Pubblichiamo di seguito il contributo di Raffaele Barberio, Giornalista ed esperto di comunicazioni elettroniche, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.
Lo stato critico della democrazia nel mondo
Entro il 2050, la popolazione crescerà sino a 9,8 miliardi di persone, con un incremento del 31% rispetto ai 7,5 miliardi di persone di oggi. Viene da chiedersi come vivrà questa immensa moltitudine? Con quali regimi politici? Con quale livello di consapevolezza? Quesiti che ci invitano a considerare il futuro delle nostre democrazie, a partire dall’osservazione dei fenomeni attuali, per capire se siano entrate in crisi e se il loro futuro sia effettivamente incerto.
La stessa pandemia globale, che sta lasciando segni più pesanti di quanto non ci si aspettasse, è capitata in un momento cruciale delle nostre democrazie. Secondo alcuni esperti le misure del lockdown – dalla chiusura totale al tracciamento – hanno solo aggravato la loro crisi a livello mondiale, dal momento che i vari rapporti pubblicati sul tema indicano come lo stato di salute del sistema democratico fosse già fortemente debilitato.
Il recente Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit, condotto su 167 paesi, attesta ancora una volta come lo stato della democrazia nel mondo sia sempre più critico. Quattro le categorie usate per la classificazione: a) democrazie complete, b) democrazie incomplete, c) regimi ibridi, d) regimi autoritari. Quest’anno solo 22 Paesi sono stati classificati, a livello globale, come “democrazie complete” (con l’Italia solo al 35° posto). Sul podio tre Paesi del nord Europa come Norvegia, Islanda e Svezia. Ma va considerato che appena il 5,7% della popolazione mondiale vive in questi Paesi, mentre il 35,6% vive in Stati autoritari (tra cui Cina, Russia, Iran, Libia).
In un recente sondaggio condotto dall’americana Pew Research in 27 Paesi, la metà degli intervistati si dichiarava non soddisfatta di come la democrazia sta funzionando nei loro Paesi. Un malcontento legato alle preoccupazioni dell’economia, ai diritti individuali, ai galoppanti privilegi delle élite che recentemente hanno fatto emergere leader, partiti e movimenti anti-establishment, sia a destra che a sinistra, che hanno sfidato le norme fondamentali e le istituzioni delle democrazie liberali.
Ma il problema è anche legato al quesito su chi detiene effettivamente il potere. Sono passati più di dieci anni da quando il sociologo Colin Crouch parlò di Post-democrazia, riferendosi al fatto che i nostri sistemi politici, pur essendo basati su norme e istituzioni democratiche, di fatto seguano i dettami del mercato globale delle grandi lobby e dai sistemi di comunicazione. Una grande Connectography – per citare un altrettanto importante libro più recente dell’analista Parag Khanna – che svuoterebbe il nucleo della democrazia, lasciando agli elettori solo “la carcassa vuota di un liberalismo passivo”.
Un’altra ricerca fatta su un campione americano per valutare la propensione al voto dei millennials e condotta a più riprese dai professori R.S Foa (University of Melbourne) e Yascha Mounk (Harvard University), rilevò nel 1995 che solo il 16% dei giovani compresi tra i 16 e i 24 anni esprimeva criticità e credeva che la democrazia non fosse il sistema migliore per governare il Paese; ma questa percentuale è cresciuta al 24 % appena nel 2011. Nella stessa ricerca, gli autori registravano come la fiducia verso le istituzioni fosse ovunque decisamente in declino, in eguale misura sia in USA che in Europa occidentale. Per capire quale sarà il futuro delle nostre democrazie, è necessario guardarsi indietro e considerare quale sia stata la linea evolutiva nel corso del tempo e quanto gli accadimenti attuali si stanno discostando dalle aspettative. Le prime due decadi di questo XXI secolo stanno infatti proiettando un’ombra lunga su tutto il mondo occidentale, del tutto in controtendenza rispetto alle convinzioni che avevano caratterizzato la fine del secolo scorso sul futuro delle democrazie.
