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Democrazia Futura. “Comunicazione pubblica come teatro civile”

Stefano Rolando

La presidente Leda Guidi, il segretario generale Marco Magheri e il presidente del comitato scientifico Pier Virgilio Dastoli dell’Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale hanno promosso mercoledì 15 dicembre 2021 dalle ore 11 alle 13 presso la sede del CNEL di Roma, in modalità phygital, un dialogo su “Comunicazione pubblica come teatro civile” in occasione della pubblicazione del saggio di Stefano Rolando  che propone di “governare la spiegazione, come una riforma importante nella pandemia e dopo”. Per partecipare all’evento, email a info@compubblica.it.

Qui di seguito la prefazione di Giuseppe De Rita e l’introduzione del saggio di Rolando, edito in questi giorni da ES-Editoriale Scientifica.

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Prefazione. Perché fu utile passare da un regime volontario di comunicazione governativa a un regime obbligatorio rispetto ad alcuni diritti assicurati ai cittadini.
Se non ora, quando?

Quando si scrive la prefazione per un libro di un amico, è naturale fare un riferimento autobiografico ricordando su quando e come la propria storia ha incrociato quella dell’amico e delle battaglie culturali che hanno fatto la sua storia personale: la storia cioè della comunicazione pubblica.

Mi sarà quindi perdonato se incardino questa prefazione ad un periodo particolare, quando, a metà degli anni Ottanta la Presidenza del Consiglio scelse di organizzare il mondo ed i modi con in cui il governo nazionale comunica con i cittadini, per informare e per spiegare le politiche via via messe in atto, economiche o sociali che siano.

Siamo all’epoca in cui Bettino Craxi e Ciriaco De Mita sono a Palazzo Chigi, quando sulle politiche di comunicazione del Governo sovrintendevano i due sottosegretari alla Presidenza: Giuliano Amato prima e Riccardo Misasi dopo. Essendo stato lateralmente partecipe delle vicende di quel periodo, ho chiaro il ricordo di un sostanziale cambio di marcia attraverso la istituzionalizzazione della comunicazione pubblica, riducendo la dispersione e la personalizzazione che era stata tipica nel periodo precedente. Ogni ministero (ed ogni ministro) andavano per proprio conto, in ordine sparso, evitando con cura ogni coordinamento e giuocando tutto sull’immagine di sé che ognuno riteneva più utile ai propri interessi, specie di consenso mediatico.

Amato prima e Misasi sulle sue orme marciarono su strade innovative: una concentrazione sulle responsabilità in un comitato di coordinamento operante a Palazzo Chigi; una ispirazione comune di quel che si doveva o voleva comunicare; addirittura un calendario di massima per le “uscite” di maggiore rilievo politico.

Sembra una nostalgia autobiografica, eppure la situazione attuale ne richiama il senso: la comunicazione pubblica è tornata ad essere dispersa, non coordinata, campo di avventure singole, con le naturali tentazioni a personalizzare ogni uscita e a privilegiarne il tono emotivo. In un ritorno al passato remoto, ancor più pericolosamente connotato da quel che è successo nelle drammatiche vicende della recente pandemia.

Basta avere seguito, anche solo sulla stampa quotidiana, la dinamica comunicativa degli ultimi quindici mesi per constatare tale arretramento: comunicati, conferenze stampa, interviste, dichiarazioni a getto continuo, si sono succedute a ritmo a dir poco incalzante e fatalmente disordinato. Con un duplice pericoloso effetto: tanta comunicazione, sulla vena emozionale; e poca informazione concreta, sulle cose da sapere su chi erano i “guariti” su quali erano gli scaglioni per la vaccinazione. Nessuno ha pensato ad una “centrale” di un credibile lavoro di informazione collettiva; personalmente ho sempre pensato che sarebbe stato utile una responsabilizzazione dell’ISTAT, unica “agenzia” naturale di raccolta, elaborazione e pubblicazione dei dati; ma nei fatti ha vinto la volontà – o il bisogno di preferire il “fare comunicazione”, esercizio più facile; più elementare, più capace di muovere i sentimenti; più adatta ad un’accentuata personalizzazione dei messaggi (fossero essi del vertice politico come dei singoli scienziati o esperti).

