L'intervento

Democrazia Futura. Come si è arrivati a parlare di “rete unica”

di Fabio Colasanti, già Direttore Generale Information Society della Commissione Europea, ex presidente IIC |

Un dibattito che rischia di ritardare la copertura di tutto il territorio con reti di nuova generazione.

Fabio Colasanti

Con l’intervento dell’ex Direttore Generale Information Society della Commissione europea Fabio Colasanti “Come si è arrivati a parlare di ‘rete unica’” si conclude il nostro focus di approfondimento giudicato nell’occhiello “Un dibattito che rischia di ritardare la copertura di tutto il territorio con reti di nuova generazione”. Ricordato l’obiettivo dell’Unione europea di generalizzare “collegamenti da almeno un gigabit al secondo entro il 2030”, obiettivo anticipato al 2026 dal PNRR, e, chiarito che “Questi obiettivi richiedono lo sviluppo di una rete capillare di collegamenti in fibra ottica e di un sistema di telecomunicazioni mobili di quinta generazione”, Colasanti spiega le ragioni dello sviluppo insoddisfacente delle reti di telecomunicazioni, ostacoli amministrativi, ampia offerta televisiva su reti digitali terrestri, scarsa propensione all’accesso dei cittadini a servizi pubblici (anagrafe, scuola, medicina, …). “Chi ha veramente bisogno delle capacità che offrono i collegamenti in fibra sono le imprese e la pubblica amministrazione”. “Molti pensano che una garanzia adeguata si ottenga solo con una proprietà diversa della società che gestisce la rete e delle società che gestiscono i servizi di telecomunicazione. Alcuni pensano che la proprietà di questa società debba essere pubblica. Personalmente penso che la proprietà pubblica non costituisca una garanzia sufficiente e che non sia molto importante. Quello che conta è che il gestore della eventuale rete pubblica sia controllato efficacemente dall’AGCOM. Una conclusione di questi tanti anni di dibattiti è anche che la società che dovesse gestire questa nuova rete dovrebbe essere una cosiddetta “società all’ingrosso” che affitti, senza discriminazioni, le sue linee a tutte le società di servizio. Che fare? si chiede in conclusione l’ex alto funzionario della Commissione. Per Colasanti occorre evitare il protrarsi della situazione di incertezza e “mettere un punto finale a questo dibattito rapidamente”. 

Da qualche tempo si parla in Italia della creazione di una “Rete unica” nel campo delle telecomunicazioni. Si vorrebbe creare una società, partecipata da alcuni operatori che offrono servizi di telecomunicazioni, che gestisca – integrandole tra loro – le reti già esistenti di Telecom Italia, di Open Fiber e di alcune altre società più piccole. I promotori di questo progetto sostengono che contribuirebbe ad uno sviluppo più rapido di una rete fissa di telecomunicazioni a disposizione di imprese, famiglie e pubbliche amministrazioni. Ma su questo punto le opinioni divergono.

Molti considerano che la lentezza dello sviluppo delle reti di telecomunicazioni sia dovuta a molteplici fattori. Questo significa che pur ammettendo – e alcuni non sono disposti a farlo – che la formazione di una “rete unica” possa aiutare a raggiungere l’obiettivo dello sviluppo più rapido delle reti di telecomunicazioni bisognerebbe utilizzare anche molti altri strumenti, tra i quali un forte intervento finanziario del settore pubblico in vari campi a partire dalle competenze digitali degli utenti.

In questo contributo ricorderò alcuni punti del dibattito degli ultimi trenta/quaranta anni sulla liberalizzazione dei servizi di telecomunicazione perché questo ci ha consentito di raggiungere un certo numero di punti fermi che vanno tenuti presente nella ricerca di soluzioni adatte alle circostanze attuali.

Le ragioni dello sviluppo insoddisfacente delle reti di telecomunicazioni

Più o meno tutti i governi dei paesi industrializzati vorrebbero che la rete di telecomunicazioni del loro paese fosse più sviluppata. Ciò è dovuto alla considerazione, molto ragionevole, che l’esistenza di una rete di telecomunicazioni con una capacità maggiore di trasportare bits permetterebbe la crescita di molti servizi esistenti e la nascita di nuovi servizi con conseguenze positive per la qualità di vita dei cittadini e per la produttività dell’economia.

