Democrazia futura presenta un dibattito intorno alle tesi espresse da Lucio Caracciolo nel suo volume “La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa” (Milano, Feltrinelli, 2022). Massimo De Angelis lo considera una lezione di realpolitica e di denuncia di quello che definisce un “europeismo anti-europeo”. Giampiero Gramaglia meno pessimista ritiene ancora possibile un’altra strada: L’integrazione europea può andare avanti… tornando indietro ai sei Paesi fondatori”. Per parte sua, Giulio Ferlazzo Ciano, presenta a trent’anni dalla nascita, Limes in guerra. Gli effetti della “Guerra Grande” visti dalla più importante rivista italiana di geopolitica.
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Scrive Lucio Caracciolo nella “Quarta di copertina” del suo saggio La pace è finita
Trent’anni fa, quando l’Unione Sovietica divenne la Federazione russa, abbiamo pensato che la guerra in Europa fosse finita. Ma a finire, in realtà, fu la pace. Tra l’89 e il ’91 l’ordine mondiale fondato sull’equilibrio del terrore si è esaurito. Nessun nuovo ordine è stato negoziato e non è strano che da allora la politica europea sia destinata all’instabilità. L’oblio del nostro passato ha fatto compiere all’Occidente una serie infinita di errori e così siamo scivolati nell’invasione russa dell’Ucraina come sonnambuli. Ci siamo risvegliati in un’Europa diversa, unita come mai prima. Putin si è rivelato il nemico perfetto, venuto subito dopo la pandemia. La Nato si è rafforzata, gli Stati Uniti si sono riavvicinati. Ma l’unità innescata dalla guerra in Ucraina è del tutto reattiva. Cosa accadrà dopo? Nel 2022 è cominciato un secolo nuovo. La Russia vuole tornare a essere un impero. La Cina è in sintonia con Mosca, ma solo per competere da una posizione di vantaggio con Washington. La Germania deve fare i conti con la sua storia mentre si arma. L’Italia oggi rischia di disgregarsi in molte sub-Italie a vantaggio di potenze vicine e lontane. Questa guerra fa emergere le differenze di interessi delle due sponde dell’Atlantico e la difficoltà a conciliarle. Gli Stati Uniti torneranno ad allontanarsi, oppure le relazioni con l’Unione europea si faranno più tese? La geopolitica del futuro potrebbe somigliare a una versione più complessa di quella del passato. Per capire chi siamo, quel che (non) possiamo, dobbiamo dunque scandagliare le radici antiche dell’oggi. Così scopriremo quanto angolo ci resta per soddisfare la nostra insopprimibile volontà di domani.
Sulle tesi contenute nel volume del direttore di Limes, Democrazia futura ha chiesto un parere a Massimo De Angelis e a Giampiero Gramaglia. Per parta sua Giulio Ferlazzo Ciano, il nostro caporedattore centrale, analizza, a trent’anni dalla sua nascita, la traiettoria della principale rivista di geopolitica impressa da Lucio Caracciolo dopo l’invasione russa in Ucraina.
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Una lezione di realpolitica
di Massimo De Angelis, scrittore e giornalista, si occupa di filosofia. È condirettore di Democrazia futura
La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa di Lucio Caracciolo[1] è libro intelligente, politicamente scorretto perché complesso, irriducibile al “buono – no buono” dei talk show. Parla del mondo dopo-24 febbraio alla luce di una visione realpolitiker oggi dimenticata.
Si intravvedono, nel suo costrutto concettuale, le lezioni di realpolitici quali Sergio Romano, Henry Kissinger, Raymond Aron, Samuel Huntington. Un approccio che mette in crisi il pensiero sulla fine della storia alla Francis Fukuyama, dominante dopo la fine della guerra fredda, e quasi irride quello, parallelo, dell’europeismo, come illusione e sedativo per cuori deboli.
Il 24 febbraio 2022, il colpo di cannone che ha portato nuova guerra in Europa, ha spazzato via tali ideologie.
Quella data segna la fine della pace e un ritorno della storia. Essa chiude un periodo intermedio dopo la fine della guerra fredda, segnato dall’unipolarismo americano e dall’illusione ingenua e interessata che esso potesse aprire un’epoca augustea e magari di pace perpetua.