Dalla fine della guerra fredda alla nuova distribuzione globale del potere e della ricchezza nel Ventunesimo secolo: dati e sovranità tecnologica
La fine della Guerra Fredda con la vittoria dell’Occidente sui regimi socialisti, l’implosione dell’Unione Sovietica e dall’altra parte del mondo i martiri di Piazza Tienanmen, furono tutti eventi che spinsero anche gli osservatori più attenti a immaginare come concreta la prospettiva che Fukuyama indicò in quegli anni come “la fine della Storia”, ovvero la convinzione che l’evoluzione dell’umanità fosse arrivata ad un ragionevole capolinea e che il compito di tutti fosse orientato alla necessità di gestire al meglio un mondo non più dilaniato dalle contrapposizioni ideologiche tra capitalismo e socialismo, perché ormai il sistema vincente si presentava apparentemente senza alternative. Il perimetro del cambiamento sembrava definitivamente addomesticato ad una sorta di universalizzazione della democrazia occidentale e ad una vittoria definitiva dell’economia di mercato. E il nuovo secolo avrebbe dovuto essere la naturale continuazione di quello precedente con un trionfo dell’Occidente che avrebbe di fatto imposto il proprio sistema.
Così invece non è stato. L’ordine globale sta spostando in questi anni il centro di gravità dal Nord Atlantico al Pacifico, dall’Europa all’est asiatico. Gli USA hanno visto ridimensionarsi la leadership globale di cui godevano, anche facendo formali passi indietro da molti organismi internazionali. La Cina, protagonista negli ultimi tre decenni di una straordinaria trasformazione economica, tecnologica e politica, si è ampiamente posizionata come l’unico sfidante alla egemonia statunitense del Novecento.
Ma qual è il terreno di scontro e cosa è cambiato rispetto al recente passato? Il secolo scorso ha marcato la storia con conflitti bellici senza precedenti. Negli anni della Guerra Fredda, il metodo vincente fu quello della deterrenza. E anche dopo il crollo del muro di Berlino, la Russia ha speso l’ultimo decennio del secolo scorso continuando a scommettere, come il vecchio regime sovietico, sull’opzione nucleare. Tuttavia il XXI secolo ha inaspettatamente indicato come il potere sul pianeta non sarà dato dall’armamentario nucleare di questa o quella nazione, ma dall’uso di un ampio spettro di soluzioni tecnologiche digitali e dal trattamento dei dati. I Paesi incapaci di stare in prima linea nelle soluzioni di Intelligenza Artificiale (IA) o nella raccolta ed elaborazione di Big Data saranno inevitabilmente condannati ad essere dipendenti o addirittura controllati da altre potenze. Dati e sovranità tecnologica, non testate nucleari, determineranno la distribuzione globale del potere e della ricchezza nel corso di questo secolo. E nelle società aperte, dati e sovranità tecnologica decideranno il futuro delle democrazie.
Il lento ingresso dell’Europa nella nuova competizione globale fra Stati Uniti e Cina
L’affermazione dei processi di digitalizzazione dei mercati, la nascita delle piattaforme, la crescita di centri di sviluppo industriale di tecnologie digitali hanno visto in prima linea innanzitutto gli USA e successivamente la Cina. Negli ultimi decenni si è sviluppata una grande competizione globale tra le due potenze che gareggiano per difendere o affermare il dominio su questa o quella tecnologia (5G, IA, Big Data, Machine Learning ecc.). Tutte condizioni di vantaggio create dalla persistenza di politiche votate alla corsa agli armamenti, sia da parte USA (attiva negli ultimi settant’anni in tutti i conflitti regionali del mondo) che da parte della Cina (che sugli investimenti militari ha costruito buona parte del suo successo economico degli ultimi tre decenni). E non è un caso se un’altra nazione ad alto tasso di sviluppo tecnologico sia Israele, un paese perennemente in stato di guerra da settanta anni. Un contesto di riferimento che pone più di un problema all’Europa, il cui ingresso nel XXI secolo è stato debole e non accompagnato dall’integrazione dei Paesi dell’Unione, nonostante l’espansione ad Est.
