le voci

Democrazia Futura. Caduta di Kabul e equilibri geopolitici dopo il ritorno dell’Emirato islamico

a cura di Bruno Somalvico, storico ed esperto dei media |

A 45 giorni dalla caduta della Capitale Afgana nelle mani dei talebani, Democrazia Futura ha promosso un confronto a più voci sul tema con Antonio Armellini, Guido Barlozzetti, Massimo de Angelis, Antonio Di Bella, Giampiero Gramaglia, Giuseppe Richeri, Carlo Rognoni, Dom Serafini, Stefano Silvestri, Alberto Toscano e Franco Venturini.

Bruno Somalvico

Partendo dall’articolo editoriale dedicato alla crisi dopo il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan e il ritorno al potere dei Talebani  di Giampiero Gramaglia all’inizio di questo fascicolo e dall’analisi di Bruno Somalvico su “Origini e conseguenze della crisi afgana”, e da quella di Giuseppe Richeri sui tre motivi per i quali “Pechino vuole intavolare negoziati con il nuovo regime talebano”, Democrazia futura ha ritenuto utile a bocce ferme quarantacinque giorni dopo la conquista della capitale afgana promuovere un confronto a più voci sul tema “Caduta di Kabul ed equilibri geopolitici dopo il ritorno dell’Emirato islamico”, rivolgendo Sette domande per capire la politica estera e di difesa occidentale dopo lo smacco di Kabul” ad Antonio Armellini, Guido Barlozzetti, Massimo de Angelis, Antonio Di Bella, Giampiero Gramaglia, Giuseppe Richeri, Carlo Rognoni, Stefano Silvestri, Dom Serafini, Alberto Toscano e Franco Venturini.  Dalle risposte alle sette domande rivolte loro dallo stesso Somalvico dedicate alle ragioni di questa sconfitta dell’Occidente, al bilancio di un’occupazione ventennale dell’Afghanistan diventato santuario del terrorismo islamista, alle responsabilità dei media occidentali nel voler imporre i propri valori e stili di vita, e al tentativo di prevedere quali saranno le conseguenze della caduta di Kabul negli equilibri geopolitici mondiali e nella fattispecie le reazioni di Russia e Cina, che ruolo potrà avere il G20 a presidenza italiana, quali effetti produrrà la nascita dell’Emirato sunnita nel concerto medio-orientale e infine quale sarà la sorte riservata ai quadri afghani formati dagli occidentali in questi due decenni ora costretti all’esilio in uno scenario che non esclude l’ennesima guerra civile, emergono gli errori e le illusioni dell’Occidente nel suo tentativo di “esportare la democrazia”, l’interesse soprattutto cinese ad assumere un ruolo strategico nella regione e di arbitro dei conflitti sulla scena internazionale, gli effetti non sempre desiderati esercitati dai media occidentali e più in generale dal cosiddetto soft Power nella geografia mondiale,  l’importanza comunque di parlarsi in seno al G20 nonostante il generale scetticismo sui risultati effettivi che una tale formula potrà produrre, gli interrogativi legittimi sulle capacità effettive del governo talebano di tenere a bada i gruppi estremisti del terrorismo islamico e di rispettare temi con cui si dovanno pur sempre confrontare come il rispetto dei diritti umani e dell’eguaglianza di genere. Le risposte alle sette domande – pervenute a cavallo fra la fine di settembre e i primi di ottobre sono precedute da alcune riflessioni di Bruno Somalvico sottoposte a undici esperti.

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Nel suo editoriale agli inizi di maggio Giampiero Gramaglia commentando i primi cento giorni di Joe Biden osservava come il nuovo inquilino della Casa Bianca avesse “rinvia[to] il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, perché non c’è bisogno d’un rapporto dell’intelligence per rendersi conto che, se le forze Nato se ne vanno, i talebani riprendono il controllo del Paese”. E invece nonostante il parere contrario di alcuni Paesi alleati espresso in seno alla Nato il 21 giugno l’Occidente conferma il disimpegno militale chiarendo nella risoluzione finale che “Ritirare le nostre truppe non significa porre fine alle nostre relazioni con l’Afghanistan. Ora apriremo un nuovo capitolo. Affermiamo il nostro impegno a continuare a restare al fianco dell’Afghanistan, nel promuovere la sicurezza e nel sostenere le conquiste guadagnate con fatica“.

