Il secondo tomo del dodicesimo fascicolo di Democrazia futura dell’autunno 2023 comprendente !2/C CLIO, Storia del presente e 12/D LEXICON, Rubriche, glossario: (anno III (12), ottobre-dicembre 2023, pp. 1801-1962), è finalmente caricabile ai seguente link: http://digital.casalini.it/5855926.
Cosa offrono Clio, terza parte e Lexicon, quarta parte di questo dodicesimo fascicolo
Presentazione. Questo numero
12/C Clio. Storia del presente e scienze umane. Critica del presentismo, della società e dell’ideologica tecno-scientista digitale
Apre questa terza parte dedicata alla storia e alle scienze umane una recensione di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, apparsa sul quotidiano Domani e dal significativo titolo “Non orfani ma multipatriottici. L’europeismo è l’unica patria possibile”[1] che prende spunto dall’uscita del saggio di Vittorio Emanuele Parsi, Madre Patria. Un’idea per una nazione di orfani (Milano, Bompiani, 2023, 192 p.). Pasquino giudica compatibile questa perorazione patriottica con le tesi formulate dallo studioso inglese Timothy Garton Ash in merito all’idea di patrie al plurale. Una storia personale di Europa che lo scienziato politico torinese considera «un’ottima lezione di post-patriottismo». Invero, al di là delle reminiscenze delle orazioni di Pericle e Cicerone, Pasquino nelle conclusioni volge il suo ragionare sull’idea di Patria dal passato al presente in questi termini: «Poiché sono giunto alla convinzione che recuperare la patria, concetto e azione, è un’operazione probabilmente impossibile, sicuramente di retroguardia, la mia visione e la mia analisi vanno verso l’europeismo. Dirò, con Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, che il compito più alto, la sfida più significativa per le patrie e i patrioti consiste nel consapevolmente fare molti passi avanti per convergere sulla patria europea».
Stefano Rolando prende spunto da due libri, il primo di Antonio Fumiciello, già capo di gabinetto con Mario Draghi, dopo esserlo stato con Paolo Gentiloni, intitolato Leader per forza. Storie di leadership che attraversano i deserti, con l’analisi dei casi di Mosè, Golda Meir, Truman, Cavour, Mandela, Havel e Angela Merkel, il secondo di Henry Kissinger, Leadership. Sei lezioni di strategia globale, con l’analisi dei casi di Adenauer, De Gaulle, Nixon, Sadat, Lee Kuan Yew, Thatcher e le conclusioni dedicate all’evoluzione della leadership. L’obiettivo dell’articolo aprire “Discussioni sulla leadership. Appunti per una terza Repubblica che non pare all’orizzonte”[2]. “Il consenso – secondo Rolando -è il fattore che più mobilita studi che hanno a che fare con la trasformazione della comunicazione politica e con il rapporto tra spiegazione e propaganda nella politica internazionale del Novecento (e le eredità di queste contrapposte tendenze) […] la lettura di testi di testimonianza (conosciuti personalmente) e analisi (studiati) […] hanno l’utilità di far discendere parametri di classificazione da una casistica maiuscola. Ma producono anche la frustrazione di vedere ormai, per esempio in Italia, la rarefazione di quelle esperienze. Un’evaporazione di modelli, una sostituzione di leadership-lampo regolate dal potere cinico dei media che creano e distruggono la visibilità in relazione alla teoria del “trending topic”, che da noi si chiama poi “l’aria che tira”. Quindi in un quadro regolato dal fattore più antitetico alla vera leadership: il presentismo. Al termine del suo testo Henry Kissinger intitola il passaggio evolutivo “Dalla aristocrazia alla meritocrazia”. È un passo non irrilevante. Ma l’altro è connesso al ritorno alla formula democratica dell’organizzazione dei partiti rappresentati, liquidando i partiti personali, quelli con liste fantoccio, quelli concepiti come tasselli di copertura elettorale di alleanze che si disfano il giorno dopo, eccetera. Il ritorno della leadership, insomma. Precondizione di una ricucitura tra istituzioni e società.