La Commissione europea ha appena proposto che l’Unione europea si dia come obiettivo la generalizzazione dei collegamenti da almeno un gigabit al secondo entro il 2030 (1).  Il Piano nazionale per la Ripresa e la Resilienza italiano anticipa questo obiettivo al 2026 (2). Questi obiettivi richiedono lo sviluppo di una rete capillare di collegamenti in fibra ottica e di un sistema di telecomunicazioni mobili di quinta generazione.

Il parlare di “gigabit” fa pensare ad una sfida di alta tecnologia, ma lo sviluppo di una rete di telecomunicazioni del tipo proposto dalla Commissione europea non richiede la soluzione di nuovi problemi. Si devono scavare trincee per deporvi i cavi in fibra ottica, si devono fare entrare questi cavi nei condomini, si devono fare arrivare questi cavi nelle abitazioni e negli uffici e si devono istallare moltissime mini-antenne per le comunicazioni mobili di quinta generazione. L’ottanta/novanta per cento del lavoro da fare è quindi di tipo molto tradizionale. Questi lavori richiedono poi tantissimi permessi (spesso cari perché molte autorità locali hanno visto in questi lavori un’occasione per fare cassa) e la soluzione di molti piccoli problemi, da quelli all’interno dei condomini a quelli richiesti dal passaggio di nuovi cavi attraverso costruzioni esistenti. 

A fronte di queste difficoltà nell’offerta, c’è una domanda per collegamenti di alta capacità ancora debole, soprattutto da parte delle famiglie. La maggior parte dei servizi via internet utilizzati dalle famiglie non richiede una grande capacità di collegamento. Alcuni anni fa incontrai Masayoshi Son, il fondatore della Softbank, nel suo ufficio di Tokyo. La società stava ottenendo risultati spettacolari nella vendita di collegamenti in fibra ottica.   Per aprire la conversazione gli chiesi se aveva informazioni su come i suoi clienti usassero questi collegamenti. Ridendo, mi rispose di sentirsi come un venditore di Ferrari in un paese dove c’era un limite di velocità di cento chilometri all’ora. Mi ricordò che per vedere programmi di televisione in streaming e per utilizzare normalmente l’internet una capacità di 8 mb per secondo era più che sufficiente. I suoi clienti giapponesi stavano acquistando collegamenti che andavano ben al di là delle loro necessità immediate.  

Oggi la situazione è certamente cambiata. Ci sono più servizi, ma la grande maggioranza dei clienti potenziali di una rete a un gigabit per secondo non ne vede ancora la necessità. La crisi creata dal Covid-19 ha però mostrato quanto una tale rete sarebbe utile per tante ragioni che vanno, per esempio, dal telelavoro alla medicina a distanza. L’insoddisfazione nei confronti delle reti esistenti di telecomunicazioni non è però dovuta solo alla loro ancora bassa capacità media, ma deriva soprattutto dalla diversa qualità dei collegamenti che esistono in varie parti dei paesi.  

Da casa mia ho un collegamento in “vectoring” tra l’armadietto e il modem nel mio appartamento che mi offre una capacità di 80/90 mb al secondo in download. Ma mia sorella che vive a Beroide, una frazione di Spoleto a dieci chilometri dal centro della cittadina, ancora oggi nel 2021, non può avere l’ADSL perché il suo doppino è troppo lungo. Usa un collegamento via radio e ho verificato che riceve i messaggi di posta elettronica tra 15 e 20 minuti dopo il loro invio. Immaginate la situazione frequente dell’iscrizione ad un sito dove si riceve la richiesta di cliccare – prima di continuare le operazioni – su di un link che è stato spedito al proprio indirizzo di posta elettronica.  Chi ha un vero collegamento in fibra fino alla propria abitazione o ufficio (chiamato nel gergo: FTTH, Fiber To The Home) può disporre invece di varie centinaia di megabit al secondo e, con dei software appropriati, anche di un gigabit al secondo. Oggi le proteste per l’inadeguatezza della rete esistente vengono soprattutto da chi si trova nella situazione di mia sorella o ha solo un collegamento che permette una decina di mb al secondo. Se potessi avere un collegamento in fibra fino a casa (FTTH), sottoscriverei subito il contratto, ma la mia esperienza quando uso l’internet non cambierebbe in maniera molto forte.