Biden ha davvero “fatto l’unica cosa possibile nel modo peggiore” come qualcuno ha scritto. Forse. Dovremmo peraltro capire perché non hanno pesato i pareri contrari ad un disimpegno rapido espressi in seno alla Nato da alcuni paesi europei e quali sono state le responsabilità oggettive dei servizi segreti occidentali nel non capire i tempi rapidissimi dello scioglimento di quello che taluni hanno qualificato a posteriori come governo fantoccio pro-occidentale. Ma a questo punto ci possiamo altresì chiedere se sia stato davvero sostenibile pensare che l’Occidente possa imporre i propri valori e i propri (discutibili) stili di vita al resto del mondo. E di fronte al patente fallimento sia dell’Unione Sovietica negli anni Settanta-Ottanta del Novecento sia degli occidentali nei primi due decenni di questo secolo, non era più realistico il tentativo di Donald Trump – riproposto peraltro oggi da leader conservatori come Boris Johnson – di negoziare con questa nuova generazione di Talebani che dichiara di voler sconfiggere i terroristi dell’Isis-K e assicurare una transizione evitando ulteriori spargimenti di sangue, o questo venire a patti con i Talebani dell’ex amministrazione statunitense è stato l’elemento scatenante per privare di qualsivoglia credibilità il governo in carica sino a Ferragosto impedendo alla nuova amministrazione Biden di esplorare altre soluzioni?

Un secondo tema di discussione vorremmo dedicarlo ad esaminare quali sono state le colpe dei media e come spiegare il disinteresse negli ultimi anni dei giornalisti e degli analisti politici verso l’Afghanistan. Il rincretinimento di massa prodotto dai mass media in Occidente, unito, specie in Europa, a quel misto di idealismo, pacifismo e immobilismo spacciato come grande patrimonio valoriale degli europei, le stesse fiction veicolate dalle grandi piattaforme mondiali, non hanno forse provocato effetti indesiderati, esercitato una sorta di boomerang, simile alle disavventure già conosciute da Jimmy Carter in Iran con il regime sciita degli Ayatollah a cavallo fra anni Settanta e Ottanta, contribuendo all’ennesima percezione di arroganza e di superiorità della nostra civiltà dietro all’infantilismo universalista delle ideologie democraticistiche e “politicamente corrette” e ai tentativi maldestri di realizzare quel “perfezionismo democratico” di cui parlava Giovanni Sartori del tutto nocivo per la tutela reale degli interessi delle nostre democrazie, come ricordato oggi da Angelo Panebianco?

Ci vorremmo poi soffermare sulle lezioni da trarre dalla caduta di Kabul. Che riflessi avrà in seno all’Occidente e sui rapporti fra le due sponde dell’Atlantico? Un ulteriore disimpegno americano sulla scena medio-orientale compensato da un rafforzato ruolo dell’Europa in materia di difesa comune e di politica estera? O l’Europa continuerà ad agire diplomaticamente in ordine sparso chi – come la Francia – puntando su un coinvolgimento russo per contenere l’espansionismo del blocco musulmano e contrastare il dominio geopolitico della Cina, chi – come il Regno Unito – rilanciando il fronte atlantico o chi ancora come forse tenterà l’Italia di Mario Draghi cercando di mantenere un atteggiamento europeo equidistante verso la Russia e la Cina nel rispetto delle alleanze occidentali.

Nello specifico come reagirà l’Europa al tentativo di Russia e Cina, insieme a medie potenza come la Turchia di attivare un’offensiva diplomatica per il riconoscimento del nuovo regime? La Russia di Putin in materia afghana, assumerà un atteggiamento equidistante rispetto a Cina, Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea o cercherà intese con il proprio grande vicino cinese? Come reagirà la Cina? Stabilendo unilateralmente relazioni privilegiate con il nuovo regime o promuovendo in seno anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una concertazione multilaterale tesa a candidarsi ad assumere sempre di più un proprio ruolo di arbitro nel dirimere i conflitti anche in un’area come quella medio-orientale al fine di evitare sollevazioni anche nelle proprie aree interne popolate da islamici?

Infine vorremmo avere alcune delucidazioni sul futuro all’intero dell’Afghanistan e sui riflessi che avrà l’insediamento del nuovo Emirato sugli equilibri politici regionali. Come sarà possibile mantenere un contatto e una relazione con il popolo afgano sia con coloro che vivono all’interno delle composite aree che formano il suo territorio, sia con i fuoriusciti,  impedendo che vengano estirpati senza resistenza i semi di libertà, di democrazia, di tolleranza, di umanità che malgrado tutto sono stati piantati in questi venti anni grazie al comportamento dei nostri militari caduti in questo ventennio, definito “eroico” dal nostro Presidente Draghi?