Lo storico Salvatore Sechi, già docente nelle università di Bologna, Ferrara e Berkeley, nel suo saggio breve “Il comunismo emiliano: variante storica della socialdemocrazia”[3], svolge un’approfondita disamina su una ricerca della Fondazione Gramsci di Bologna, a cura di Luca Baldissara e Paolo Capuzzo, pubblicata per i tipi de Il Mulino con il titolo Il comunismo in una regione sola? Prospettive di storia del Pci in Emilia-Romagna. Fra le varie osservazioni e note a margine lo storico sardo osserva criticamente come «il Pcd’I nacque e si sviluppò legando, per un lungo periodo di tempo, il tema pervasivo della violenza a bisogni e momenti diversi: dalla lotta al fascismo, alla guerra di Spagna, alla Resistenza; dai rapporti con la classe operaia ai ceti non facili del mondo contadino; dalla salvaguardia della propria unità intessuta di solitudine e isolamento all’esigenza, stabilita dal VII congresso dell’Internazionale nel 1937, di creare alleanze ampie, non ideologicamente conformi, ma utili dando la priorità all’antifascismo. Ha che fare con la violenza lo stesso controllo dei militanti, l’educazione alla disciplina, la lotta per colpire spie e disertori, ed isolare o emarginare chi deborda nell’estremismo e nel farsi vendetta da sé. Saranno le vicende delittuose, i molti episodi di giustizia sommaria, legati al “triangolo della morte” (compreso tra le province di Modena, Reggio Emilia, Bologna, Ravenna e Ferrara) nel 1947-1948 a segnalare come il mito della rivoluzione sovietica e l’esempio di Stalingrado, non trovando se non una parziale soddisfazione negli atti di governo del Pci avesse riaperto un varco nella base del partito a radicalismi e strascichi puramente vendicativi. Una sorta di risposta alle moltissime violenze subite nel 1919-1920. Il partito ebbe un disegno anticapitalistico e un modello che – non esclusivamente, ma in molta parte dei suoi dirigenti – è stato a lungo assimilabile a quello di Lenin e dei bolscevichi. In Urss non pochi leader, diventati comandanti militari, commissari politici e poi dirigenti di partito o anche (ma meno) amministratori, erano vissuti anche lungamente. Poiché nel volume non ce n’è traccia, mi chiedo come sia possibile che da essi non sia pervenuta una memoria o una parola di critica del libero arbitrio nell’esercizio della violenza dominante nella patria della dittatura del proletariato».
Lo stesso Salvatore Sechi intervista il professor Raffaele Lungarella[4], docente di Economia applicata all’Università di Modena e Reggio nell’Emilia, in merito a due scritti del reverendo Joseph Townsend raccolti con il titolo, certo provocatorio, de Il disprezzo per i poveri, il cui sottotitolo vuole porre in evidenza l’avversione liberista per lo stato sociale. Da tale conversazione è emerso l’articolo dal titolo “Contro i poveri anche il liberismo inglese del XVIII secolo”. Partendo dalla constatazione che il pamphlet di Townsend «conteneva una critica serrata delle leggi (l’importante Poor Law) in base alle quali i poveri erano aiutati a sopravvivere», proponendo persino la loro stessa abolizione, ciò che a Lungarella preme evidenziare è che i suoi scritti «possono aiutarci a interpretare alcune concezioni ideologiche e posizioni politiche. Probabilmente i liberisti più radicali non hanno una consapevolezza che la loro avversione per le politiche pubbliche, che costituiscono un indispensabile intervento per fronteggiare i danni sociali e umani prodotti dall’economia di mercato, iniziò a maturare già nel Settecento».
Francesco Farinelli e Franco Bonazzi, il primo dottore di ricerca in Storia e autore di saggi in materia di terrorismo, il secondo già comandante dell’Aeronautica Militare e autori di Ustica, i fatti e le fake news. Cronaca di una storia italiana fra Prima e Seconda Repubblica (Vicchio, Logisma, 2019) in “Revolution su Ustica, un’intervista inappropriata”[5] riaprono il dibattito emerso in seguito all’intervista rilasciata a La Repubblica da Giuliano Amato in merito alle responsabilità francesi sull’abbattimento, nel giugno 1980, del DC-9 della compagnia Itavia nelle acque del Tirreno. E l’occasione fornisce agli autori l’opportunità di lasciare poco spazio alla diplomazia: «è sconcertante che un ex presidente della Corte costituzionale rilasci un’intervista che diffonde notizie fuorvianti, già sconfessate in sede penale, allontanandosi, in alcuni casi, anche rispetto a quanto invece lo stesso aveva dichiarato, sotto giuramento, ai giudici proprio nel corso di una delle 272 udienze della Corte di Assise di Roma (dicembre 2001)». A patto di accettare o, come sostengono gli autori, di non travisare «le conclusioni della prima Commissione d’indagine mai realizzata sul caso, quella tecnico-amministrativa attivata nel 1980 dal Ministero dei Trasporti» che di fatto escludeva l’ipotesi missilistica.
In occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata del poderoso saggio dello studioso di storia e documentarista del Senato Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo (Milano, Bur-Rizzoli, 2024), Salvatore Sechi intervista l’autore che con questo lavoro si propone di “Rifiutare le teorie complottiste e il sensazionalismo veicolato dai media”[6] che troppo spesso hanno macchiato l’analisi degli episodi più inquietanti della storia repubblicana. Secondo Satta in effetti «pare priva di fondamento la tesi che nel 1947, a Portella della Ginestra, sia iniziata una strategia della tensione andata avanti fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica di inizio anni Novanta» mentre, per quanto riguarda eventuali disegni eversivi, contemplati ad esempio in merito alla strage del 2 agosto 1980 a Bologna, respinge senza mezzi termini tale ipotesi, ritenendola «priva di qualunque fondamento» e aggiungendo inoltre che «neofascismo e pulsioni eversiveebbero come teatro la crisi dei governi del centro-sinistra e gli strascichi dell’intenso ciclo di protesta studentesca e operaia del biennio 1968-1969. Vale la pena di ricordare che allora, direi per giunta, lo Stato aveva finalmente avuto la forza di reagire con efficacia, sciogliendo a fine 1973 la più bellicosa organizzazione di estrema destra, Ordine Nuovo (stessa sorte toccò nel 1976 ad Avanguardia Nazionale)». Pur ammettendo che «nelle stragi e nelle trame 1969-1974 è evidente l’ispirazione ideologica di fondo neofascista (o neonazista, se si preferisce)», l’autore de I nemici della Repubblica è d’accordo con la tesi che il MSI «non [riuscisse] a frenare e controllare». Tanto più che, aggiunge Satta, «La NATO e gli Stati Uniti d’America non hanno mai sostenuto il terrorismo nero. Il comandante Junio Valerio Borghese sperò di portare gli Stati Uniti dalla sua parte al tempo dei preparativi del golpe poi tentato nella notte tra 7 e 8 dicembre 1970, ma non aderirono. Altrettanto fecero rispetto alle velleità della “Rosa dei Venti” e di Edgardo Sogno». Infine, per quanto riguarda la strage di Bologna, fra le varie ipotesi andrebbe approfondita quella secondo la quale il movente andrebbe ricercato nella «violazione da parte dell’Italia del “lodo Moro” avvenuta nel novembre del 1979», ovvero la pista palestinese finora ignorata dalla magistratura bolognese
Rassegna di varia umanità. Elzeviri, interviste, analisi, commenti, interpretazioni, ricordo e altre amenità dello spirito, del pensiero e del gusto
Giampiero Gramaglia, giornalista e co-fondatore di Democrazia Futura, ricorda la figura di uno dei più noti segretari di Stato americani, recentemente mancato, in “Kissinger, uomo di potere la cui azione ha segnato il XX secolo”[7]. «Nella sua lunga carriera e nella sua lunghissima vita – scrive l’ex direttore dell’Ansa – Kissinger è stato l’uomo di molte stagioni, non tutte luminose e positive. Fra le buone, che oggi viene più facile ricordare: il dialogo con la Cina partendo dalla diplomazia del ping-pong, che però conteneva i germi dell’ambiguità su Taiwan oggi palese; il ritiro dal Vietnam, avvenuto con modalità che, quasi cinquant’anni dopo, avrebbero avuto un’eco nel catastrofico ritiro dall’Afghanistan; il processo di distensione in Europa, culminato nell’Atto di Helsinki del 1975. Ma è stato anche – ricorda Gramaglia – l’uomo delle mene statunitensi in America latina, da Pinochet in Cile alle dittature militari in Argentina e Brasile e altrove; o dei bombardamenti e dell’invasione della Cambogia, prima d’arrendersi all’evidenza della sconfitta in Vietnam. All’Europa, riservò lo scherno di uno dei suoi più celebri aforismi: purtroppo ancora valido: “Non c’è un numero di telefono per chiamarla” – come dire che l’Europa, in sé, non esiste, ma ci sono i singoli Stati, molto più funzionali al ‘divide et impera’ da lui praticato».