Siamo così tornati indietro ad un bisogno di informazione corretta e comprensibile, come avvenne negli anni Ottanta, quando quello sforzo che recuperammo brevissimamente con quasi mezzo secolo di ritardo post-bellico, e quando avemmo avviato una moderna “istituzionale” comunicazione pubblica, libera da condizionamenti politici e personalistici.

Ed è per la preoccupazione di questo ritorno indietro che ci siamo ritrovati, Rolando ed io, a riprendere un dialogo che dura ormai da trentacinque anni e che anche negli anni Novanta ci ha spinto ad impegnarci su una precisa cifra d’azione: proviamo a rilanciare quel fervore che tanti anni fa ci portò ad innovare il sistema di comunicazione pubblica e a generare un passaggio normativo difficile, addirittura una legge dello Stato, per rendere il silenzio e il segreto (attitudine storica della pubblica amministrazione) un soggetto da mettere in soffitta e per legittimare l’obbligo di una comunicazione trasparente e al servizio dei cittadini. E ricordando che quel passaggio fu anticipato da una indagine e da un “rapporto” Cnel, con cui si accelerò una presa di coscienza nelle istituzioni sulla necessità di passare da un regime volontario di comunicazione governativa a un regime obbligatorio rispetto ad alcuni diritti assicurati ai cittadini.

Molta acqua naturalmente è passata sotto i ponti ed assai particolare è il momento che stiamo vivendo. L’era internet ha costruito certamente altre piste, altre orizzontalità, altre interazioni. E l’era della “nuova peste” costruisce alte paure, alte reticenze, altre manchevolezze. Ma proprio per l’effetto combinato di spinte così diverse che le pagine che seguono fanno emergere con naturalezza la domanda forse troppo rituale: “se non ora, quando”?

Del resto l’ora è segnata anche da una discontinuità del quadro di governo in cui – senza dare sbrigative pagelle – lo “spirito repubblicano”, che viene raccontato in uno dei testi che seguono, è una cornice interessante per alzare la mira rispetto ad un dibattito di riforma della legge del 1990.

È un dibattito necessario in questo periodo quando sta prevalendo la questione della pur necessaria modernizzazione tecnologica; ed è un dibattito che dovrebbe anzitutto riguardare la rinegoziazione di rapporti tra società e poteri istituzionali attorno agli scopi ed alla gestione di questa delicata funzione.

Questa è stata manipolata nella storia fino all’estremo della propaganda, che – come in tutti i contesti anche democratici – è sempre in agguato. Ma essa è stata anche invocata in questa pandemia come una domanda di tutela, di spiegazione, di accompagnamento. Non basta la presente primazia della risposta tecnologica che comunque deve essere sviluppata; occorre in più una profonda azione per superare la difficoltà di molti – e in particolare degli anziani – nell’avere un ruolo attivo in questa modernizzazione. L’accompagnamento delle varie fasce di popolazione, l’accompagnamento è in questa prospettiva il valore aggiunto della “spiegazione” ed è la loro antica valorizzazione che spinge ad altra organizzazione, altre alleanze, altra formazione professionale, altro afflato civile, altra cultura pubblica.

Accompagnare e spiegare, spiegare per accompagnare.

Chi conosce la mia ormai lunga partecipe attenzione alle cose italiane sa che sono i due concetti su cui mi sono sempre legato, sia nella tradizionale vicenda CENSIS sia nella decennale esperienza CNEL; e che sono sempre propenso a mettere in campo, specialmente ora a fronte delle conflittualità tra le istituzioni ed allo slabbrato sistema di relazione con i cittadini che la pandemia ha mostrato. E su cui questo stesso libro aiuta a svolgere un’azione riparatrice in cui propaganda, “annuncio”, vaghezza e confusione organizzativa sono malattie da rendere inoffensive. Quando di recente ho scritto che “serve la voglia collettiva per uscire da un lungo letargo” non miravo ad atti unilaterali: né dello Stato, né dei cittadini, o delle imprese; bensì ad un impegno relazionale e partecipativo non retorico e non occasionale.

Ma senza una traccia progettuale questo schema non emergerà.

Si rischia anzi un affidamento al carattere taumaturgico dei social media, avvertendo che così non si andrà al di là della rappresentazione delle “emozioni”, sempre troppo lontane da una pur pallida anticamera delle “argomentazioni”.