Vale allora la pena di tornare all’inizio della storia con la quale si misura Lucio Caracciolo.
La guerra fredda, egli sostiene, è stata in realtà un’epoca anzi l’epoca di pace nell’evo contemporaneo. Perché essa si è retta sull’equilibrio di potenza e tra le due superpotenze.
E geniale è stato riconoscere lo status di superpotenza all’Urss anche quando questa non lo era più. È stato il concerto di Vienna – trionfo della realpolitik – del XX secolo. L’equilibrio cosiddetto di Jalta è durato sino al 1989.
Poi è stato spezzato dalla volontà di potenza poco lungimirante del Ronald Reagan delle guerre stellari e dalla risposta “ingenua” di Michail Gorbaciov, giudicato molto severamente da Caracciolo. (A mio avviso, in un senso che chiarirò dopo, troppo severamente).
Sono così seguiti gli anni dell’unipolarismo americano, quelli luccicanti ma non lungimiranti di Bill Clinton. L’America ha pensato di aver condotto il mondo in una sorta di Eldorado mentre la Russia ha compreso che le speranze di un nuovo ordine mondiale fondato sull’interdipendenza erano fole o al più illusioni e ha cominciato a sentirsi umiliata, come la Germania degli anni Venti del secolo scorso. Già con la guerra nei Balcani e definitivamente dopo il colpo di piazza Maidan, realizzato da gruppi ucraini e organizzato in Occidente. E ha iniziato a sua volta a riorganizzarsi.
In questo senso e solo in questo senso il paragone tra Germania nazista e Russia di Vladimir Putin può reggere. In chiave geopolitica. Tutto il resto lo si lascia volentieri alle chiacchiere hollywoodiane.
Nel frattempo si celebravano i fasti della fine della storia, ideologia dell’egemonia americana senza limiti con la sua carica messianica, portata a esportare, ovunque, la democrazia, la propria concezione dei diritti e il proprio way of live.
L’idea di fine della storia all’americana si incontrava con l’idea di fine della storia, pure diversa, all’europea. Qui la ricostruzione di Caracciolo è particolarmente complessa e salutarmente provocatoria.
Europa e anti-Europa
L’europeismo, almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è un’ideologia che ha coperto diverse cose: il desiderio di un continente debellato di uscire da un’epoca di guerre devastanti rinunciando alla politica a favore dell’economia e della tecnocrazia. Anche qui in certo senso una uscita unilaterale dalla storia. Con la conseguente accettazione del protettorato degli americani.
A questa stregua gli europeisti sono stati i più tenaci avversari degli Stati Uniti d’Europa, progetto che avrebbe implicato politica e storia. Perciò Lucio Caracciolo definisce l’europeismo e l’Europa che ne è nata “Anti-Europa”. Questo europeismo antieuropeo nasconde un segreto.
L’Europa per rinascere realmente come soggetto politico unitario aveva bisogno di un federatore che non poteva essere, per peso economico, demografico e per collocazione, che la Germania. Ma l’europeismo, incoraggiato dagli americani, nasce come germanofobo, quanto lo sono Francia e Gran Bretagna. Mira anzitutto ad imbracare la Germania. Ecco svelato il trucco dell’europeismo antieuropeo che accomuna Stati Uniti d’America e Unione europea.
Il racconto di Caracciolo dei vertici tra Margareth Thatcher e Francois Mitterrand nell’imminenza e di fronte alla caduta del Muro è umiliante ed esilarante. Così come il tentativo di fare dell’euro l’ultima riparazione di guerra imposta ai tedeschi. Una condotta che forse costituisce l’ultima miopia anglofrancese quarant’anni dopo il disastro di Suez.
Ma la messinscena europeista entra in crisi insieme all’ideologia americana della fine della storia il 23 febbraio 2022. Essa reggeva infatti finché l’Europa era divisa in blocchi.
È sopravvissuta (sempre più a fatica) nell’epoca di mezzo (1989-2022), anche se l’allargamento ha fatto affiorare crescenti problemi e contraddizioni: con i Paesi dell’Est, Baltici e Polonia in testa, ostili nelle sedi internazionali alla politica tedesca quasi quanto a quella russa.