Sempre Giampiero Gramaglia offre un ricordo personale da adolescente che assiste alla grande storia attraverso il piccolo schermo in “60 anni fa, John Fitzgerald Kennedy veniva assassinato”[8]. Iniziando così: «22 novembre 1963. Un ragazzino italiano di 13 anni, già affamato di notizie, ma anche di Carosello, accende la tv all’ora del telegiornale: c’è un solo canale, niente scelta. Ma in tv c’è il monoscopio e musica classica: il ragazzino, sorpreso, chiede spiegazioni ai genitori, che non sanno che dire. Poi, tra un brano e l’altro, la voce di una annunciatrice spiega: “Le trasmissioni sono momentaneamente sospese in attesa di un’edizione straordinaria del telegiornale per l’uccisione a Dallas del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy”. Il ragazzino grida la notizia ai genitori e scoppia a piangere: è morto un suo mito, un suo eroe, glielo hanno ammazzato. JFK, il presidente più giovane mai eletto nella storia dell’Unione».
Ancora un ricordo dello stesso Giampiero Gramaglia, questa volta riguarda la cattura del rais di Baghdad: “Saddam Hussein: come un topo in una tana diventata trappola”[9]. Vent’anni fa, domenica 14 dicembre 2003, iniziava con quelle parole il pezzo inviato dall’allora corrispondente dell’ANSA a Washington. ”È una buona giornata” dicono alla Casa Bianca; e lo pensano gli americani, che a Washington si svegliano con la neve alta e le tv che raccontano già tutto e mostrano quell’uomo coi capelli arruffati e la barba lunga, uno degli Hitler del XX secolo. Una buona giornata perché un dittatore assicurato alla giustizia, quella – dice il presidente George W. Bush – che “lui aveva negato a milioni d’iracheni”, “è una cosa buona”». Tuttavia – conclude Gramaglia – «l’arresto del rais non segnerà la fine della guerriglia contro l’invasione e non sarà neppure il trionfo della giustizia: Saddam sarà processato, condannato a morte, giustiziato il 30 dicembre 2006, tutto in modo frettoloso e non sempre trasparente. Più che per i suoi delitti, atroci e criminali, c’era fretta di sbarazzarsene perché restava ingombrante».
Prendendo spunto da un docufilm di Riccardo Milani, Stefano Rolando in “Giorgio Gaber a vent’anni dalla morte. Che memoria ne ha l’Italia?”[10] delinea un ritratto del cantautore milanese inserendolo nel contesto artistico meneghino, musicale e teatrale, che rappresenterebbe «il salto dall’Italia del neo-realismo all’Italia del neo-surrealismo». Infatti, continua l’autore, «rispetto al surrealismo filologico degli anni Venti del Novecento (l’irrazionale, il sogno, la psiche), questo nuovo impasto artistico è l’espressione “irriverente” di uno scrollone civile rispetto al conformismo borghese e alla parte del cattolicesimo più conservatore. Scrollone raccontato anche in modi paradossali. Cioè, in forme a volte un po’ grottesche, satiriche, con umorismo che talvolta rasenta il nonsense».