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Il nuovo saggio “Comunicazione pubblica come teatro civile. Governare la spiegazione. Una riforma importante nella pandemia e dopo” di Stefano Rolando

Teatro sociale e teatro civile sono forme d’arte – antiche e rinnovate – che hanno avuto fortuna anche recente. L’una nasce nelle strade o nei contesti di vita e lavoro e poi può trovare adattamenti professionali. L’altra nasce da un genere di professionalità che opera scelte “impegnate” su temi che appartengono a irrisolti del tempo (o della storia) in cui fattori politici o di negazione di diritti ledono interessi collettivi.

E tende a mantenersi con caratteri di scena molto semplificati in cui anche una singola voce in campo tiene la scena stessa. In entrambi i casi, la dinamica partecipativa del pubblico assume significati che sconfinano nella condivisione e talvolta nella stessa interazione scenica. 

Il ribaltamento della comunicazione pubblica dalla “cultura dell’araldo” alla “interazione sociale permanente” costituisce una potente trasformazione di tre fattori classici di una lunga storia:

Pubblico non è solo “istituzioni”

La prima cosa che va detta è che non è solo la “rete” ad avere compiuto questa trasformazione, anche se essa dal 1995 l’ha enormemente favorita. Ciò che sembra contare di più è la modificazione profonda intervenuta nelle condizioni costituzionali democratiche per cui l’aggettivo pubblico non è più patrimonio riservato ad identificare le sole istituzioni. Ma è anche una connotazione che interviene a legittimare tutte le componenti che hanno abbandonato il teatro della dipendenza e della subordinazione per entrare nel teatro della “sfera pubblica”. Un concetto, questo, che va verso il centenario della sua invenzione. Ma che mantiene tuttavia resistenze politiche e di alcuni interessi rappresentati ad avere una più sostanziale opportunità di dispiegamento. Tuttavia – nelle forme oggettivamente forti di “dibattito pubblico” o nelle forme più limitate di “concertazione” o ancora più contenute di “ascolto” – il concetto di “sfera pubblica” va trovando condizioni di vivificazione della stessa cultura delle libertà democratiche. Diventa quindi una sorta di garanzia di una delle merci simboliche che risultano più attaccate dalle pestilenze sanitarie, finanziarie, oligarchiche, manipolatorie del nostro tempo.

Questa trasformazione è ancora largamente incompiuta.

Per questa ragione lo sguardo del “riformatore” va ora verso tre necessarie direzioni:

Quest’ultimo punto, tuttavia, deve conciliarsi con l’evidenza della rivoluzione comunicativa in atto dopo Gutenberg che comporta la necessità di misurarci con la dinamica dei social che pervade ogni relazionalità, rispetto a cui la “sfera pubblica” non solo non è immune ma può evolvere in un protagonismo innovativo.

Al servizio ora di un dibattito civile e professionale

Partendo da queste premesse, qui essenzializzate, l’autore, che dall’inizio degli anni ’80 ha lavorato, scritto, prodotto, concorso a sperimentazioni e a partecipazione dei cantieri tecnico-creativi e normativi in Italia e in Europa nella materia, con impegni assunti in tutte le forme dell’ordinamento (centrale e territoriale), ma anche nel sistema mediatico, sociale e di impresa, completa con questo testo –  che compendia scritti recenti –  un sentimento di proposta e di servizio al dibattito professionale a cui, in Italia e in Europa, partecipa.

Dibattito che la crisi sanitaria e sociale sollecita verso lo sforzo di delineare almeno metodo e obiettivi generali di adeguamento.

Un’avvertenza generale va fatta: la materia stessa è stata posta dagli eventi in corso – che segnalano inadeguatezze – nel quadro dei fattori strategici proprio per traguardare le crisi in atto.

Così che la via della riforma consentirebbe di rendere chiaro che la scelta di de-professionalizzare il settore a vantaggio di forme di propaganda mascherata o a vantaggio di formule che assumono mera istanza confezionatoria non è ora un vezzo intellettuale ma una conquista già pagata a prezzo sociale molto alto.

