come già scritto in precedenti approfondimenti su Democrazia Futura, ben 16 delle 21 Film Commission Regionali italiane sono Fondazioni di Partecipazione.

Lo sviluppo negli anni delle “partecipate”, ovvero aziende con quota di partecipazione di un Ente Pubblico, poteva essere, a grandi linee, un modo di onorare l’Art.3 della Costituzione. Invece tali partecipate si sono rivelate moltiplicatrici anche di importanti quote di spreco e di problematici comportamenti delle leadership politiche.

Tanto è che il Decreto Madia della fine del 2015 ne ha imposto la semplificazione e la riduzione del numero con fusioni e soppressioni. Ma lo stesso Decreto non indicava sanzioni ed escludeva dal provvedimento le Fondazioni. Senza specificare se si intendeva solo le  Fondazioni tradizionali o anche quelle “di Partecipazione”.

Lo strumento della Fondazione di Partecipazione ha visto un grande utilizzo nel comparto dei Beni e dei Servizi Culturali, e sono esperienze che vanno studiate e monitorate, anche in prospettiva dei Distretti regionali delle Imprese Creative e Culturali ai quali l’Unione europea da molta importanza, ne è attivo da dieci anni uno in Puglia e potrebbero rappresentare una rigenerazione del Servizio Pubblico dai Territori.

Ma ai fini del Decreto Madia bisogna tener conto che le Fondazioni di Partecipazione si prestano più facilmente a svolgere la funzione di una “Partecipata mascherata”: per cui uno strumento che vanifica le mission del Decreto Madia, viene di fatto autorizzato dallo stesso Decreto.

Su questo fronte un ulteriore chiarimento andrebbe richiesto al nuovo Ministero della Cultura che eredita una definizione delle Film Commission come delle “Istituzioni”. Certo se per Istituzione si intendono gli organismi di Diritto Pubblico, la Fondazione di Partecipazione non è una istituzione perché è di Diritto Privato. Su questo fronte si continuano ad aspettare gli opportuni chiarimenti che ci auguriamo vengano sciolti dal prossimo ministro

La Riforma della RAI. Il Servizio Pubblico, è dello Stato o della Repubblica?

Nel dicembre del 2015 Il quotidiano La Repubblica dava notizia dell’avvenuta riforma della Rai affermando: 

 “Dalla RAI del Parlamento (e dei partiti) alla Rai del governo. La riforma della TV di Stato, che è ormai legge dopo i 162 sì del Senato, attribuisce a Palazzo Chigi e al ministero dell’Economia un’influenza decisiva sulla TV di Stato, maggiore che in passato”(…).

In poche righe viene ripetuto due volte “TV di Stato”; ed evidentemente è un linguaggio abituale, degli altri media, parlare di Viale Mazzini come della Televisione dello Stato centrale.

La Rai repubblicana ha,  fino ad oggi, sostanzialmente resistito alla nascita delle Regioni, nel 1970. Pur venendo incontro e assecondando con le varie riforme interne, i vari passaggi di ridefinizione del ruolo delle Regioni, i Referendum abrogativi del 1993  e del 1995, la Riforma del Titolo V del 2001, prigioniera delle sue stesse riforme di “Realismo regionale” poi abbandonate, del processo di democratizzazione tecnologica digitale promosso nel 2012, eccetera.

La concessionaria del servizio pubblico appare in ogni caso in questi anni Venti come Il Media di Servizio Pubblico in Europa più indietro e più avaro di spazi di palinsesto e produzione decentrati alle Regioni.

Una domanda, se pur fatale, non viene mai rivolta da nessuno, anche se è assolutamente naturale, logica e forse ingenua: Perché il Presidente è “della Repubblica”, e la televisione è “di Stato”?

La Legge di riforma della Governance Rai Legge n. 220 del 28 dicembre 2015 cosiddetta “Legge Renzi”

Dal 7 ottobre 2001 la Costituzione recita al Titolo V Art.114

“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. 