Il giornalista e scrittore Lucio Leante in “Il delirio bellicista degli intellettuali interventisti (1914-1918)”[11]ripropone un argomento ancora oggi molto dibattuto e che non manca di lasciare in sospeso interrogativi e ipotesi di storia alternativa, come nel caso, ad esempio, che l’Italia fosse rimasta neutrale durante il primo conflitto mondiale. Leante ricorda correttamente che «l’ansia di “purificazione” del mondo europeo fu il sentimento comune che spinse molti intellettuali di diverso orientamento culturale e politico a vedere nella violenza bellica o rivoluzionaria il solo mezzo per rigenerare la società europea». E quindi l’autore dà spazio ad alcuni di questi intellettuali, con le loro motivazioni a favore dell’entrata in guerra: Giuseppe Prezzolini, il cui interventismo è «liberale e cosmopolita», Gaetano Salvemini, a favore de «l’interventismo democratico», e poi ancora Carlo Emilio Gadda e Corrado Alvaro, riproponendo per alcuni di essi il pentimento subentrato negli anni successivi. E così per Prezzolini prevalse «il disincanto di un “apota”» mentre per Papini «il rimorso e l’approdo al crocifisso». Al contrario, Benedetto Croce «fu profeta lucido, ma inascoltato» e fu così che – conclude Leante – «molti intellettuali andarono alle due guerre civili europee del XX secolo con un inspiegabile entusiasmo per il massacro reciproco e con odio per il vicino europeo, che si rivelò sempre più come suicidario».
12/D LEXICON Rubriche, glossario, selezione artistica
Questa quarta parte raccoglie le rubriche, la parole-chiave di un glossario e la selezione dell’artista individuato per illustrare i tre tomi di questo dodicesimo fascicolo della rivista, curata come sempre dal professor Roberto Cresti.
Fra i più agghiaccianti esperimenti avviati dal regime nazionalsocialista, il progetto Lebensborn, ovvero Sorgente di Vita, fu uno dei diversi programmi avviati dal gerarca nazista Heinrich Himmler per realizzare le teorie eugenetiche del Terzo Reich sulla razza ariana e portare la popolazione ariana in Germania a 120 milioni di persone entro il 1980. Da qui prende spunto, in apertura di questa quarta parte della rivista, il racconto “Farfalle dietro la porta”[12], che il regista e sceneggiatore Silvio Maestranzi ha scritto in previsione di farne una fiction, con il quale Democrazia Futura avvia la pubblicazione di opere narrative ancora inedite.
Rubriche
Silvana Palumbieri, autrice, regista e realizzatrice di documentari presso Rai Teche, per la rubrica Almanacco d’Italia e degli italiani ripropone il testo di un documentario realizzato per Rai Teche nel 2009 in occasione delle celebrazioni del centenario del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti: “Futurismo che passione!”[13]. Ben riassume la nota finale del testo il valore di un documentario che «ha recuperato dagli anni Trenta rare immagini di Marinetti, e tante voci. […] Rari i fotogrammi del cinema fantastico di Bragaglia, tanti i disegni della città nuova dell’architetto Sant’Elia. E ci sono i suoni. Dalle casse di Russolo anziché musiche rumori per cogliere il fragore della città. Canzoni d’epoca per accompagnare l’azione politica di Marinetti, in prima linea nell’irredentismo, nelle guerre, nell’azione di piazza e nella nascita di nuovi gruppi politici. Le immagini sono spezzoni d’archivio, dipinti, foto e scritte».
Per la rubrica Riletture Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico, propone “Thomas Bernhard, La Fornace (1970)”[14]. Pubblicata a Francoforte sul Meno nel 1970 dall’editore Suhrkamp, tradotta nel 1986 in italiano per i tipi di Einaudi, La fornace è oggi riproposta da Adelphi nella traduzione originale di Magda Olivetti. Scrive l’autore della rilettura: «la fornace descrive un mondo, un paesello, una società, un uomo, una casa, una violenza, una sottomissione, una frustrazione, un’inquietudine, una maledizione», aggiungendo inoltre che «ci occupiamo di cose che vanno dall’inferno in giù. E La fornace è un inferno. E, nella fornace, c’è l’inferno. Si sa. E qui ce ne sono due. C’è anche l’inferno dei rapporti umani, l’inferno della solitudine, della fame, della povertà, delle stanze disadorne e senza arredi, ma di una grandezza enorme. E del silenzio».