L’Europa, che non ha avuto guerre dopo il secondo conflitto mondiale, non ha piattaforme digitali destinate alla platea mondiale, è indietro nella corsa globale all’Intelligenza Artificiale e nelle applicazioni e tecnologie di rete del 5G, né ha strutture capaci di assicurare servizi Cloud di qualità avanzata e competitivi a livello mondiale, con caratteristiche simili a quelli che possono invece vantare le società tentacolari della Silicon Valley o della Cina. Il modo in cui l’Europa proverà ad essere competitiva in Intelligenza Artificiale, Big Data e tecnologie correlate, determinerà il posizionamento del nostro continente nel XXI secolo. Resta da vedere quanto un nuovo posizionamento internazionale aiuti a preservare o a sviluppare una ulteriore crescita delle democrazie europee. Ma i cambiamenti della nostra epoca potrebbero essere ben più problematici e strutturali della semplice affermazione di un regime politico.
Quale futuro rapporto fra governati e governanti, eletti ed elettori in questo nuovo mondo digitale?
Il rischio di un’estensione globale del modello cinese
Il quesito di fondo è se e come il nuovo mondo digitale trasformerà in modo irreversibile i sistemi politici democratici, il rapporto tra governati e governanti, tra eletti ed elettori.
Nel 1955 Isaac Asimov fece il famoso esperimento di democrazia elettronica in cui un singolo cittadino, selezionato per rappresentare l’intera popolazione, rispondeva alle domande generate da un computer, il Multivac, che elaborò le risposte calcolando il risultato delle elezioni, senza che queste fossero mai state fatte. L’esperimento immaginato da Asimov indicava che ogni potere ha una dimensione centralizzata, ma ha bisogno di sapere costantemente cosa accade alla sua base e attraverso i vari settori della società. E questo vale, inevitabilmente, anche per i regimi totalitari che non consentono elezioni.
Prendiamo il caso della Cina. Come si fa a governare un paese cosi popoloso che ha un quinto della popolazione del globo, con una economia ed una società sempre più complesse, se non permetti il confronto pubblico, l’attivismo civile e i riscontri elettorali? In un contesto del genere, come si raccolgono e scelgono le informazioni necessarie per prendere ogni decisione? E come fa un governo, che non consente alcuna partecipazione ai cittadini, a riscuotere fiducia e atteggiamenti non ostili dall’opinione pubblica, senza dover militarizzare strade, scuole e fabbriche?
Hu Jintao, leader cinese dal 2002 al 2012 aveva provato a immettere elementi di parziale apertura democratica, consentendo manifestazioni che consentissero di entrare in contatto con la base dell’opinione pubblica. Il successore e attuale guida cinese, Xi Jiping ha invertito i termini, sostituendo alla strategia di ascolto e risposta nei confronti dell’opinione pubblica del suo predecessore con un mix di soluzioni comprensive di apparecchiature di sorveglianza video, intelligenza artificiale e Big data, capace di controllare in dettaglio l’intero complesso della popolazione.
È interessante notare come in pochi anni, anche le élite occidentali ed i rappresentanti di consolidati sistemi nazionali democratici abbiano assunto il modello cinese come soluzione propria, con l’obiettivo di registrare gli orientamenti dell’opinione pubblica, prevederli, infine, se necessario, alterarli con l’uso di soluzioni digitali. È esattamente quello che è successo in molti paesi in occasione di confronti elettorali rilevanti, come nel caso delle presidenziali vinte da Trump o del referendum britannico che ha decretato la Brexit. Due casi emblematici in cui strumenti di controllo di rete hanno alterato i risultati delle consultazioni elettorali. Assieme a tali casi, emergono inoltre ulteriori tendenze di forte indebolimento delle democrazie. In molti paesi democratici si afferma e vince il populismo, l’instabilità, la precarietà del sistema democratico, unita alla forte personalizzazione delle leadership che inghiottono spesso il ruolo delle istituzioni e del loro funzionamento autonomo.
Sorvegliare i cittadini in nome del presunto interesse della nazione ieri e oggi.
Come è cambiata nel tempo negli Stati Uniti l’attività di intelligence in base agli strumenti tecnologici disposizione
La storia ci ha regalato in passato Stati totalitari dove gli individui erano controllati con sistemi di sorveglianza in nome di un presunto superiore interesse della nazione.