Quindi usare l’accezione “Radio-Televisione di Stato”, a prescindere dalle intenzioni,  individua una Rai che non sarebbe espressione dell’insieme ampio della Repubblica, come lo è il Presidente alloggiato al Quirinale, ma è espressione solo dello Stato, quindi parziale.

Si tratta di una parzialità totalmente “contro-natura”, visto il ventaglio molto ampio di “utilità” che la Rai potrebbe soddisfare. 

Come ampio è il ventaglio di compiti pubblici verso i cittadini o verso virtuosi e sociali ruoli privati, al cui servizio potrebbe mettersi l’Azienda Rai regionalmente più forte e strutturata. Se riteniamo dunque che tutta la collettività abbia bisogno di comunicazione, formazione e informazioni utili, la Rai non solo se ne può, ma direi se ne deve occupare.

E nell’insieme i risultati, sull’economia e sui cittadini, diventeranno sbalorditivamente più funzionali. Quella legge di Riforma, n. 220 del 28 dicembre 2015 nota come “Legge Renzi” ha concentrato l’attenzione politica sulla nomina governativa dell’Amministratore Delegato, ma pochi hanno evidenziato che essa venne scritta prima del Referendum.

E se alla consultazione avesse prevalso il “Si”, la Rai sarebbe diventata “Radiotelevisione della Repubblica”.

Infatti il nuovo Consiglio di Amministrazione aveva previsto, su sette membri,  due consiglieri scelti direttamente dalla Camera, e due dal Senato. E nella misura in cui il Senato sarebbe diventato luogo di rappresentanza degli Enti Locali, essi avrebbero ottenuto quasi un terzo del Consiglio stesso, e non è poco! 

Una Rai Servizio Pubblico della Repubblica, va da sé, tiene più unita la stessa Repubblica. Chi dice cosa è Repubblica e cosa non lo è, è solo la Costituzione.

Va però considerato che i pronunciamenti della Corte Costituzionale, in materia Rai, fanno sempre riferimento all’Articolo 21 della “Carta”. Quindi, da un lato la Rai sottoscrive il Contratto di Servizio con il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE),  dall’altro, le legittimità Costituzionali, del “Contratto di Servizio”, sono approvate solo sui temi della democrazia editoriale e dell’accesso alle informazioni. Ricordiamo che la Rai, insieme alle sue imprese, ha invece una vasta attività imprenditoriale e informativa con rimarcate implicazioni socio-industriali

Nella fattispecie la Rai:

Se, nella fattispecie, la RAI è un Servizio Pubblico della Repubblica, dovrebbe fare riferimento anche ad altri segmenti della Costituzione e non solo all’Articolo 21, o al Titolo V. Una “industria della Repubblica” non può assolutamente esimersi dall’avere  ad esempio come riferimento anche l’Articolo 3 comma 2 della “Carta”

 “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei Cittadini (…)”

La Repubblica rispetta il Diritto alla Proprietà Privata e la Libertà di Impresa, e non si possono quindi rimuovere gli ostacoli espropriando e socializzando i mezzi di produzione.

La Repubblica può allora assolvere ai compiti Costituzionali direttamente con la “propria industria”, oppure indirettamente, favorendo  soluzioni anticrisi; ovvero incentivando, per esempio, la cooperazione, l’autogestione e l’azionariato popolare. 

Nel solco di una “Rai Olivettiana”, uno dei cavalli di battaglia  dell’Associazione Infocivica editrice di questa rivista, nello specifico, un davvero riformato ed equo Media di Servizio Pubblico (Public Service Media) dovrebbe intervenire con iniziative produttive anche strutturali, per creare le condizioni per ridurre i divari sociali ed aumentare le opportunità, nella fattispecie guardando verso tre direzioni:

  1. Creare lavoro e reddito, li dove vi è un deficit di lavoro e di reddito produttivo.
  2. Moltiplicare in tutti i Territori del Paese la produzione e la invenzione di contenuti. Ed esportarli reinvestendo i profitti, per generare a loro volta altri profitti da reinvestire.
  3. Per creare lavoro li dove non c’è, diventare anche un impietoso “Global Competitor“.