Con Carlo Rognoni Democrazia futura inaugura una nuova rubrica, La Grande Tela e la Civiltà della Rete, che si propone di discutere su come ricostruire nell’era della grande trasformazione digitale un sensus communis, una sfera pubblica, un destino e un nuovo umanesimo condivisi da miliardi di soggetti che popolano il nostro pianeta. In questo primo contributo l’ex consigliere Rai e vicepresidente del Senato, facendo proprie alcune analisi sviluppate da grandi sociologi come Zygmunt Bauman e Shoshana Zuboff cerca di rispondere alla domanda: “A cosa serve la politica oggi?”[15]. A parere di Rognoni “una proposta politica – che non può essere disgiunta da un modello organizzativo e da un livello di saperi e competenze – deve riconoscere le tante spinte per la ricerca di un’identità individuale che caratterizzano la società odierna. Deve anche sapere integrare la flessibilità e frammentarietà della rete, scambiando con i propri aderenti il potere di decisione. Non c’è solo adesione a una proposta, ma dev’esserci condivisione”.
Lo storico contemporaneista Salvatore Sechi, per la rubrica Fresco di stampa in “I delitti e le pene di un comunista liberale”[16] recensisce il volume Luigi Cavallo. Da Stella Rossa alla rivolta operaia di Berlino scritto dalla vedova Lorenza Pozzi Cavallo (Torino, Golem edizioni, 2023, 687 p.). Scrive Sechi, per far comprendere al lettore l’apparente ossimoro del titolo dell’articolo, che «il comunismo presentò il volto feroce di un dispotismo che già nel 1939 […]. Dopo il 1945 Stalin avrà un atteggiamento quasi neocoloniale nel dare vita alle micidiali macchine totalitarie dei partiti-Stato in Europa orientale. A un sincero militante come Luigi Cavallo, che aveva identificato il comunismo nell’ampliamento delle libertà e nel contenimento delle diseguaglianze, già nel 1949 non resterà che prendere atto come il contenitore (lo stalinismo) fosse l’opposto del contenuto. Di qui la rottura col Pci. Paglia e fieno di Mosca». Sfortunatamente per Luigi Cavallo, aggiunge Sechi, «per un anti-comunismo genuino, orgoglioso delle proprie ragioni e prove, e non di mere escursioni agitatorie e pregiudizi, in Italia non c’era spazio», tanto da spingere il protagonista di questa biografia e la sua compagna all’esilio in Francia e negli Stati Uniti. E come non bastasse, giunse anche l’accusa «di aver ordito un colpo di Stato (golpe bianco) di concerto con l’ex segretario del partito repubblicano Randolfo Pacciardi, e l’ex ambasciatore a Saigon Edgardo Sogno». Fantasie che la giustizia italiana alla fine ha saputo riconoscere.
Per la stessa rubrica Fresco di stampa la cultrice di storia e di critica letteraria Sara Carbone propone la recensione della monografia di Anna Foa, Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni (Bari, Laterza, 2022, 312 p.), in “Storia di una piccola minoranza e del suo rapporto con la maggioranza”[17]. E lo fa precisando che Foa «si mette sulle tracce degli ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ponendo al vaglio le fonti storiche disponibili e individuando nella parte meridionale dell’Italia, fino alle città di Roma e Ostia, “il cuore della diaspora occidentale” degli ebrei: si tratta di insediamenti antichi che risalgono a un periodo precedente alla distinzione tra ashkenaziti e sefarditi e all’interno dei quali, all’inizio, non si registrano differenze di costumi rispetto alle altre comunità ebraiche fuori dall’Italia». Ma in questa storia antica, di convivenze, turbolenze, ma anche integrazione riuscita, emerge infine il 1938 e l’infamia delle leggi razziali. In tutta questa lunga narrazione, precisa Carbone, «lo stile di Anna Foa, fedele al suo obiettivo di non scrivere per i suoi colleghi ma ai fini di una “divulgazione alta”, è quella di Federico Chabod, caratterizzato da semplicità sintattica e da un lessico piano ma sempre rispondente al valore dell’esattezza terminologica».