La guerra in Ucraina decreta che il re è nudo: l’Unione europea, se non deflagrerà, sarà sempre più bicefala e divisa tra un ovest guidato (forse) dai tedeschi ma sempre più diviso e un est ispirato dagli americani. Qui si inserisce il tema, ampiamente trattato da Caracciolo, dell’unità nazionale tedesca che potrebbe, chissà, in futuro, giocare un qualche ruolo.
Ma torniamo a oggi. Intanto da un in qua si è già consumata un’illusione: che la Russia potesse essere spezzata dalle sanzioni e dall’isolamento internazionale.
Si è invece rafforzato l’asse con la Cina ed emerge in prospettiva il duro confronto tra due blocchi. Cina e Russia da una parte, Usa, con Europa al traino, e Giappone dall’altra coi rispettivi alleati. Poi l’importante variabile mediorientale e più a sud ovest il “grande caos” africano.
Un marchiano errore degli Stati Uniti d’America, allora, sulla guerra attuale? Fino a un certo punto. I più oltranzisti tra gli americani speravano forse di “spezzare le reni” a Mosca ma la maggior parte puntava in realtà semplicemente a indebolire la Russia, spingerla verso l’Asia, colpire la relazioni speciali tedesco-russe (dice niente il sabotaggio del North stream 1 contro cui da anni gli Usa tuonavano?), indebolendo così l’altro spauracchio di sempre: la Germania.
Emerge allora il vero obiettivo geostrategico americano da ottenere con la guerra ucraina: vanificare ogni ipotesi di equilibrio mondiale fondato sull’asse euroasiatico, cioè l’asse tra Germania e Russia.
Su questo infine si sono combattute due guerre mondiali. È questa la massima delle regolarità geopolitiche, avrebbe detto Gianfranco Miglio, sulla scia di Carl Schmitt. Le potenze anglosassoni – impero di mare – volte a impedire il costituirsi di una costellazione vincente di potenze di terra. Vera ossessione geostrategica degli americani e in particolare dei democratici d’oltre Oceano.
Si ripensi alla “Dottrina Brzezinski”[2].
Se la si vede in quest’ottica, più la guerra dura più le potenze anglosassoni (i five eyes) si rafforzano, l’Europa si indebolisce e frammenta, accentuando la sua dipendenza dagli Stati Uniti. A questa stregua la guerra ucraina è il completamento “americano” del 1989.
Il 24 febbraio 2022 è questo essenzialmente: contraccolpo russo a una lunga opera di consolidamento strategico americano nell’est europeo, risposta americana che riprende pieno controllo dello scacchiere europeo. Il compromesso alla lunga si può trovare sulle ceneri dell’Europa come soggetto politico. Su questo infine è probabile che anche Vladimir Putin – in concordia discors con Joe Biden – abbia sempre puntato.
Giunti a questo punto, chi scrive avanza una ipotesi diversa da quella di Caracciolo. Essa rinvia al 1989, alla miopia di Margareth Thatcher e Francois Mitterrand e a Michail Gorbaciov.
Chi scrive partecipò all’epoca a conversazioni approfondite con Gorbaciov stesso e con altri suoi collaboratori. E ricorda l’insistenza di Michail Gorbaciov sul fatto che il disegno di casa comune europea poteva procedere solo se non si alimentavano, e anzi si sopivano, le diffidenze degli angloamericani. Quel disegno altro non era, in prospettiva, che un disegno eurasiatico, donde il timore della diffidenza angloamericana.
Che questi ultimi abbiano voluto lasciar marcire il disegno gorbacioviano non stupisce, colpisce piuttosto la miopia anglofrancese. Con gli inglesi pronti ad abbandonare l’Europa e la Francia pronta ad abbarbicarsi al feticcio europeista antieuropeo. Col che si conferma che atlantismo ed europeismo sono fratelli gemelli della germanofobia.
La politica di Michail Gorbaciov fu allora ingenua tanto quanto fu miope e impotente quella dei maggiori Stati europei: Francia, Gran Bretagna e anche Italia. Meno colpevole, per ovvi motivi, la Germania.