Un po’ come fecero Enel ed Eni, che portarono l’indispensabilità di elettricità e carburanti nei luoghi più remoti della Paese. Ed è proprio questo riformato Servizio Pubblico che potrebbe far nascere la giusta connessione commerciale  tra: i  buoni mercati internazionali e tutta la buona creatività ovunque presente, da Bolzano a Lampedusa.

Impegnarsi per la coesione sociale come “editore”? Oppure  come “Industria”?

Nell’ottimo lavoro di ricerca dell’ufficio studi della Rai: Coesione Sociale – la sfida del Servizio Pubblico radiotelevisivo e multimediale[1] per sua stessa ammissione, l’Azienda mette in gioco il Servizio Pubblico, nella partita della coesione sociale.

Certo, ma solo nella sua qualità di “editore”. E non nella sua qualità di “industria”, che invece realizza coesione concretamente.

Infatti gli stessi autori dichiarano che la missione è:

“ (…) promuovere la coesione delle Comunità e del Paese parlando alle diverse componenti della società e stimolando la partecipazione  attiva e consapevole alla vita delle istituzioni nazionali, europee ed Internazionali. (…)”. 

Quindi la Rai vive sé stessa come un “Editore di Stato”, che supporta la grande missione fondativa dell’Unione Europea: la coesione sociale; ma solo  “promuovendo e parlando”. E non di più.

E lo fa in modalità software, attraverso programmi, redazioni, palinsesti, analisi e ricerche sociologiche. Avendo come epicentro  operativo sempre  le stesse sedi centrali, e riconoscendo le istituzioni solo a partire da quelle nazionali.

La Rai per interrogarsi sui propri eventuali doveri verso l’Art.3, deve prima diventare “della Repubblica” ed “entrare” nella Costituzione. La sua proprietà deve vedere come soci Comuni, Provincie e Regioni, o loro delegati.

Ma questo naturalmente può avvenire solo con una pressione politica esterna, che parte da una nuova consapevolezza politica.

L’ingombrante eredità simbolica della vecchia antenna di Stato dall’alto verso il basso

L’idea di Radiotelevisione di Stato si radicò, nell’inconscio collettivo, quando lo Stato deteneva il monopolio delle frequenze. Il monopolio di utilizzo delle frequenze fu poi superato, ma oggi le frequenze non hanno più il monopolio tecnico della radiodiffusione circolare di contenuti audiovisivi, sonori o testuali.

Se resiste il simbolico di una televisione associata plasticamente all’immagine di antenna, che irradia dall’alto verso il basso, in modo monodirezionale, ne consegue che anche l’agire per la “Coesione sociale” lo si intenda, purtroppo, dall’alto verso il basso.

Ed è così che si scatena l’effetto “cannocchiale dalla mongolfiera”, dove una brava inviata arriva in un angolo remoto di una Regione del Sud, per un piccolo scoop, già letto su un quotidiano nazionale. Ma la notizia è sottovalutata, o forse anche ignorata dalla redazione interessata della Testata Giornalistica Regionale (TGR), testata peraltro dotata di una direzione centralizzata con sede a Roma che coordina i giornali radio e i telegiornali realizzati nelle sedi regionali della Rai. 

Anche perché quell’angolo remoto aveva già consolidato un suo efficiente sistema mediatico orizzontale e di Comunità. Certo, tutto sbilanciato sui “Social Media”.

I quali, nel loro piccolo e non essendo regolati, contribuiscono sia alla coesione sociale,  sia alla barbarie  culturale e al cyber-bullismo. 

Chi è fuori dalla partita sono le sedi Regionali Rai che, come le Scuole Pubbliche, sono  troppo pubbliche, per avere lo sprint necessario. Non hanno le sfide competitive che tengono invece sveglia  la Rai nazionale, grazie al mercato pubblicitario e ai confronti tra share e ascolti. 

Se il Servizio Pubblico vuol agire a favore della “Coesione Sociale” non deve fare altro che acquisire come “suo” l’Art.3 della Costituzione, in coerenza e armonia con il Titolo V.