Sette domande per capire la politica estera e di difesa occidentale dopo lo smacco di Kabul

Le risposte di: Antonio Armellini, Guido Barlozzetti, Massimo De Angelis, Antonio Di Bella, Giampiero Gramaglia, Giuseppe Richeri, Carlo Rognoni, Dom Serafini, Stefano Silvestri, Alberto Toscano e Franco Venturini.

Come è stato possibile un fallimento dell’Occidente così colossale? Quali sono le ragioni di questa débâcle?

Antonio Armellini
L’Afghanistan ha confermato la sua natura di luogo nel quale si entra per uscire pesantemente sconfitti: in questo Stati Uniti d’America e alleati sono stati in linea con la tradizione. Diversamente dall’Inghilterra del grande gioco e dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, tuttavia, c’è stata in questo caso una imperdonabile confusione su obiettivi e strategia.  

Guido Barlozzetti
Non sarebbe il primo fallimento, il Vietnam, l’Iraq. Ma è davvero questo il punto di vista? La politica è un gioco di forze che si scompongono e ricompongono. La realtà effettuale – non quella presuntuosamente ideale – ha portato gli Stati Uniti di oggi (e di ieri, il ripiegamento risale indietro, Barack Obama e poi Donald Trump…), vedi una trasversalità strutturale della politica estera americana a ripiegare, trovando un compromesso fragile e realistico con i talebani. E il compromesso, instabile, incerto, vale anche per i Talebani e il peso, relativo e composito, della loro forza.

Massimo De Angelis
Si tratta di un fallimento strategico e culturale. Le origini vanno individuate innanzitutto e fondamentalmente nella svolta unipolarista perseguita da Bill Clinton dopo la caduta dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Da lì ha inizio anche la teoria dell’ingerenza umanitaria che porta alla guerra in Kosovo. Che fu poi, allo stesso tempo, un capitolo fuori tempo massimo della guerra alla ex Urss condotta contro l’alleato serbo mascherata con panni umanitari. Fu allora un tragico errore e un’inutile arroganza non riprendere le fila di un dialogo con la Russia post Gorbaciov che avrebbe potuto dare maggiore stabilità al mondo specie di fronte all’incalzare islamista. La stessa arroganza unipolarista portò all’errore dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). Bill Clinton si illudeva di poter governare il mercato mondiale e quindi il mondo ma quel trattato ha destabilizzato le economie occidentali e avvantaggiato oltre il dovuto la Cina. Errori che oggi si pagano. Quell’unipolarismo portò a un terzo errore, il più grave di tutti: quello di pensare di poter imporre un proprio modello di democrazia e di diritti al mondo intero. Ecco, la sconfitta di Kabul segna da questo punto di vista un punto di non ritorno. Purtroppo si può forse cominciare a dire che si è esaurita la spinta propulsiva della democrazia occidentale.  

Antonio Di Bella
È cambiata ormai da tempo la prospettiva strategica della politica estera americana. Joe Biden in coerenza con la dottrina di Donald Trump ha spostato l’attenzione strategica politica ed economica americana sulla competizione con la Cina. Lo sforzo finanziario di una guerra senza fine in Afghanistan era insostenibile di fronte alla necessità di risorse per il piano economico di rinascita americano build back better. L’intelligence americana insieme a quella europea ha clamorosamente sbagliato le previsioni che vedevano una resistenza quantomeno di diversi mesi del governo lealista di Kabul anche dopo il ritiro delle forze armate americane.

Giampiero Gramaglia
Questa fine era già scritta (e inevitabile) nel momento in cui la missione non si chiuse una volta centrati gli obiettivi iniziali, rovesciare il regime dei talebani che proteggevano al Qaida e distruggere i santuari dei terroristi che avevano attaccato gli Stati Uniti l’11 Settembre 2001. Quando la missione divenne fare dell’Afghanistan una democrazia, i presupposti per il fallimento c’erano già tutti: i militari statunitensi e occidentali percepiti come forze d’occupazione, la scelta come interlocutori di personaggi corrotti e incompetenti e senza carisma locale (uscito di scena Hamid Karzai), la diffusa diffidenza della popolazione locale ad assecondare l’evoluzione sociale ed economica oltre che politica e ‘valoriale’.