Il fallimento di Gorbaciov segnò non solo la disarticolazione per un certo periodo dello Stato russo ma la fine del sogno della casa comune europea e, forse cosa ancora più grave, della sua funzione di cerniera tra Nord e Sud.
Oggi infatti i due blocchi si ridisegnano lungo la faglia tra nord e sud del mondo e questo lascia presagire inquietanti radicalizzazioni e conflitti. È Guerra Grande, come la definisce Caracciolo.
Per evitare che Guerra Grande possa diventare calda occorre forse un nuovo concerto di Vienna del XXI secolo.
Ma per l’intanto, suggerisce più sobriamente Caracciolo, impone che ogni potenza difenda sé stessa senza proporsi di sovvertire i regimi altrui.
Niente disegni di regime change o potrebbero davvero essere dolori. Anche su questo tabù si fondarono del resto sia il concerto di Vienna sia quello di Jalta. Epoche di pace. Non scordiamocelo.
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Ma l’integrazione europea può andare avanti … tornando indietro ai sei Paesi fondatori
di Giampiero Gramaglia, giornalista, co-fondatore di Democrazia futura, ex presidente di Infocivica
La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa è un libro assai ben scritto e bene argomentato, molto tempestivo e molto documentato, in un tourbillon di citazioni. Il suo autore Lucio Caracciolo, direttore di Limes, ne irrora le pagine con la sua competenza e con l’acutezza di analisi e di visione.
E’ una lettura che propone, ad ogni capitolo, provocazioni e/o rovesciamenti di prospettiva: esempi, la Guerra Fredda che diventa “l’unica pace possibile”; il progetto di integrazione europea che diventa “il bluff europeista” alimentato dall’anti-germanesimo di francesi e britannici e funzionale all’egemonia americana; e la fine della storia che diventa “la fine della pace”.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ci ha fatto capire – scrive Lucio Caracciolo, con un’altra sua formula accattivante – che, “nelle maree della Grande Guerra, siamo zattere alla deriva, trascinate da correnti avverse su cui non esercitiamo il controllo”.
Il libro offre elementi per orientarci nel gioco fra super-potenze o potenze o presunte tali o giganti dai piedi d’argilla, Cina, Russia, Usa, Unione europea, avendo come stella polare una robusta – e motivata – diffidenza verso il disegno europeo, non nel segno dell’anti-europeismo d’accatto dei sovranisti, ma come derivata di una lucida valutazione dei difetti d’origine e delle contraddizioni del progetto (o, almeno, di come i protagonisti lo interpretano).
Certo, un europeista convinto può provare qualche fastidio nel leggere i giudizi gelidi di Lucio Caracciolo anche su quelli che sono generalmente considerati i maggiori successi dell’integrazione europea, come la moneta unica – l’euro diviene l’ultima ‘tassa sui danni di guerra’ imposta alla Germania -.
E, a fronte della constatazione dell’incapacità di definire una linea europea nel conflitto russo-ucraino, manca il riconoscimento della capacità invece mostrata, solo due anni or sono, di dare una risposta solidale, coesa ed europea all’impatto economico di una crisi globale, la pandemia.
Lucio Caracciolo, che pure è attento alla cronaca con scrupolosa meticolosità nel suo quotidiano, qui vola alto: il fatto è solo il presupposto dell’analisi; il dato è a supporto dell’assioma – ché di assiomi più che di teoremi si tratta -. E, alla visione, manca – inevitabilmente – la conoscenza di un presupposto essenziale ed aleatorio: come finirà la guerra tra Russia e Ucraina? con un olocausto nucleare? o con una vittoria e una sconfitta? o con un compromesso, in cui l’Occidente – inteso come somma e non necessariamente simbiosi tra Stati Uniti ed Unione europea – e Cina avranno, o non avranno, un ruolo?
Non lo sappiamo noi; e non lo può sapere Caracciolo; al di là della certezza, per altro scontata, che il conflitto modificherà i rapporti di forza, oltre che le relazioni, fra i principali attori globali.