Nei confronti della Riforma del Titolo V vi è stato spesso un atteggiamento di supponenza, se non proprio paura, tra coloro che si occupano professionalmente di comunicazione. Si ritiene l’iniziativa del 2001 una specie di errore. L’errore invece è stato non proseguire, e non rafforzare la Riforma con “coerenza” democratica.  

Vi è tutto un habitat intellettuale, orientato a Sinistra, che teme l’autonomia differenziata delle Regioni del Nord.

Temono che il Titolo V diventi un’arma letale nelle mani di 15 Regioni di Centrodestra su 21.  

La vera sfida del Governo Meloni: rendere prioritaria l’autonomia differenziata applicandola anche alla riforma del servizio pubblico in ambito territoriale

 E’ dunque lecito chiedersi: raccoglierà il nascente governo patriottico di Giorgia Meloni la sfida dell’autonomia differenziata? E in quale versione? Quella della Lega che aveva voluto e stravinto i referendum regionali del Nord e che il 25 settembre è stata superata nelle proprie regioni da Fratelli d’Italia?

Oggi è del tutto prematuro sapere quali scelte faranno i coriacei difensori sovranisti dell’Unità della Patria. Ma non è chiaro nemmeno il comportamento della Lega di Matteo Salvini né quello dei governatori leghisti a capo delle grandi regioni dell’Italia Settentrionale. Una cosa è certa. Ci lascia molto perplessi il dato che quelli che si consideravano come i maggiori difensori delle autonomie abbiano sempre rinunciato al pressing per una naturale declinazione “regionalista” dei regolamenti e delle funzioni della Rai.  Sembrano conoscere molto bene la realtà dei Lander, ma di come funziona l’industria Culturale tedesca non fanno mai cenno. Nei programmi elettorali non troviamo nulla. Neanche il tentativo di dire quale Rai si vorrebbe nell’Autonomia Differenziata.

In realtà ciò non vale solo per la nuova maggioranza.

Anche nell’ambito dell’opposizione nessuna formazione politica si esprime chiaramente su quale assetto conferire alla Rai in generale. L’allargamento massiccio dei palinsesti regionali sarebbe una delle cose più semplici, immediate e facili da chiedere e realizzare, ma, stranamente, non fa parte delle priorità dei governatori leghisti: né di Massimiliano Fedriga, né di Luca Zaia e né di Attilio Fontana Se si tenta una interpretazione di questo comportamento emerge un preoccupante retroterra culturale che sorregge queste leadership.

L’ipotesi di un consorzio formato da 21 public service media in ogni Regione

Il nuovo Governo ha radicalizzato l’avversione verso l”Autonomia Differenziata” dei Governatori meridionali di Centrosinistra.

Il tormentone che insiste sui sacrosanti Livelli Essenziali delle Prestazioni (i famigerati LEP), garantiti in ogni regione, smaschera una preoccupazione di quelle leadership concentrata sul “sociosanitario” e l’erogazione dei Servizi; oscurando così le competenze di “Agente dello Sviluppo” che l’Unione europea ha assegnato alle Regioni. 

La drammatica crisi energetica in corso mentre scriviamo responsabilizza ancora di più i “Sistemi Locali”, e non può essere che la loro la missione, e cioè: “O le Comunità Energetiche o la Morte”. Quindi è necessaria in primo luogo una vera e propria “chiamata alle armi” di tutte le imprese locali di gas, luce e acqua, e delle superfici pubbliche per le rinnovabili “sole-vento”.  Altro che Livelli Essenziali delle Prestazioni!.

Consentitemi in conclusione di provare  a fare un gioco.

Immaginiamo che in Italia sia passata l’idea che il nuovo Public Service Media prenda la forma di un sano consorzio/mosaico di 21 aziende dei Media di Servizio Pubblico delle 21 Regioni. Queste aziende a loro volta sono dei Consorzi a cui partecipano tutti i soggetti pubblici e associativi privati che agiscono nell’ambito delle telecomunicazioni della realizzazione delle infrastrutture di  rete a banda larga e ultra larga, e tutti in stretta connessione con quelli che operano nell’ambito della produzione di contenuti. Ovvero le Film Commission, le Fondazioni liriche, i consorzi teatrali, e tutte le aziende delle utilities di acqua, gas, elettricità o binari ferroviari e strade locali che mettono le loro reti a disposizione della fibra ottica, consentendo altresì all’azienda del Media di servizio pubblici di usufruire anche del loro contatto-utente fidelizzato alla stregua di quanto dovrebbero disporre anche le aziende operanti nel settore dei rifiuti e dei trasporti co-governate dagli Enti Locali.