Ancora Salvatore Sechi sempre per Fresco di stampa in “Raffaele Mattioli, il principe rinascimentale del Novecento”[18] illustra il volume di Francesca Pino, Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale (Bologna, il Mulino, 2023, 412 p.) definendo lo stesso Mattioli come «il principe rinascimentale del Novecento». Direttore dal 1933 al 1972 della «Banca Commerciale Italiana, salvandola dal tracollo durante la crisi del 1929, [Mattioli] ha lasciato il segno nelle scelte di politica economica dei governi postfascisti. Ma sarà ricordato – aggiunge lo storico sardo – anche per il fiume di iniziative di grande prestigio culturale (nei campi dell’editoria, dell’economia, della letteratura, della storiografia, della memorialistica eccetera) in cui ha versato tempo, intelligenza, passione e soldi […] Questa biografia intellettuale segna un punto fermo nella storiografia perché rifugge dall’infatuazione acritica. Era, ed è, facile lasciarsene coinvolgere con un grande imprenditore come Mattioli. Pino riesce a far a scemare la tentazione della venerazione, se non della costruzione del mito. Ogni vicenda, e sono innumerevoli, è ricondotta alla misura e alla discrezione di quanto si può dimostrare, cioè delle moltissime fonti utilizzate» conclude Sechi.
Per la rubrica Memorie nostre Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi all’Università di Napoli, in “La scomparsa di Toni Negri”[19] affronta l’ardua impresa di saper distinguere “una fredda eredità intellettuale” da una “calda lezione politica”, come recita l’occhiello. E lo fa fin dalle prime battute, sottolineando come «l’aura sulfurea che ha circondato Toni Negri non si è certo dissolta con la notizia della sua scomparsa. Così come non si è problematizzata quell’adesione mitica che certa sinistra, come abbiamo letto sul quotidiano Il Manifesto, continua ad attribuirgli senza l’ombra di una critica. E del resto proprio lo scenario culturale attuale, politicamente rattrappito, non aiuta a riflessioni più complesse e articolate». Eppure, simili riflessioni servirebbero, come ben sottolinea Mezza, a ricordare almeno come «Negri, con le sue analisi intorno alla commistione fra consumo e alterità operaria, [cominci] a scavare nella pancia del neocapitalismo», così che ai suoi occhi la città diventò «la vera fabbrica, il consumatore un produttore di valore, il giovane studente una figura nodale da sottrarre al controllo capitalistico». In una fase storica in cui, ancora nel 1962, durante «un convegno dell’Istituto Gramsci, persino il PCI mise il naso in questo inedito groviglio, da cui si ritrasse con il riflesso d’ordine imposto da Amendola, che capì subito dove le intemperanze analitiche dei giovani talenti […] potevano condurre». «In quell’occasione, l’ultima […] in cui il futuro camminava accanto ai comunisti, proprio guardando a quanto accadeva a Ovest e non a Est, si comprese come fosse il consumo a riclassificare i ruoli sociali, e come si riarticolasse l’organizzazione capitalistica con nuove figure e nuove funzioni professionali. Quella finestra fu chiusa, e si ostruì ogni possibile trasmissione degli impulsi innovativi dalle ali estreme a un centro di elaborazione di massa. Chi capiva rimaneva rinchiuso in ambiti radicali ed elitari, chi aveva la rappresentanza di massa preferì non capire. Negri – puntualizza Mezza – era uno dei testimonial della prima categoria». Ma la riflessione di Negri non si è fermata: «per la nostra testimonianza di quale funzione abbia avuto Negri e come ci sia stato utile il suo pensiero, pur avendo chiaro quale approdo delirante ne fosse la conseguenza, diventa fondamentale e naturale conclusione la già citata trilogia Imperium, in cui, con Michael Hardt, analizza in maniera impareggiabile le dinamiche sociali e politiche della società computazionale». Di qui l’attualità di un pensiero che – conclude Mezza – induce a «focalizzare il nodo politico che Internet ieri, e l’intelligenza artificiale oggi, pone alla sinistra».