Alcune considerazioni euro-critiche sono validissime: ad esempio, che l’invasione dell’Ucraina ha di nuovo messo in evidenza la faglia fra Europa occidentale ed Europa centro-orientale, formalmente unite nella Nato e nell’Unione europea.
L’osservazione potrebbe portare con sé una conseguenza che Caracciolo non mi pare consideri: per andare avanti, l’integrazione europea deve tornare indietro, cioè a un nucleo più fortemente coeso e votato a divenire Stati Uniti d’Europa, i sei Paesi fondatori, i Paesi iberici, l’Irlanda e quanti altri vogliano starci, con intorno un cerchio di Paesi tenuti vicini solo dal mercato interno e dalla libera circolazione.
Dentro, una visione politica, e ideale, dell’integrazione europea; fuori, una visione mercantilista e, al più, utilitarista. Sempre che l’esito della guerra, che non conosciamo e che gli oltranzismi in campo rendono più incerto, non segni davvero “la fine della storia”.
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Limes in guerra. Gli effetti della “Guerra Grande” (copyright: Limes) visti dalla più importante rivista italiana di geopolitica
di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in Storia contemporanea
Più bel nome non poteva essere inventato: Limes, limite, confine per eccellenza. Per un mensile che ambisce a definirsi “rivista italiana di geopolitica” davvero non poteva trovarsi un nome migliore, ancorato come pochi alla storia di questa fin troppo vecchia Penisola che in quasi tremila anni di storia (quante nazioni al mondo possono vantare un simile primato?), dopo una lunga fase di dominio sul mondo anticamente conosciuto, ha affrontato inenarrabili prove, finendo più volte nella polvere, riuscendo a rialzarsi durante stagioni storiche più o meno durature, sempre comunque avendo a che fare con condizioni che la geografia e gli equilibri politici euromediterranei determinavano a suo vantaggio o svantaggio.
E a determinare le sorti della prima sciagura che si abbatté sul suolo italiano, per certi versi la madre di tutte le sciagure, perché mai più ricomposta, fu proprio il crollo del limite militare (Limes) che separava le terre dell’Impero di Roma dal resto delle terre più o meno incognite dove vivevano i barbari. Ovvero, almeno all’inizio, i Germani, quegli stessi che, col senno di poi, erano destinati a essere i padroni del mondo, ancor più di quanto lo fossero stati i Romani, servendosi dell’Europa romanizzata, secoli dopo le loro invasioni, come trampolino di lancio per colonizzare nuovi mondi al là dell’Oceano: Angli e Sassoni, mischiati con Vichinghi e Danesi, che andarono a formare il primo substrato etnico dell’anglosfera, estesa dal Nordamerica all’Australia, con perno sulle isole Britanniche; Franchi e Burgundi, all’origine della Grande Nation, la cui eredità storica annovera ancora oggi succursali africane (Françafrique), creolo-caraibiche, acadiane e cajun; Visigoti e Vandali, assieme ad altri gruppi minori, finiti a mischiarsi con le genti originarie della penisola Iberica, i cui discendenti, sotto forma di conquistadores e bandeirantes, fornirono il fondamentale materiale umano volto alla conquista e al modellamento di gran parte del Mondo Nuovo oltre l’Atlantico a sud del Rio Grande. E non dovremmo dimenticare neppure i discendenti dei Batavi e dei Frisoni, che hanno dato il loro contributo di conquista e plasmazione del mondo extraeuropeo con la VOC, i vrjburgers boere e, più tardi, con i voortrekkers.
Tutto questo a causa di un Limes, che doveva essere la più salda protezione a salvezza di un Impero latino-ellenico, travolto in più ondate successive da orde incontenibili di popoli desiderosi di far bottino e mettere a ferro e fuoco intere regioni e città. Com’è importante il Limes.
Se è vero che questa storia dimostra che non c’è Limes che tenga, è pur vero che la formula editoriale di Limes – in questo caso la rivista – tiene saldamente la presa, pur con qualche recentissimo concorrente nato da scissione interna, sul mercato nazionale delle pubblicazioni periodiche dedicate a questa scienza non esatta, figlia anch’essa del pensiero germanico-anglosassone (vedasi alla voce Halford John Mackinder e al suo The Geographical Pivot of History,anno 1904) e che ha dovuto aspettare diversi decenni prima di attecchire definitivamente nel Paese decano della cultura latina, l’Italia.