Il giudizio sulla situazione in atto che Giuseppe De Rita, nella sua generosa prefazione, tratteggia è un punto di partenza per alzare lo sguardo in modo più ampio e più complessivo nel dibattito pubblico che pure è avviato. Scrive De Rita:

la comunicazione pubblica è tornata ad essere dispersa, non coordinata, campo di avventure singole, con le naturali tentazioni a personalizzare ogni uscita ed a privilegiarne il tono emotivo. In un ritorno al passato remoto, ancor più pericolosamente connotato da quel che è successo nelle drammatiche vicende della recente pandemia”.

Nelle insorgenze polemiche, si deteriora il discorso pubblico

Per spiegare rapidamente perché questo progetto non punta solo a migliorare la funzione tecnica di servizio della comunicazione pubblica (cosa per altro necessaria), ma anche a riequilibrare storture riconosciute del rapporto tra parole e poteri, provo a partire da un punto di vista che non abbiamo inventato ora. 

Di fronte a situazioni così serie come quelle delle varie crisi in atto non servono prediche (a meno che non siano quelle che Einaudi definitiva “inutili” e che però spostavano paradigmi culturali). Serve piuttosto ripristinare responsabilità esercitate ad avere un ruolo nella circolarità comunicativa da parte di chi ha a cuore interessi generali.

L’inventario di situazioni nuove innescate dall’epidemia a sostegno del bisogno assoluto di una strategia profondamente concepita attorno alla cultura sociale della spiegazione – argomento che ricorrerà in tutto questo testo – presenta casi via via nei contesti narrati che riguardano tutto il 2020 e una parte significativa del 2021. Ma se c’è un momento di evidenza esemplare che racconta tanto la diffusa domanda quanto l’insufficiente offerta (quindi il tema politico di far diventare strategica la soluzione) ebbene è questo in cui stiamo rivedendo la seconda bozza impaginata (in pieno luglio, per intenderci) dopo la pur felice e gioiosa serie di assembramenti pubblici generati dalla vittoria italiana agli europei di calcio.

Non tanto per ritrovare la strada della “messa in guardia”. Quanto per affrontare – insieme a tutti i paesi del mondo, a cominciare dalla Francia che per prima ha assunto mezzi drastici – le forme di “no vax” ovvero, come si va dicendo, di “ni vax” (diffidenza a volte anche colta e informata rispetto alla vaccinazione) e in sostanza un fenomeno articolato di negazionismo che incide sulla potenziale connessione di cause naturali e cause provocate da esseri umani per una nuova impennata di contagi e un nuovo rischio di letalità.

Accanto all’attivazione di norme e punizioni (su cui la discussione etico-giuridica è aperta) la via su cui ancora manca un “piano” di coinvolgimento di un’ampia alleanza operativa efficace è proprio quello della “spiegazione civile, sociale e sanitaria” in grado di interagire con negazioni e diffidenze.

Contrastare l’oscurità istituzionale

Appunto, la comunicazione pubblica come nuove regole del dibattito teso a far leva sull’incremento della spiegazione e dei chiarimenti socialmente metabolizzabili, è una prospettiva di medio-lungo periodo per avere risultati efficaci. Ma a furia di rimandare il disegno del suo “farsi”, del suo “radicarsi”, nei momenti di difficoltà istituzioni e cittadini avvertono di essere privi di ammortizzatori. Una sensazione che ci fa sentire preda, quindi anche vittime, di un format oggi inevitabile, quello dell’oscurità istituzionale, dentro cui ci sono decenni di misteri, accanto a una pratica quotidiana di inaccessibilità. Soprattutto senza un “Mose” virtuale che alzi le barriere della ragionevolezza di fronte alla minaccia delle acque alte.

Ed è quello il senso di allarme che spesso i media interpretano come una “domanda” di informazione così come la politica lo interpreta come una “disponibilità” per organizzare consenso.

E’ il rullo compressore di cui conosciamo l’ineffabile attivazione come meccanismo spontaneo di ciò che una volta si chiamava “comunicazione di massa”.  E che oggi costituisce un sistema che la conflittualità tra media passivizzanti (la tv in testa) e media attivizzanti (i social in testa) fa esprimere in un vero e proprio raddoppio dell’autostrada.

Entrambi i poli opposti inquietano: sia l’autorizzazione che produce il rullo compressore a moltiplicare senza limite il diritto ad essere fonte; sia l’elitarismo autoritario che potrebbe prodursi come reazione intollerabile a questo infinito dilettantismo.