Oggi il controllo sui cittadini può essere davvero millimetrico non solo sui movimenti e gusti delle persone (con sistemi digitali esterni over-the-skin), ma anche sui sistemi di dati organici dei cittadini (grazie a sistemi del tipo under-the-skin). La cyber-sorveglianza sta ormai diventando una caratteristica intrinseca di tutti i sistemi politici sia autoritari che democratici, sia pure con sfumature diverse. Controllo e sorveglianza hanno radici più antiche dell’onda digitale degli ultimi decenni. E alla loro base c’è sempre la raccolta di dati.
Certo agli albori si trattava di servizi di intelligence primordiali, che usavano le stesse modalità di raccolta sia contro il nemico interno che esterno. Per tutto il secolo scorso e qualcosa di più, gli Stati Uniti hanno fatto uso di ogni tecnica clandestina utile all’esercizio del loro potere globale, dalla pacificazione delle Filippine nel 1898 alle recenti pratiche di sorveglianza cyber ai danni degli alleati europei.
Per oltre un secolo, sono sempre stati attenti a sviluppare ogni soluzione nel settore, costruendo il primo ceppo di sistema di intelligence, ad uso interno ed internazionale, grazie al ricorso ai primi strumenti tecnologici come il telefono, il telegrafo, sino ai sistemi di proto-calcolo. Quando nel 1917 gli Usa entrarono in guerra, non disponevano ancora di un servizio di intelligence e fu dato incarico al capitano Ralph Van Deman di costituirne uno. Con uno staff di 1.700 persone e un circuito di 350 mila cittadini operativi e vicini al servizio la sua Divisione di intelligence lanciò la prima campagna di sorveglianza intensiva sui cosiddetti sovversivi che minacciavano, attraverso i flussi migratori dall’Europa, di importare il regime comunista. Negli anni Cinquanta, l’allora candidato al Senato Richard Nixon usò i dossier di Van Deman per calunniare il candidato avverso, iniziando il percorso che poli lo portò alla presidenza. Negli anni Cinquanta, Washington ha condotto 170 operazioni clandestine in 48 nazioni e nei 50 anni successivi, la CIA manipolò segretamente 80 elezioni in giro per il mondo, con una via d’uscita in caso di mancato successo: organizzare l’intervento dei militari, come è accaduto in almeno 30 nazioni tra il 1958 e il 1975.
In base ad un vecchio trattato sottoscritto segretamente nel 1946 tra USA e UK, 1946, la National Security Agency (NSA) e la controparte britannica GCHQ costruirono negli anni Sessanta un sistema di sorveglianza globale, attraverso la cosiddetta Five Eyes, la coalizione che comprendeva Usa, UK, Nuova Zelanda, Canada e Australia, noto come il programma Echelon. Già con l’amministrazione Obama nel 2009, la NSA aveva organizzato il coordinamento di super computer e “data farm” per raccogliere miliardi di informazioni capaci di profilare finemente anche singoli individui in tutto il mondo. Nel 2013 il New York Times riportò che vi erano controlli millimetrici su un target speciale di almeno un migliaio di persone tra USA e UK e che lo stesso trattamento era riservato ai leader di decine di nazioni, compresi quelli di paesi importanti come Francia, Germania, Italia e Spagna in Europa. Uguale trattamento fu riservato ai leader del G20 Summit del 2010 a Toronto e nulla fa escludere che la circostanza non sia stata riproposta ai precedenti incontri e a quelli successivi. Tre anni dopo scoppiò lo scandalo Snowden e il resto è cronaca di questi giorni.
Nel frattempo, a dimostrazione di quanto il fenomeno sia globale, è scoppiata la grana delle intromissioni russe nelle elezioni americane che hanno portato Trump alla Casa Bianca, mentre gli ultimi anni hanno registrato la straordinaria potenza di fuoco di cyber-sorveglianza della Cina. Ma il problema non sono solo le centinaia di milioni di telecamere che controllano le strade delle megalopoli cinesi. Tutte le più grandi metropoli del mondo usano ormai apertamente o nascostamente sistemi di videosorveglianza. E così in appena due decadi, le tecnologie digitali e internet sono passate da un contesto eccitante di sogni della nuova era alla consapevolezza di un mondo profondamente inquietante.