E immaginiamo che intorno all’azienda di servizio pubblico operante in ambito regionale si crei un circolo virtuoso e un hub con le reti delle biblioteche e dei musei, con i circuiti delle sale cinematografiche, con le farmacie e persino con gli stadi comunali.

Se tutto questo piano entrasse oggi nel programma di applicazione dell’Autonomia Differenziata, la Lega Nord avrebbe motivo di opporsi? Cosa direbbe ai cittadini per contrastarlo?

Tutto il mondo intellettuale e progressista del Sud che aderisce al Teorema di Gianfranco Viesti della “secessione dei ricchi” e i leader “neo-meridionalisti” come Giuseppe Conte, Giuseppe Provenzano, Michele Emiliano, Vincenzo De Luca eRoberto Speranza, avrebbero motivo di opporsi?

Forse che un progetto di questo tipo può essere considerato, per caso, contrario alla Costituzione? O creatore di ingiustizie fra Nord e Sud?

La necessaria utopia di una quota della Rai di proprietà dei cittadini

Probabilmente c’è un partito trasversale, molto forte, che vuole una Rai centralistica. Che garantisca alla comunicazione dei Leader una visibilità nazionale, estesa capillare e non distratta. Ma questo alla fine lo ha più garantito la privatissima La 7. E la cosa dovrebbe far riflettere.

Se il Parlamento, in tanti anni, non è riuscito ad esprimere una Legge Elettorale dei Cittadini, non sarà certo il Parlamento che darà al Servizio Pubblico la necessaria utopia di una “quota di proprietà” che sia più della “cittadinanza attiva” e meno dei Partiti. 

Certo la probabile piattaforma di “soggetti e dispositivi”, sui quali poggerebbe la necessaria utopia nei territori, non gode di ottima salute.

I metodi non sempre virtuosi dei partiti, il sistema delle cooptazioni clientelari, le spartizioni elettorali degli organigrammi e degli investimenti, non hanno di certo favorito ovunque un assetto moderno e dinamico delle partecipate e delle agenzie  culturali  degli Enti Locali.

Le Film Commission sono in piena crisi identitaria, indecise tra la crescita dei talenti e delle risorse locali, e l’attrazione di grandi star come testimonial del Brand turistico. Ed alcune sono attraversate da indagini della Corte dei Conti.

Le fondazioni Lirico Sinfoniche restano costose nel loro isolato corporativismo. La semplificazione delle partecipate, del Decreto Madia, ha esaurito la sua fase propulsiva modernizzatrice, perché, da un lato, non prevede sanzioni, da un altro, non è chiara sulla non applicazione del Decreto alle Fondazioni. Infatti, come già citato, non è specificato se si tratta solo delle classiche Fondazioni o se comprende anche le Fondazioni di Partecipazione. Ed anche al Dipartimento della Funzione Pubblica non sanno cosa rispondere.

A nostro parere i Dossier dell’Autonomia Differenziata, del Decreto Madia,  del ruolo della  Rai, e dell’Industria culturale, nelle Regioni, il nuovo Governo deve metterli nello stesso pacchetto.

Non sono ormai più temi separabili: non si può infatti procedere ad alcuna Autonomia senza completare/razionalizzare la Riforma delle Province e le Semplificazioni.

Occorre però chiarire se le Fondazioni di Partecipazione sono uno strumento utile o sono un espediente per aggirare la semplificazione. Vari studi sottolineano come l’istituto della Fondazione di Partecipazione non abbia ancora un profilo giuridico preciso.