In Italia, gli ostacoli allo sviluppo di una moderna rete di telecomunicazioni sono più forti che in altri paesi. La posa dei cavi in fibra ottica è resa più complicata che in altri paesi da tante difficoltà amministrative. Open Fiber afferma di aver dovuto richiedere in cinque anni più di centomila permessi amministrativi. Per di più, nel nostro paese la domanda per collegamenti ad alta velocità è bassa nonostante il fatto che i collegamenti in fibra non costino più di quelli attuali sui doppini di rame. Una ragione per la bassa domanda è costituita dall’ampia offerta di canali televisivi disponibili via etere (digitale terrestre). In altri paesi la domanda di collegamenti internet ad alta capacità è stata spinta proprio dalla possibilità di accedere agli oltre cento canali televisivi che sono di solito offerti dalle società di telecomunicazioni. Infine in Italia la necessità di avere un buon collegamento internet per accedere ai servizi pubblici (anagrafe, scuola, medicina ed altro) è ancora piuttosto bassa.

Passare ad una rete da un gigabit al secondo come propone la Commissione europea e come ha appena deciso il nostro governo è più un desiderio del mondo politico e del mondo industriale che un’esigenza sentita dalla maggioranza dei consumatori. È poco probabile che le famiglie possano trovarsi rapidamente in una situazione dove i 70/80 mb per secondo o più che offrono oggi i collegamenti via fibra fino all’armadietto e via doppino in rame fino all’abitazione si rivelino insufficienti. Chi ha veramente bisogno delle capacità che offrono i collegamenti in fibra sono le imprese e la pubblica amministrazione.

Nelle classifiche elaborate dalla Commissione europea (3), DESI (Digital Economy and Society Index), l’Italia si trova in una posizione intermedia per quando riguarda la connettività, ma si trova negli ultimi posti per quanto riguarda la capacità di utilizzare l’internet. Nell’indicatore sintetico “connettività“, l’Italia è al 17 posto su 28 paesi presi in considerazione, immediatamente sotto la media europea. Posizione in linea con quella del nostro livello di PIL pro-capite.

Il nostro paese ha invece un ritardo preoccupante in quello che il DESI chiama “capitale umano“. Nel 2019, l’indicatore sintetico per questo sotto-settore ci collocava all’ultimo posto nell’Unione europea con un valore di circa 32 a fronte di un 49 per la media dell’UE e un 78 per il primo della classe (la Finlandia).  Solo il 45 per cento della popolazione italiana ha delle conoscenze elementari basilari sul funzionamento di internet e dei servizi digitali.

Non è quindi una sorpresa che il nostro paese sia agli ultimi posti in Europa nel sotto-settore del DESI sull’uso di internet. Nella classifica generale sull’uso dei servizi internet il nostro paese è terzultimo seguito solo da Bulgaria e Romania. La situazione non è molto migliore per quanto riguarda le imprese. Le nostre imprese sono al 22esimo posto nell’indice sintetico sull’integrazione delle tecnologie digitali nel lavoro delle imprese.  

Le cose non vanno meglio per quanto riguarda l’integrazione delle tecnologie digitali nel lavoro della pubblica amministrazione. Siamo al 19esimo posto nell’indicatore  sintetico per questo settore, ma siamo all’ultimo posto – e con un certo distacco – nella possibilità di trasmettere dati alla pubblica amministrazione attraverso formulari online.

Questa carrellata di dati mostra che abbiamo molto cammino da fare, ma anche che abbiamo molte più difficoltà nell’uso dell’internet che nella disponibilità di una connettività soddisfacente. Il progetto di “rete unica“, nelle intenzioni di chi lo sostiene, potrebbe avere un effetto solo sulla connettività. I dati appena presentati mostrano che questa non è la priorità numero uno per l’intervento pubblico nel campo digitale.