La Rete, da panacea libertaria antiautoritaria autonoma e decentralizzata, a strumento di potere per autorità centralizzate.
Le nuove oligarchie digitali e le minacce ai capisaldi della democrazia
Agli inizia internet nacque come una sorta di panacea libertaria, uno strumento decentralizzato anche nella struttura tecnologica, proprio per combattere il potere di un unico punto centrale di controllo, eppure oggi si è trasformato in una tecnologia capace, più di qualunque altra, di assicurare potere smisurato alle autorità centralizzate.
L’internet di quegli anni era un monumento al neo liberismo. Sembrava che la nuova rete fosse intrinsecamente a protezione dell’autonomia personale. Avere nelle proprie mani strumenti così possenti per arrivare ovunque sembrava magico. I governi facilitarono quello sviluppo, come portatore di crescita commerciale, di innovazione digitale, di nuova imprenditorialità, capace di creare scambi, nuovo benessere e nuove comunità di interessi.
Oggi l’economia digitale è tutt’altra cosa.
Amazon, Facebook, Google, Apple e Microsoft controllano con le loro piattaforme ogni snodo dell’ecosistema digitale, dominando alcuni colli di bottiglia determinanti, come quelli del commercio e delle news. Dal libero mercato si è passati a poche e potentissime oligarchie digitali che controllano il mercato e che possono crescere solo valorizzando i principi del monopolio nei settori di applicazione delle loro operazioni. La rivoluzione digitale, se mal orientata, minaccia di affondare valori universali considerati come irrinunciabili: le libertà personali, il confronto delle idee, le conoscenze affidabili, la stessa competizione dei mercati aperti, in una parola i capisaldi della democrazia.
Il punto è che quanto è successo non è frutto di un percorso autonomo delle tecnologie e del loro sviluppo, né siamo inciampati distrattamente in un universo alternativo e distopico, un Second Life della tirannia. Il regime tecnologico che orienta il nostro vissuto quotidiano, quantomeno negli aspetti distopici, è frutto di una serie di scelte che hanno ignorato le lezioni del passato e hanno consentito la crescita smisurata e non regolata di immensi poteri privati, quelli di poche oligarchie mondiali dell’economia digitale che oggi esprimono un potere senza precedenti. Ma alla base di tale cambiamento vi sono aspetti di tipo sociale ed economico, legati ai cambiamenti strutturali della società e alle trasformazioni nell’esercizio del potere e alla rappresentanza politica in quanto tale.
L’emarginazione delle classi medie e le rivolte contro una élite “che non ha bisogno di popolo”
Oggi non esiste più l’uomo medio, la persona media capace di rappresentare una società in vitro. Nello scorso secolo una delle preoccupazioni maggiori dei sistemi democratici, per rafforzare e rappresentare la società e legittimare la sua struttura di rappresentanza politica, è stata quella di porre al centro di ogni considerazione quel cosiddetto uomo medio, con i suoi bisogni e le sue esigenze è stato il linguaggio condiviso tra politica e cittadini.
Parallelamente, le rivoluzioni del secolo scorso videro come protagonisti operai e contadini, consapevoli del loro peso nell’economia e altrettanto consapevoli di quanto questa rilevanza di ruolo non prevedesse alcuna partecipazione all’esercizio del potere. Un’esclusione da imputare per intero alle classi dirigenti che diventavano obiettivo da abbattere attraverso una rivoluzione. Non a caso, mentre nelle democrazie del Novecento i poster della pubblicità riproducevano donne e uomini delle classi medie con i loro elettrodomestici o con la loro auto appena acquistata, la propaganda comunista metteva sui manifesti gli operai delle fabbriche o i contadini delle campagne.
E a ben vedere, le classi medie del secolo scorso erano ben consapevoli del proprio ruolo, che esercitavano sia per il loro posizionamento nell’economia che nell’assegnazione dei ruoli di potere attraverso il voto da esse espresso.
Oggi tutto ciò viene ribaltato.