Scrive a tal fine il Notaio Marco Maltoni in Forlì:

(…) il sintagma “fondazione di partecipazione” è una struttura organizzativa meta individuale a rilievo reale, connotata da tratti morfologici ricorrenti, ed in quanto tali ritenuti identificanti, ma priva di un referente normativo dedicato e puntuale (…) limiti entro i quali tale esperienza organizzativa può essere considerata legittima”.

Quindi si tratta di una esperienza “in progress”, senza una identità giuridica ancora precisa, che ne ha facilitato la libera proliferazione.

Un fenomeno a doppio effetto, da un lato ha dato vita ad una utile capillarità, dall’altro, si corre il rischio di trasferire, nelle Fondazioni di Partecipazione, proprio quelle “patologie” che, nelle Partecipate, il Decreto Madia voleva cancellare.

L’Interrogativo legittimo che ci si può porre è:

L’introduzione del regime della cosiddetta Autonomia Differenziata servirà anche alle Regioni a rendersi autonome dal Decreto Semplificazioni? Consentirà a chi opera nel territorio di affrancarsi del tutto dalla normativa delle Province? O dalla Leggi sulle Fondazioni Lirico Sinfoniche, le Film Commission e quelle sulla Formazione? Con l’aggravante poi di applicare nelle singole Regioni un’interpretazione regressiva e riduttiva di questi strumenti?

Una cosa è sicura. Per evitare ciò, questi strumenti devono avere un assetto normativo meno incerto e più razionale. Facciamo un esempio. Consideriamo il programma di Autonomia Differenziata della Regione Veneto. Esso allude ad una cessione al Ministero della Cultura del 100 per cento dei costi della Biennale di Venezia. Il che pone l’interrogativo legittimo: quali tagli e quali prelievi che sarà costretto a fare il Ministero per continuare a garantire un finanziamento alla Biennale?

Conclusione. Per una Rai riformata al servizio della Repubblica e dalla parte della Costituzione

In sintesi direi che ai Media di Servizio Pubblico conviene di più sporcarsi le mani nella cucina dei Territori. Sia per pelare patate che per fare ricette sopraffine.

La Rai deve uscire dai panni della vecchia radiotelevisione di Stato. Non deve continuare a investire tutte le sue carte solo sulla competitività nell’agone dell’audience nazionale, o affiancare il Ministero nella manutenzione del prestigio del Cinema Italiano. 

Una nuova Rai riformata deve immaginarsi di più come la Walt Disney. Ovvero, accendere le videocamere e girare film, ma anche realizzare i “Parchi Disneyland” e produrre in proprio, o quasi, le stesse leccornie food che li si vendono. Come se fosse davvero “Mamma Rai”, ovvero tornasse ad essere come nel passato un punto di riferimento per tutte le famiglie italiane di oggi sia per quelle tradizionali sia per quelle dei nuovi italiani a prescindere dalla loro collocazione geografica e dalla loro professione di fede, nel rispetto di tutte le minoranze, nessuna esclusa.

Oggi il Consiglio di Amministrazione della Rai ridotto a sette Consiglieri e con il Senato che rimane immutato nelle sue prerogative, ha una costituzionalità incerta. Non rappresenta più i Territori[2], non è Repubblica, non viene votato come per il Quirinale.

Bisogna provvedere a riformarlo! Il Servizio Pubblico diventerà l’Agente Speciale in missione nelle Regioni e al servizio di sua Maestà, ovvero la  “Buona Costituzione”. Ne varrebbe davvero la pena !


[1] Rai Libri, 2021. Si veda la recensione di Andrea Melodia, “Coesione sociale. La sfida del servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale, Democrazia futura, I (1) gennaio 2021, pp. 215-218

[2] Va ricordato che la Legge di riforma della Rai del 1975 prevedeva la presenza nel Consiglio di Amministrazione di Consiglieri eletti dalle Regioni. Come  effettivamente avvenne ma nelle prime consigliature del dopo Riforma sino a quando con la “nazionalizzazione della terza rete” e il suo affidamento a personalità indicate dal Partito Comunista Italiano, si è passati a nomine di esclusiva competenza del Parlamento e per quanto riguarda il Direttore Generale, da parte dell’azionista.

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