Correva infatti l’anno 1993 quando Lucio Caracciolo, giornalista con importanti trascorsi nella rivista MicroMega, dava alla luce la sua creatura giunta oggi al trentesimo anno di vita.
Trent’anni di Limes
Giusto trent’anni fa, nel febbraio 1993, usciva il primo numero, allora bimestrale, dal significativo titolo “La guerra in Europa. Adriatico, Jugoslavia, Balcani”. È proprio vero che aveva ragione Eraclito: Pólemos, padre arcigno e sovrano di tutte le cose, è tanto attaccato ai suoi figli e sudditi umani da non volerli mai lasciare troppo soli e in pace. E così, dopo ventinove anni dal fallimentare piano Vance-Owen, pensato per appianare quel conflitto interetnico balcanico, così vicino al limite geografico della nostra Penisola e che era al centro dell’attenzione del primo numero di Limes, molti di noi sono corsi alle edicole per acquistare il volume numero 2 del 2022 dal titolo “La Russia cambia il mondo”. Pólemos è tornato.
Un’altra guerra, un po’ più lontana dall’Italia, ma ben più pericolosa di quel sanguinoso ma circoscritto conflitto civile con cui Limes iniziò la sua storia editoriale. La rivista, che durante questo tempo non ha mai smesso di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di pensare al mondo che circonda il nostro Paese come un’opportunità da saper sfruttare, ma anche come una selva oscura piena di pericoli e trappole da non sottovalutare, spronando (per quanto possibile) le classi dirigenti politiche nostrane ad avere una visione realistica delle relazioni internazionali (realpolitik in senso proprio) senza indulgere in sconsiderati irenismi ideologici in salsa europea o in imprudenti rendite di posizione date da decenni di relativa calma garantita dalla pax americana, si ritrova dunque a fare i conti con una crisi geopolitica di sistema, tentando di spiegare a noi spettatori stupefatti dettagli ancora poco chiari e svelando qualche retroscena di un evento bellico che rende inquieto e cupo il nostro presente e dispiega sul nostro futuro un immenso punto interrogativo.
Perché il mondo attorno a noi brucia.
Complice un multipolarismo che lascia emergere gli appetiti di potenze di taglia grande e media, riemerse dall’oblio della storia più o meno aggressive e spregiudicate, complice il caotico fallimento istituzionale di molti Stati di recente fondazione, spesso post coloniali, sovente seduti su giacimenti immensi di materie prime fondamentali per la moderna industria, complice lo strisciante scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington e complici infine i nefasti effetti del tentativo fallito di estendere la liberal-democrazia occidentale all’intero orbe terracqueo, così da porre fine alla storia per far trionfare liberi scambi commerciali, progresso tecnologico e un’infinita stagione di pace, ci ritroviamo circondati da regioni con conflitti latenti o manifesti, territori che proprio Limes non ha esitato negli ultimi anni a definire, con un neologismo coniato per l’occasione, Caoslandia.
Limes ha infine definito l’attuale guerra russo-ucraina Guerra grande (che vogliamo sperare non si trasformi in una nuova Grande guerra, come quella del 1914-1918, e come il suo secondo tempo, nel 1939-1945) e “La guerra grande” è anche il titolo del settimo numero del 2022, in cui si evoca la possibilità di essere all’inizio dello scontro decisivo tra Occidente a trazione nordamericana da una parte, Russia e Cina dall’altra. E il resto del mondo a chi se lo potrà aggiudicare.
Limes quindi ha anche aggiornato il nostro vocabolario, coniando espressioni fortunate, anche se circoscritte a una base di per sé ristretta di appassionati professionisti o dilettanti della geopolitica. Tuttavia è indubbio che il passaggio dalla stagione di Caoslandia (la stagione dell’allarme distante a cui si sarebbe dovuto dare ascolto) alla stagione della Guerra grande (quella delle campane a martello che suonano l’allarme generale) è stata seguita e descritta con dovizia di particolari e con equilibrio fra le parti, dando la parola, oltre che ai collaboratori italiani della rivista, anche ad esperti e accademici di diverse aree del globo, statunitensi, ma anche russi e cinesi.