Non ci vuole uno scienziato per scoprire che ci deve essere un punto intermedio.

Quello, per esempio, rappresentato dall’incoraggiamento a strutturare il coraggio della parola, della valutazione, dell’accompagnamento coinvolgendo una grande quantità di soggetti che dispongono di dati e di affinamenti interpretativi per allargare la fascia della visione di interesse generale in grado di fare sintesi e per accorciare le distanze sociali.

Una quantità di soggetti” non vuol dire dunque solo la pubblica amministrazione in senso stretto.

Ma anche i centri educativi, le università, chi svolge cura e assistenza, chi garantisce la sicurezza e l’ordine pubblico; chi dispone del talento di “leggere” il tempo e la realtà artisticamente; chi fa ricerca; chi dispone di dati statisticamente corretti; chi contribuisce a narrative veritiere sulle condizioni sociali; chi aiuta con la mediazione linguistica a creare comprensione e integrazioni.

Potrei continuare a lungo. E’ ciò che da un certo numero di anni va sotto il nome di “grande società”[1], per intendere non la frammentazione di interessi egocentrici ma l’aggregazione di diversità in processi di coesione. La formula naturalmente richiederebbe di essere dilatata realisticamente. Cioè discussa fino al punto di atterrare su esempi di sperimentazione responsabile.

Sarebbero molti a non doversi nascondere, a questo riguardo. Ma la generale tendenza scantonante degli ultimi tempi, sommata alle priorità delimitanti della gestione della crisi sanitaria, non ci consegnano un grande ottimismo a meno che il cantiere sperimentale non sia voluto caparbiamente. E sostenuto nelle sicure conseguenti criticità.

Se si vuol prendere un caso eclatante – al tempo stesso fatto di contenuti positivi e costruttivi ma anche privo di qualunque intelaiatura connessa alla necessaria “spiegazione pubblica – come è scritto in uno dei testi (qui raccolti) pubblicati a caldo il giorno stesso della pubblicazione dell’ampio documento, si segnala il PNRR. Documento percepito e discusso nella stampa internazionale di maggiore spicco, ma in sostanza scritto in modo difficile e privo di impianto di spiegazione restando così in ombra nel reale dibattito pubblico in Italia (mi è stata segnalata a Torino da parte di un gruppo di civil servant, l’iniziativa di una lettura collettiva dell’intero documento per sopperire alla mancanza di socializzazione dell’intero documento).

L’ampia gamma della “spiegabilità”

Se è concessa una riga di aneddotica personale, fu alla ripresa di iniziativa attorno alla comunicazione pubblica (nel lavoro istituzionale, nell’associazionismo professionale e nelle università), dopo la breve esperienza condotta – nell’anno di avvio dell’era internet – in uno degli snodi di quella prima trasformazione digitale (l’Olivetti, che cercava di trasformare sé stessa dall’informatica alle telecomunicazioni e tentava di accelerare il processo concorrenziale in Italia in questo campo) che misi in primo piano la questione della “spiegabilità” come cultura sociale trainante della comunicazione.

Il testo che pubblicai nel 1998 si intitolava appunto  “Un Paese spiegabile  (sottotitolo La comunicazione pubblica negli anni del cambiamento, delle autonomie territoriali e delle reti)[2] e teneva conto di un primo energico superamento della visione verticale e centralistica (un superamento dunque della mia stessa lunga precedente esperienza) che aveva assunto la comunicazione pubblica (non solo in Italia) e che quegli anni ’90 stavano portando ad evoluzione sia tecnologica che nella cultura del servizio.

Si trattava – e si tratta ora, con ben altre consapevolezze – di attribuire alla “spiegazione” un significato complesso, per gamma di funzioni e per articolazione di scopi.

L’irritazione popolare diffusa di fronte  alle applicazioni ermetiche, farraginose, ostruenti, che i contesti relazionali in rete oggi creano da ogni parte (arrivando persino al trattamento linguistico in inglese per uno stuolo di utenti che faticano anche con l’italiano, per non parlare del “muro” di ostacoli, rimandi, percorsi senza pertinenza che costituiscono una sicura produzione di ansia) è un  fenomeno reiterato che la pandemia ha moltiplicato e reso spesso regola (per fortuna non sempre e non in tutti i contesti). 