Il modello della persona media, del rappresentante della classe media appare del tutto irrilevante. E i termini oggi più usati come globalizzazione, blockchain, IA, machine learning, ingegneria genetica, non lo sfiorano neanche. È escluso anche da quelle soglie avanzate di dibattito pubblico. Come ha sottolineato Harari, forse le rivoluzioni del XXI secolo (a partire dalle rivolte populiste del momento) vengono e verranno fatte non contro una élite che sfrutta il popolo, ma contro una élite che “non ha bisogno più del popolo”. E potrebbe anzi essere una battaglia persa in partenza dal momento che è molto più difficile combattere contro l’irrilevanza, che contro lo sfruttamento.
Le cosiddette classi medie del XXI secolo sanno di essere del tutto emarginate, di aver perso molto del loro valore economico e con esso molta consistenza del loro valore politico. E spesso è questo il primo passo per un graduale passaggio di potere dal sistema decentralizzato delle democrazie al sistema centralizzato delle oligarchie.
Ma attenzione, le stesse tecnologie che rendono queste persone economicamente irrilevanti, possono trasformarle facilmente in oggetti di monitoraggio e controllo individualizzato, ai fini di un controllo sociale sui loro comportamenti. Molti paesi nel mondo, compresi alcuni paesi a democrazia avanzata stanno costruendo sistemi di controllo senza precedenti e saranno tutti sistemi gestiti in modo sofisticato con le più avanzate soluzioni di Intelligenza Artificiale.
In molti casi le democrazie salvaguarderanno sì il voto universale e libere elezioni, ma cresceranno esponenzialmente le modalità che consentono di alterare le emozioni umane attraverso la gestione dei dati precedentemente raccolti e così il gioco democratico rischia di trasformarsi in un teatrino dove vince chi riesce più di altri a manipolare il sentire dell’opinione pubblica.
Quali differenze rimangono tra sistemi politici contrapposti?
Dal conflitto sul trattamento dei dati e la trasparenza nel trattamento delle informazioni ai nuovi sistemi centralizzati di intelligenza artificiale
Resta da vedere quindi quali siano oggi le differenze sostanziali tra sistemi politici contrapposti.
In genere siamo portati a considerare i conflitti tra le democrazie e i regimi dittatoriali in base a ragioni di carattere etico o morale, di rispetto della persona o di difesa di valori universali, tutte valutazioni fondate, ma che non considerano come il conflitto tra i due sistemi sia in effetti il conflitto tra due differenti modalità di trattamento dei dati. Il conflitto nel secolo scorso tra democrazie e dittature è stato, a ben vedere, un conflitto tra due differenti sistemi di trattamento dati. Nel XX secolo le democrazie hanno avuto, in considerazione delle tecnologie allora disponibili, una forte espansione grazie alla loro capacità di produrre dati e poterli elaborare in modo coerente.
Le democrazie distribuiscono tradizionalmente sino alla periferia il potere di trattare le informazioni e produrre decisioni tra molti soggetti e istituzioni, mentre le dittature concentrano le informazioni ed il potere in poche mani ovvero in un solo luogo. Nel secolo scorso era del tutto inefficiente concentrare tutte le informazioni centralmente, perché nessuno aveva le possibilità tecniche di elaborarle in modo coerente. Ciò spiega perché l’URSS faceva quasi sempre scelte inefficienti che consegnarono il primato agli USA e portarono al dissolvimento del blocco dell’Est.
Ora l’Intelligenza Artificiale ribalta il concetto, perché consente l’elaborazione coerente ed efficiente di immense quantità di dati raccolti centralmente. E così in questo secolo i sistemi centralizzati sono destinati ad esprimere maggior efficienza dei sistemi decentralizzati, al contrario di quanto accadde nello scorso secolo.
Naturalmente, come ci insegna anche la storia, sono le stesse tecnologie che esprimono gli anticorpi necessari. Vi sono infatti altre tecnologie che spingono verso la decentralizzazione, proprio come antidoto ai rischi di centralizzazione. La Blockchain è una di queste, ma è ancora in uno stato in un certo senso embrionale per poter trarre delle valutazioni di prospettiva sulla sua capacità di alterare la dominanza di questa o quella soluzione tecnologica.
Uno scenario incerto per la democrazia futura.
