Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico rievoca per Democrazia futura il romanzo di “Cormac McCarthy, Oltre il confine (1994)” a poche settimane dalla scomparsa dello scrittore, drammaturgo e sceneggiatore americano. “Cosa c’è oltre il confine? C’è il cieco e inarrestabile perseguimento di uno scopo, che atterrisce per la sua grandezza ogni lettore. Soprattutto perché non ne viene data spiegazione, perché la potenza dell’opera è la sua non moralità, la sua imparzialità, la sua superiorità rispetto alla passione. C’è l’amore fraterno che si dimostra con i fatti e si copre con un dialogo scarno e quasi sempre brusco, tant’è che pare manchino delle battute, delle righe, delle parole, il posto delle quali è preso dal silenzio e dall’azione, dal movimento, dalla perseveranza con cui un uomo cerca le ossa del proprio fratello nella terra, le raccoglie in una coperta per riportarle al di qua del confine. E solo in quel momento, alla fine del romanzo, si capisce che quel confine non è solo geografico, politico, linguistico, ma è un confine del cuore, della carne, del significato della parola famiglia”.
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È difficile per me pensare a questo testo come a un romanzo: inspiegabilmente, lo vedo semplicemente come la storia di Billy e Boyd, i giovani fratelli che stanno in silenzi dentro le sue pagine. In una sola notte, due ragazzi di tredici e diciassette anni passano dall’essere due figli di una normale famiglia di allevatori americana, al diventare due piccole persone, sole in una terra di confine impietosa ma, a suo modo, anche inaspettatamente accogliente – perché nel Messico che è quell’oltre il confine, c’è il bandito che calpesta le ossa dei morti, ma anche la vecchia donna che sfama e cura i viandanti.
Sarebbe imprudente raccontarvi la trama, anche nei soli suoi passaggi fondamentali, perché dovete viverne ogni momento, dovete sciogliere ogni nodo della narrazione, che vi procurerà un altrettanto stretto nodo alla gola.
Sappiate che ogni cosa, nella vicenda, accadrà con la massima naturalezza e senza preavviso: potrete trovarvi a passare da una tranquilla chiacchierata a cavallo ad un proiettile nella schiena, con la stessa facilità con cui voltate una pagina. Non c’è una costruzione narrativa che passi da un climax, non c’è la gradualità di chi ha preparato un testo che il lettore si gode piano piano come se gli fosse raccontato da un amico.
No: McCarthy non è vostro amico, perché vi farà soffrire e perché tutto ciò che accade ai due fratelli vi entrerà negli occhi come se ci foste voi, a cavalcare nella gelida notte delle sierras messicane, o nei guadi insidiosi del Bavispe, o di fronte a vaqueros armati e poco inclini a riconoscere un diritto di proprietà.
Questa letteratura vi provocherà un fastidioso senso di impotenza di fronte alla natura orografica e umana che scorre nel testo. Incontrerete, assieme a Billy e Boyd, misteriosi proprietari terrieri, oscuri cavalieri, vecchi messicani sull’orlo della pazzia, povere donne indie ripiegate sulla solitudine.
Avvicinandovi alla conclusione dei queste trecento rapidissime pagine, ogni svolta si fa aspra per i protagonisti, ogni decisione pericolosa, ogni incontro fatale.
La gola dei superstiti si asciuga, non c’è più acqua nemmeno per le lacrime. Tutto sembra portare a una caduta, a una implosione, a una ritirata. A un dolore che si sopporta con una insostenibile dignità e con uno splendido silenzio.
Spariscono gli uomini, si disperdono gli animali, rimane solo la terra che ferma il sangue.
Scompare il soggetto nelle frasi, sembra superfluo nel racconto di quell’avventura che non vorremmo vivere ma in cui, sottilmente, Cormac ci ha ormai attirato e dalla quale usciamo con parsimonia e disorientamento.
Cosa c’è oltre il confine?
Cosa c’è oltre il confine? C’è il cieco e inarrestabile perseguimento di uno scopo, che atterrisce per la sua grandezza ogni lettore. Soprattutto perché non ne viene data spiegazione, perché la potenza dell’opera è la sua non moralità, la sua imparzialità, la sua superiorità rispetto alla passione.
C’è l’amore fraterno che si dimostra con i fatti e si copre con un dialogo scarno e quasi sempre brusco, tant’è che pare manchino delle battute, delle righe, delle parole, il posto delle quali è preso dal silenzio e dall’azione, dal movimento, dalla perseveranza con cui un uomo cerca le ossa del proprio fratello nella terra, le raccoglie in una coperta per riportarle al di qua del confine.E solo in quel momento, alla fine del romanzo, si capisce che quel confine non è solo geografico, politico, linguistico, ma è un confine del cuore, della carne, del significato della parola famiglia.