I principi alla base del processo europeo di liberalizzazione delle telecomunicazioni

Dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso si è discusso intensamente in tutta l’Europa di come liberalizzare le telecomunicazioni per poter approfittare degli sviluppi spettacolari che il progresso tecnico faceva intravedere e che ha poi effettivamente fornito. Queste discussioni si sono tradotte in un quadro regolamentare approvato alla fine del 2001 e che da allora, con alcune opportune modifiche, indirizza la regolamentazione del settore nell’Unione europea. La scelta fondamentale alla base di questo quadro regolamentare è stata quella della concorrenza fra infrastrutture.  

Questa ha dato risultati spettacolari nel settore delle telecomunicazioni mobili.   Le cose sono state invece più complicate nel caso della rete fissa. Qui c’è stata una certa concorrenza soprattutto dove esistevano già delle reti alternative (soprattutto i cavi coassiali della televisione via cavo). Lo sviluppo ulteriore della concorrenza fra infrastrutture diverse che si è visto è stato limitato quasi unicamente alle aree densamente popolate.

La necessità di stimolare la concorrenza almeno nell’offerta dei servizi è stata affrontata attraverso l’imposizione di forti obblighi regolamentari agli operatori che avevano ereditato le reti costruite ai tempi del monopolio pubblico. L’obiettivo di questa regolamentazione era di far sì che le altre società che volevano offrire servizi di telecomunicazione potessero utilizzare il cosiddetto “ultimo miglio” (il collegamento dalla centralina o dall’armadietto fino all’abitazione o ufficio del cliente) alle stesse condizioni di ogni altra società e che il proprietario di questo pezzo di rete non potesse ricavarne alcun vantaggio competitivo nei confronti delle altre società.

Questa regolamentazione ha avuto una certa efficacia. Oggi molte altre società, oltre alle ex monopoliste, offrono collegamenti internet e la quota di mercato delle società proprietarie delle reti negli abbonamenti ai clienti finali è scesa fortemente. Questa regolamentazione ha anche contribuito a far scendere sensibilmente i prezzi (oltre a quanto determinato dagli sviluppi tecnologici che sono stati comunque la causa più forte delle riduzioni dei prezzi).  

Al tempo stesso, questa regolamentazione è stata criticata per aver fatto nascere un certo numero di imprese che hanno investito ben poco in nuove infrastrutture e hanno vissuto soprattutto sfruttando la differenza tra i prezzi di affitto dell’ultimo miglio fissati dal regolatore e i prezzi di mercato praticati inizialmente dalle società esistenti.   Il panorama di questi anni è stato dominato dalle proteste continue degli ex monopolisti che consideravano che i prezzi fissati dai regolatori fossero troppo bassi e che non remunerassero abbastanza i loro investimenti e il costo della manutenzione delle linee.   Le nuove società, dall’altro lato, consideravano i prezzi per l’affitto dell’ultimo miglio decisi dai regolatori ingiustificatamente alti per un investimento fatto molti anni addietro.

Ma il problema principale è che l’applicazione di questa regolamentazione ha dato luogo ad un contenzioso molto forte. Per ridurlo sono state esplorate molte soluzioni basate sull’organizzazione interna dell’impresa proprietaria della rete o perfino sulla attribuzione della rete ad una società ad hoc, ma pur sempre di proprietà dello stesso operatore. Ma anche le soluzioni più elaborate ed ambiziose non hanno dato risultati molto soddisfacenti.

Una rete unica?

Questi problemi, più la volontà di accelerare lo sviluppo della rete di telecomunicazioni fisse, hanno portato a discutere in alcuni paesi dell’opportunità o meno di creare una rete unica per le telecomunicazioni fisse di un paese. Gli argomenti principali a favore di questa tesi sono stati la riduzione del costo dell’investimento totale grazie al fatto che non c’è una duplicazione di investimenti simili, la determinazione da parte del governo dei piani di investimento di questa società (in caso di proprietà pubblica) e la possibilità, in alcuni casi, di finanziare l’investimento nelle zone meno sviluppate attraverso gli utili realizzati nelle zone più ricche (cosa che rende meno visibile il costo effettivo dell’investimento pubblico effettuato nelle zone meno sviluppate).