Glossario
Nella sezione Glossario gli ingegneri Angelo Luvison, ex dirigente di Telecom Italia, e Pieraugusto Pozzi, segretario generale di Infocivica-Gruppo di Amalfi, spiegano ai lettori di Democrazia Futura il significato dell’espressione «Intelligenza artificiale generativa», in “La parola chiave per capire il digitale”[20], invero una locuzione complessa da analizzare perché il prodotto di più di due secoli di elaborazione del pensiero analitico-matematico, sfociato infine, con l’avvento del computer, in una febbrile stagione innovativa che sta dando i suoi frutti. Gli autori di questa voce hanno l’ammirevole capacità di sintetizzare in sette brevi capitoli le basi teorico-scientifiche e tecniche che hanno portato allo sviluppo di un’intelligenza artificiale definita generativa. Permangono tuttavia ancora i dubbi in merito all’evoluzione che ancora attende questa tecnologia, ben rappresentati da questo passaggio: «Che le macchine sappiano parlare e scrivere, come che sia, rappresenta innegabilmente un punto di svolta non da poco, paragonabile a certi momenti cruciali dell’evoluzione darwiniana dell’Homo sapiens. Dopo l’apprendimento del linguaggio, l’IA sarà in grado di generare nuove idee? Diventerà autopoietica, cioè acquisirà mezzi o, addirittura, fini di replicazione a sé stessa?».
Selezione artistica
Conclude questa sezione la Selezione artistica curata da Roberto Cresti, ricercatore e docente di storia delle Arti del Novecento all’Università di Macerata, che ci illustra la sua scelta de “L’artista in copertina e nelle pagine del dodicesimo fascicolo” di Democrazia Futura. Ne “Le età della pioggia. Dipinti di Alberto Zamboni”[21] sottolinea l’eredità di Giorgio Morandi per tutta una generazione di artisti bolognesi e, nel caso di Zamboni, anche «la presenza di un Vermeer, di un Rembrandt, magari con la mediazione del formidabile Chardin e di Corot, ha continuato ad agire, anche partitamente, in modo autonomo, come modello col quale confrontarsi. Di incedibilmente suo, Alberto, vi ha messo un clima, in apertura, notturno, un chiaroscuro basato, in prevalenza, sulle tonalità del blu, come in una camera oscura ove le immagini però non vengono sviluppate per ridare l’effetto del sole o della luce bianca bensì permangono in sfumature quasi di una luce nera, che procede a rovescio verso lo spettatore, come in un film proiettato dalla parte opposta della tela. Il buio diviene perciò il reagente, il quale rende visibile un’oscurità di fondo ben più fitta, che si schiarisce in superficie e lascia intravedere le forme».
[1] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-non-orfani-ma-multipatriottici-leuropeismo-e-lunica-patria-possibile/480750/.
[2] https://www.giampierogramaglia.eu/2023/10/19/discussioni-sulla-leadership/.
[3] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-comunismo-emiliano-variante-storica-della-socialdemocrazia/477584/.
[4]https://www.key4biz.it/democrazia-futura-contro-i-poveri-anche-il-liberismo-inglese-del-xviii-secolo/480735/.
[5] https://www.giampierogramaglia.eu/2023/09/04/revolution-su-ustica-unintervista-inappropriata/.
[6] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-rifiutare-le-teorie-complottiste-e-il-sensazionalismo-veicolato-dai-media/483110/.
[7] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-kissinger-uomo-di-potere-la-cui-azione-ha-segnato-il-xx-secolo/470120/.
[8] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-60-anni-fa-john-fitzgerald-kennedy-veniva-assassinato/470341/.
[9] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-saddam-hussein-come-un-topo-in-una-tana-diventata-trappola/484131/.
[10] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-giorgio-gaber-a-20-anni-dalla-morte-che-memoria-ne-ha-litalia/476678/.
[11] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-delirio-bellicista-degli-intellettuali-interventisti-1914-1918/485184/.
[12] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-farfalle-dietro-la-porta/479891/.
[13] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-futurismo-che-passione/479699/.
[14] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-thomas-bernhard-la-fornace-1970/479122/.
[15] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-a-cosa-serve-la-politica-oggi/481824/.
[16] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-i-delitti-e-le-pene-di-un-comunista-liberale/472015/.
[17] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-storia-di-una-piccola-minoranza-e-del-suo-rapporto-con-la-maggioranza/478832/
[18] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-raffaele-mattioli-il-principe-rinascimentale-del-novecento/477832/
[19] https://www.giampierogramaglia.eu/2023/12/18/memorie-nostre-la-scomparsa-di-toni-negri/.
[20] https://www.ilmondonuovo.club/glossario-intelligenza-artificiale-generativa-democrazia-futura-lexicon/
[21] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-le-eta-della-pioggia-dipinti-di-alberto-zamboni/478092/