La gran parte dei comportamenti collettivi è regolata dall’aver compreso senso e modalità di provvedimenti a cui non è sempre connessa la procedura di chiarimenti (explicatio) che è la condizione per la formazione individuale di responsabilità e di approccio organizzativo.

La gamma applicativa va dai principi basilari della relazione diritti-doveri alla complessità del rapporto tra dinamiche scientifiche e accadimenti.

In questa gamma si colloca l’intero spettro degli “analbafetismi” – non solo quello di leggere e scrivere, che è la madre antica di una malattia che ha preso infinite altre strade – e per converso si colloca l’importanza di un’azione di accompagnamento (che è in capo a molti soggetti che dispongono non solo di competenza formata ma anche di titolarità di responsabilità) tesa a ridurre la condizione di subalternità cognitiva che produce tanto smarrimento quanto rancore.

La crescita di un disagio sociale generato oggi dal conflitto sui diritti di genere ovvero sulla incertezza del diritto in materia della complessità delle identità sessuali ha una sua disuguale rappresentazione nei contesti nazionali e locali del mondo. Da un lato il mercato dell’informazione agisce con l’irregolarità di una domanda generata sia dall’ansia dei portatori di bisogni, sia da un’offerta che è spesso regolata da prudenze ovvero da compiacimenti che si riferiscono a chi non ha avuto le “spiegazioni necessarie” per cogliere la sostanza dei problemi, la complessità dei punti di vista, il quadro comparativo delle soluzioni altrove individuate.

In Italia non sembra che la qualità del dibattito pubblico vada per ora oltre la ringhiosità. Meno che mai verso la metabolizzazione diffusa (come è abitualmente su queste materie) di una legittima riqualificazione dell’agenda. Anche in questo caso lavarsene le mani non è cosa né ragionevole né ammissibile per un sistema istituzionale che, per prima cosa, deve dare risposta all’asimmetria informativa di base.

Omissioni e coraggi

L’intensa vicenda della pandemia si somma a una quantità di storie – individuali e collettive – che costituiscono da un lato il verbale delle omissioni e dall’altro lato il romanzo dei coraggi civili.

Non tutto è reticenza, burocrazia, diniego, genericità, ritardo, complicazione.  Ci sono storie di innovazione ed esperienze comprovate da utenze che argomentano il rendimento (non mi riferisco agli “emoticon” proposti ad un certo punto per semplificare il tema della “valutazione”). Il ricordo del “grazie” dei cittadini per servizi resi da uffici dediti con sforzi creativi e gestionali hanno un posto nella mia memoria. Ma al tempo stesso è matura l’esigenza di disporre di un serio inventario dei deficit.

La pandemia e le sue evidenze

Per quanto riguarda l’anno (e oltre) dell’esperienza di comunicazione quasi totalizzante sulla pandemia fanno riflettere alcune evidenze.

Insomma: un passaggio di rifondazione disciplinare renderebbe, così, evidente e rinegoziabile quella confusione ormai dilagante tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica, oggi non regolata da nessun riferimento forte e lasciata al volontarismo dei contesti applicativi.

Le pagine che seguono allungano, specificano, dettagliano questo sentimento, allarmato, di urgenza.

Che il passaggio del quadro politico italiano da un eccesso di parole vaghe a un eccesso di sobrietà, pur producendo speranze e anche momenti di ammirazione, non ha né attutito né tanto meno placato.


[1] E’ del 2010 il mio primo tentativo di declinare questo tema in La comunicazione pubblica per una grande società – Ragioni e regole per un migliore dibattito pubblico, Etas.

[2] Stefano Rolando, Un Paese spiegabile, Etaslibri, 1998

[3] https://www.facebook.com/RIVITCP/posts/1942137059138308

[4] Massimiliano Bucchi, Qualche dubbio sulla presenza di scienziati in tv, Corriere della Sera, 8 maggio 2021.

[5] La recente pubblicazione del rapporto dell’Ufficio Studi della Rai Coesione sociale – La sfida del servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale (Rai Libri, 2021), porta in evidenza risorse interne e un filo rosso di esperienza che spesso la stessa Rai sottovaluta in ordine alla trasformazione di ruolo che gli stessi esponenti della Rai indicano nei titoli del rapporto con l’espressione “il coraggio di cambiare”.

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