L’affidare lo sviluppo della rete ad una società unica era però visto come un ritorno al vecchio monopolio, con tutti gli effetti negativi che gli sono associati. Il rischio più grosso che si vedeva era evidentemente l’eliminazione dello stimolo competitivo derivante dalla concorrenza tra infrastrutture e società diverse. Nel nostro paese, anche se non abbiamo avuto la concorrenza dei cavi coassiali per la televisione via cavo, c’è comunque stata una certa concorrenza tra società diverse, basta pensare ai rapporti pessimi tra Telecom Italia e Open Fiber.  Queste due società hanno perfino un certo numero di vertenze legali in corso.

Si temeva anche che la società proprietaria di questa rete non facesse rapidamente gli investimenti che avrebbero potuto rivelarsi necessari per permettere l’innovazione nel settore delle telecomunicazioni. Concretamente, si pensava che questa società avrebbe potuto voler seguire una sua strategia pluriennale indipendente dagli ultimi sviluppi tecnologici e dai bisogni delle società di servizi. Per di più, se questa società fosse stata pubblica, c’era il timore che le sue scelte, più che da considerazioni di sviluppo del settore, fossero dominate dagli umori del governo del momento, con cambi di strategia, anche repentini, ad ogni cambio di governo.  

In ogni caso, l’affidare al governo la responsabilità per gli investimenti per la creazione di questa rete implicava sempre un costo molto alto per le finanze pubbliche e questo in un campo nel quale i governi negli ultimi decenni hanno investito molto poco e dal quale hanno invece estratto molto valore. Si pensi ai prezzi stratosferici delle frequenze del settore mobile che hanno portato a delle entrate una tantum enormi per molti governi (4).

Un aspetto strano del dibattito specificamente italiano sono stati i tanti riferimenti ad un presunto carattere “strategico“, nel senso di sicurezza nazionale, della rete che è stata ereditata dal vecchio monopolio pubblico. Tra i grandi centri urbani, tra i diversi paesi e tra i diversi continenti c’è una molteplicità, una vera abbondanza di reti di collegamento che appartengono a varie società specializzate poco conosciute dall’opinione pubblica.   Per di più, nell’internet la trasmissione dei singoli pacchetti di bits segue strade diverse che dipendono dalla disponibilità in ogni microsecondo di reti e server alternativi. Non è più necessario, come nelle reti analogiche, realizzare un collegamento diretto tra due punti. La parte più importante di questa rete – quella che è veramente strategica, ma dal solo punto di vista commerciale – è costituita dal doppino di rame dall’armadietto all’appartamento.   Ma si può considerare il doppino che arriva nelle nostre abitazioni un elemento importante per la sicurezza nazionale?

Punti fermi emersi dal dibattito

Il dibattito sulla rete unica non ha mai avuto una conclusione molto chiara. Sono stati avanzati argomenti seri da entrambi i lati. Cerco di riassumere alcuni punti fermi che sono emersi dal dibattito di questi anni.

Il timore che la società incaricata di gestire la rete unica non faccia i necessari investimenti è parzialmente attenuato dal fatto che la fibra ottica fino alle utenze finali sembra una soluzione tecnologicamente più che adeguata per molti anni ancora.  

La valutazione della capacità dello stato di fare gli investimenti necessari dipende dalla fiducia che si ha in ogni singolo Stato e dalle possibilità che questo ha di fare grossi investimenti. Questa valutazione va di pari passo con quella che si da dell’intervento pubblico in altri settori. Oggi, il nostro paese dispone delle risorse del Next Generation EU, ma cosa succederà dopo il 2026? Chi dovrebbe gestire l’eventuale rete unica italiana? Se si trattasse di una società pubblica quale sarebbe la qualità della sua gestione?

Rimane il fatto che una rete unica di questo tipo non è stata realizzata in nessun paese industrializzato, (eccezion fatta per realtà molto specifiche come Singapore e il Qatar). Il paese che più seriamente ha discusso del problema è l’Australia dove il tema (National Broadband Network) è stato al centro dei dibattiti politici per vari anni ed è stato uno dei temi principali delle elezioni politiche del 2013.   Il governo uscito da queste elezioni definì il progetto un “elefante bianco” che avrebbe assorbito enormi risorse pubbliche per vantaggi molto dubbi e lo ridisegnò completamente riducendolo a poca cosa.