Un metodo per aprire una finestra, in modo diretto e senza filtri, su modi di concepire il mondo e piani di sviluppo che parlano di noi, ma da punti di vista nettamente opposti al nostro. E non sempre a nostro vantaggio.
Non solo guerra russo-ucraina
Eppure in questo 2022 appena terminato il compito di Limes non si è limitato alla descrizione del conflitto in Ucraina, perché in effetti il caos non è solo lungo le rive del Dnepr, ma, come si è visto negli ultimi tempi, anche sulle rive del Potomac. Ed è per questo che è senz’altro lodevole l’iniziativa di Limes, pur in questi tempi di guerra russo-ucraina e di attenzione concentrata su Kiev e Mosca, di accendere un faro sugli Stati Uniti d’America e sul conflitto latente che li attraversa, come si legge sull’interessante numero 11 del 2022, dal titolo “America?” e sottotitolo “Se gli Stati Uniti resteranno uniti è la questione del secolo. Dalla risposta dipende il nostro destino”. Tanto più vero che il sottotitolo del numero successivo della rivista, dal titolo “L’intelligenza non è artificiale”, recita “La Cina sfida il primato tecnologico Usa” e che nel primo articolo di quello stesso numero, a firma di due accademici cinesi (He Tian e You Ji), si legge fin dal titolo “La Cina sconfiggerà gli Usa con l’intelligenza (artificiale)”, terreno di scontro per il primato geo-tecnologico. Ecco quindi che la Caoslandia statunitense, emersa dopo la caotica esperienza presidenziale di Donald Trump, rischia, secondo la lettura di Limes, di evolvere in una fase della Guerra grande che si deciderà in base a chi arriverà primo nella gara per l’innovazione tecnologica digitale. Che avrà naturalmente delle ripercussioni decisive sulla tecnologia militare. Facendo un parallelismo con l’epoca della prima grande fase della globalizzazione, quella successiva alle cosiddette “scoperte geografiche”, quando gli agili cannoni europei montati su imbarcazioni a vela altrettanto agili e veloci fornirono l’opportunità agli occidentali di impossessarsi, colonizzare o tenere in ostaggio (come nel caso della Cina) altre terre e continenti, proprio in ragione del loro primato tecnologico, così nel XXI secolo la Cina potrebbe avere l’opportunità di rifarsi sugli occidentali nel caso dovesse vincere la partita tecnologica.
Di questa partita non si può fare altro che osservarne a distanza gli esiti, da cui dipenderanno il destino dell’Europa e, da ultimo, dell’Italia. Una guerra tecnologica si affianca quindi a una guerra reale, combattuta e sofferta, finora geograficamente limitata a un ristretto scacchiere. Entrambe le guerre, possiamo immaginarlo, saranno osservate e scrupolosamente analizzate dalla rivista che continuerà ad offrire un apporto per nulla conformista (cosa assai rara per un’iniziativa editoriale italiana) a un dibattito che incrocia discipline storiche, politiche, economiche, geografiche e tecnologiche, che anima i settori più consapevoli e informati della nostra società civile. Sperando che la fine della Guerra grande non segni anche simbolicamente il crollo di un altro Limes, creduto fino ad oggi inespugnabile, e il conseguente definitivo tramonto dell’Occidente.
[1] Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Milano, Feltrinelli, 2022, 144 p.
[2] La dottrina Brzezinski, dal nome del consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski durante la Presidenza di Jimmy Carter sulla base della dottrina Truman, nasce “per rendere chiaro che i sovietici debbono stare lontano dal Golfo Persico”. Poiché al tempo gli Stati Uniti non avevano una presenza militare significativa nell’area del golfo Persico, l’amministrazione Carter per supportare la propria dottrina istituì la Rapid Deployment Force (forza militare di intervento rapido), rifiutò gli accordi sul controllo degli armamenti ed aumentò la presenza navale nel golfo Persico e nell’oceano Indiano.