Le nuove cornici normative sulla proprietà dei dati per evitare di concentrarla in poche mani.
E allora quale sarà lo scenario futuro. Difficile fare delle previsioni univoche. Sono tante le variabili che potrebbero incidere
Resta da vedere, tuttavia, come poter investire sulle persone e come poter coltivare conoscenze, relazioni, saggezza o compassione, elementi senza i quali è difficile fare riferimento a scale di valori. Se investiamo troppo in Intelligenza Artificiale da usare con le stesse modalità adottate dai regimi autoritari, rischieremo di incentivare la stupidità umana e le sue espressioni più disdicevoli. Anche nelle società che rimangono formalmente democratiche, il rischio è che la efficienza sempre maggiore di algoritmi trasferisca autorità e sistema di decisioni dalle persone alle macchine, con l’obiettivo di acquisire maggior efficienza nelle decisioni e conservare il potere nelle mani di pochi. E questo avviene già nella nostra vita di ogni giorno. Consideriamo fonte di verità i suggerimenti di Google alle nostre ricerche, ma si tratta di risultati stilati in base alle nostre precedenti ricerche, il che vuol dire che saremo sempre più d’accordo con noi stessi e sarà mortificata la curiosità che ci fa scoprire il nuovo o il diverso da noi.
E non si deve scadere nella considerazione che queste cose ci rendono la vita più facile o che le indicazioni secche forniteci da un motore di ricerca non ci fanno perder tempo, perché l’intera storia dell’umanità è sempre stata fondata sul dubbio della scelta. Il libero arbitrio è un fondamento della cultura laica, ma anche le religioni, da quella cristiana a quella musulmana, si rifanno al principio della scelta per essere nel giusto e non incorrere nei comportamenti disdicevoli che le rispettive religioni considerano contrarie ai principi. Ovunque e in ogni epoca l’umanità e stata accompagnata dal dubbio amletico della scelta. Oggi ci facciamo indicare sì la strada da Maps, ma la musica da Spotify e i film da Netflix, che scelgono in base ai nostri comportamenti precedenti.
L’unica soluzione o quantomeno la soluzione più affascinante è l’avvio di processi di consapevolezza e parallelamente la definizione di cornici normative che attestino la proprietà indiscutibile dei dati. Nei secoli passati la terra era il bene più prezioso e si facevano le guerre per conquistare terre. Nell’era moderna la terra è stata sostituita dalle macchine e dall’industria e la lotta politica si è trasferita sul terreno del controllo di questi mezzi di produzione. Nel XXI secolo il bene più prezioso sono i dati, che hanno sostituito macchine e industrie, e di conseguenza la politica è diventata il mezzo per poter controllare il flusso dei dati.
Controllare questo processo non è facile. I dati sono ovunque ed in nessun luogo. Si muovono alla velocità della luce e se ne prendi una copia non lasci alcuna traccia di avvenuta duplicazione. Raccogliere dati è oggi il vero potere nelle mani dei conglomerati tecnologici. Ecco perché spesso il loro potere reale, oltre che il loro valore finanziario, è ben superiore al potere di Stati sovrani. Da un lato i Big Tech americani (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft ecc.) e dall’altro i colossi cinesi (Baidu, Tencent, WeChat, ecc.) raccolgono immense quantità di dati su di noi, dati che noi stessi gli diamo volentieri, senza curarci delle conseguenze.
Una soluzione potrebbe essere quella di mettere tutto in mano ai governi, lì dove esistono governi democratici, ma la storia ci insegna che anche una soluzione del genere potrebbe avere controindicazioni. Occorrerebbe allora un grande sforzo di fantasia normativa, istituzionale ed organizzativa. Occorrerebbe mobilitare scienziati, giuristi, filosofi e perfino poeti, per trovare soluzioni nuove all’esigenza di riconoscimento della proprietà dei nostri dati.
Se non si troverà una soluzione alla concentrazione dei dati in poche mani, difficilmente si potrà risolvere l’enigma del futuro delle democrazie. Non sarà per nulla facile, me ne rendo conto, ma sembra essere l’unica strada per assicurare un futuro politicamente e culturalmente sostenibile alle nostre attuali democrazie in affanno.