Questo implica anche una cosa molto importante: non disponiamo di un solo precedente di una valutazione effettiva della rete in rame di un ex-monopolista. Oggi i doppini in rame che arrivano nelle abitazioni e negli uffici costituiscono spesso l’unica soluzione e – quando non sono troppo lunghi – permettono anche un servizio di una buona qualità. Ma gli obiettivi che l’Unione europea e il nostro governo si sono dati richiedono la sostituzione completa di questi doppini entro il 2030 o addirittura entro il 2026. Quale è il valore odierno di una rete che si vorrebbe sostituire interamente entro qualche anno? Esiste il rischio che una valutazione troppo alta costituisca un aiuto nascosto per Telecom Italia o che una troppo bassa possa mettere in difficoltà ingiustificate questa società.

La creazione di una rete unica per le telecomunicazioni fisse di un paese pone anche dei problemi per quanto riguarda le modalità dell’intervento pubblico che non sono sempre stati risolti in maniera soddisfacente. Ci sono delle zone dove oggi le società private non vogliono investire perché pensano di non poter ottenere un ritorno sufficiente. È quindi logico pensare che in queste zone lo stato debba intervenire costruendo l’infrastruttura. Ma l’intervento dello stato preclude, di fatto, la possibilità per le società private di intervenire successivamente. Come si delimitano le aree dove lo Stato deve intervenire? È sufficiente che alcune società private annuncino piani di investimento futuri per bloccare l’intervento dello stato? Quale è l’autorità pubblica che prende le decisioni su chi deve investire e dove?   Sulla base di quali criteri dovrebbero essere prese queste decisioni?  

Dovremmo avere una mappatura ufficiale e non contestata delle zone definite “bianche” (copertura scarsa), “nere” (copertura buona) e “grigie“. Ma in Italia, come in altri paesi, non abbiamo una distinzione netta tra zone ben servite e zone senza accesso con una qualità adeguata. Molto spesso ci troviamo ad avere zone senza accesso soddisfacente a qualche chilometro dal centro delle città. Una rete unica potrebbe dare una risposta ad alcuni di questi quesiti affidando tutto alla nuova società. Ma la costituzione di una nuova società che gestisca molte o quasi tutte le reti esistenti significherebbe attribuirle la gestione e l’integrazione anche di quel poco di reti doppie o triple che esiste già in alcune città. Non è chiaro se questa rete pubblica dovrebbe includere anche i collegamenti tra i grossi centri. Tra di questi oggi c’è un’abbondanza di capacità fornita da varie società e quindi una ridondanza che è utile per la sicurezza delle comunicazioni. Sarebbe un peccato se la società incaricata di gestire la rete unica, per razionalizzare i suoi costi, riducesse troppo le offerte di collegamento che già esistono.

In ogni caso, il dibattito, proprio per evitare alcune conseguenze negative dei vecchi monopoli, è stato sempre basato sull’idea che la gestione di questa ipotetica rete unica fosse assicurata da una società completamente terza rispetto a quelle che offrono i servizi. Questo è un altro punto fermo da tener presente.I tentativi parziali di andare in questa direzione, dalla creazione di Open Reach in Gran Bretagna all’operazione immaginata da Telecom Italia ai tempi della seconda guida di Franco Bernabè, avevano mostrato i limiti di separazioni basate solo sulla governance, anche se molto sofisticate come quella di Open Reach. Molti pensano che una garanzia adeguata si ottenga solo con una proprietà diversa della società che gestisce la rete e delle società che gestiscono i servizi di telecomunicazione. Alcuni pensano che la proprietà di questa società debba essere pubblica. Personalmente penso che la proprietà pubblica non costituisca una garanzia sufficiente e che non sia molto importante. Quello che conta è che il gestore della eventuale rete pubblica sia controllato efficacemente dall’AGCOM.

Una conclusione di questi tanti anni di dibattiti è anche che la società che dovesse gestire questa nuova rete dovrebbe essere una cosiddetta “società all’ingrosso” che affitti, senza discriminazioni, le sue linee a tutte le società di servizio. La signora Margrethe Vestager, vice presidente della Commissione europea, ha dichiarato chiaramente che un’eventuale rete unica italiana dovrebbe essere gestita da una società all’ingrosso (5).

Che fare?

Le discussioni sulla rete unica sono anche influenzate da considerazioni sulla connettività come servizio pubblico. Il quadro regolamentare europeo tiene già conto di queste considerazioni. Ma molti, del tutto legittimamente, vorrebbero si facessero progressi maggiori (6).

In ogni caso, la creazione di una “rete unica” non potrebbe avere nessuna influenza diretta sulla mancanza di interesse dei clienti che non sembrano vedere i vantaggi di una connessione in fibra fino alla loro residenza. A fronte di milioni e milioni di case e uffici già oggi “passati” dalle linee in fibra – di Telecom Italia, di Fastweb, di Open Fiber e di altri – ci sono ben pochi contratti effettivi. Non considero una buona idea i voucher che il precedente governo ha introdotto per il consumo di connettività. Ma se questi fossero confermati, coerenza vorrebbe che fossero legati ad un consumo di connettività di buona qualità (riservati ai soli collegamenti in fibra ?).

Il governo dovrebbe soprattutto mettere a disposizione fondi per collegare in fibra ottica scuole, ospedali, uffici giudiziari e ogni pubblica amministrazione e per incentivare i collegamenti in fibra per le piccole e medie imprese. Il collegamento degli uffici pubblici spingerebbe a fare investimenti di cui beneficerebbero anche i clienti individuali situati nelle loro vicinanze.  

Il governo dovrebbe anche riflettere a come fare avere rapidamente collegamenti a banda larga a chi oggi non vi ha ancora accesso. Tanto meglio se questi fossero in fibra ottica. Ma quello che oggi richiedono tanti sindaci di piccoli paesi isolati è di avere un accesso alla banda larga. Per molti di loro avere per i propri cittadini accessi di nuova generazione NGA (almeno 30 mb al secondo) sarebbe già un successo.  

L’eventuale creazione di una rete unica a livello nazionale, con i sospetti che sta creando sui vantaggi che questo o quell’operatore ne potrebbe trarre, è qualcosa che rischia di ritardare la copertura dell’integralità del paese. È quindi necessario che si metta un punto finale a questo dibattito rapidamente. L’incertezza generata dalle discussioni e dai continui cambiamenti di posizione di alcuni interlocutori politici bloccano gli investimenti. È quasi un anno, ovvero dalla metà del 2020, che si discute di questo progetto.

Note a fine testo

(1) Digital Compass. Europe’s Digital Decade: Digitally empowered Europe by 2030 (europa.eu)By 2030, all EU households should have gigabit connectivity“.

(2) Investimento 1.3: Reti ultraveloci (banda larga e 5G).  Da pagina 131.”L’ambizione dell’Italia è di raggiungere gli obiettivi europei di trasformazione digitale in netto anticipo sui tempi, portando connessioni a 1 Gbps su tutto il territorio nazionale entro il 2026.

(3) Commissione europea Digital Economy and Society Index (DESI) Cfr. https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/digital-economy-and-society-index-desi.

(4) Ancora oggi alcuni istituti statistici e centri studi indicano due cifre per il disavanzo pubblico di alcuni paesi e di alcuni anni: con o senza il gettito derivante dal pagamento di queste frequenze.

(5) “In general, with no direct comment to the companies in question here, one can imagine that you have a nationwide wholesaler. That is definitely imaginable.The question is of course, is that an independent wholesaler? Or would a wholesaler also have specific ties vertically to retailers?   That would be an important competition assessment and that would be our general approach no matter what country it would be concerned with” 18 settembre 2020, sessione Q&A della presentazione del Digital Decade Package.      

https://www.affaritaliani.it/economia/tim-695088.html   e   Rete unica: Vestager, valutare se soggetto è indipendente – – ANSA.it

 (6) Si veda l’intervento di Andrea Melodia “TV e video, in rete e via antenna per capire e decidere”, Democrazia futura, I (2), aprile-giugno 2021, pp. 391-394.

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