Giuseppe Richeri
Prima gli Stati Uniti d’America hanno armato gli afgani (compreso i talebani) contro i sovietici. Dopo la loro vittoria, gli stessi Stati Uniti e i loro alleati hanno occupato l’Afghanistan per combattere  il terrorismo anti-occidentale e al-Queda. L’occupazione è durata vent’anni per portare nel paese la «democrazia» basata sui soldi degli Stati Uniti e sull’esercito suo e dei suoi alleati. Il fallimento tra le varie cose ha due spiegazioni. Il primo errore è che la democrazia non si esporta, ma dipende da una gestazione molto lunga e dalla capacità di conquistarla, poi la cultura democratica in molti casi, come in Afghanistan, non è stata in grado di opporsi a tradizioni e culture radicate a livello popolare e molto diffuse nel paese. E non si pensi che le altra popolazioni afgane non talebane  o anti-talebane siano favorevoli alla democrazia.

Carlo Rognoni
Il fallimento dell’Occidente – forse sarebbe più giusto limitare la responsabilità soprattutto agli Stati Uniti, che almeno fino a pochi mesi fa hanno continuato a rappresentare la forza dell’Occidente – nasce da almeno due cause: primo, l’irresponsabile convinzione di essere sempre e comunque i più forti, i più intelligenti, “i più”. Secondo elemento importante da prendere in considerazione. Vi è stata una drammatica sottovalutazione dell’esercito “regolare” di un paese come l’Afghanistan, che di regolare aveva la corruzione come per altro il governo afgano alleato. 

Dom Serafini
Ci sono diversi motivi che iniziano durante l’amministrazione del presidente Ronald Reagan. Per ostacolare i sovietici, gli americani in effetti crearono ed armarono i talebani. Quando gli americani sostituirono i sovietici, questi si scontrarono con la loro creazione diventando però il bancomat della tribale e corrotta classe dirigente afghana.

Stefano Silvestri
Ci sono state molte diverse concause, ma io credo che la ragione principale sia stata la mancanza di un chiaro obiettivo finale, ben individuato, condiviso, e raggiungibile con le forze disponibili. Volevamo combattere i terroristi o fare dell’Afghanistan una nuova Svizzera? La responsabilità di questa confusione ricade inizialmente sugli americani e deriva in parte dalla loro definizione di “guerra al terrorismo”, obiettivo insieme larghissimo e confuso. Puoi fare la guerra a una tecnica di uso della forza? E se metti in un solo sacco tutti i terroristi non ti ritrovi forse con una zuppa inglese immangiabile che va da al-Qaida ai suprematisti ariani, passando per gli anarchici e tanti, troppi altri? Ma poi anche noi europei abbiamo condiviso la confusione e contribuito ad essa, insistendo sull’aspetto umanitario e di state building di quella che doveva essere essenzialmente una operazione anti-terrorismo dagli obiettivi ben delimitati.

Alberto Toscano
La ragione essenziale di questo e di altri fallimenti risiede a mio avviso nella mancanza di visione di lungo periodo: i leader delle maggiori potenze democratiche hanno la tentazione di reagire sulla base delle emozioni (talvolta comprensibili e giustissime) che agitano le loro opinioni pubbliche. Ma questo può generare impegni di lungo periodo a cui quelle stesse opinioni pubbliche si riveleranno insofferenti. Scelte – come la guerra voluta da Bush in Afghanistan nel 2001 e quella voluta da Nicolas Sarkozy in Libia nel 2011 – sono state compiute sulla base di reazioni immediate, senza prendere sufficientemente in considerazione le loro conseguenze nel tempo e nello spazio. Alla fine si rischia di generare problemi ancora maggiori di quelli che si volevano risolvere con l’intervento militare. La destabilizzazione della Libia è stata un autentico vaso di Pandora, la cui responsabilità ricade in primo luogo sulla Francia. Che in queste ultime settimane ha avuto a che fare con un’altra crisi: quella dei sottomarini Francia-Australia. Direi che nell’immediato la Francia cercherà compensazioni economiche e politiche, destinate a lenire le ferite al proprio orgoglio e a i propri interessi. Ma il dato di fondo non cambia: il sogno francese di essere ancora una grande potenza nell’area del Pacifico sembra davvero tramontato.

Franco Venturini
Le ragioni sono molteplici ma il fallimento determinante è stato quello dell’intelligence militare americana che ha trasmesso al potere politico stime totalmente errate sulla capacità di resistenza degli afghani. Poi la clamorosa fuga di Ghani da Kabul ha ulteriormente accelerato il processo

Aveva davvero un senso camuffare l’occupazione di un Paese diventato santuario del terrorismo islamista dietro la volontà di “esportare la democrazia”?

Antonio Armellini
No e i discorsi di Joe Biden lo hanno confermato. Che si trattasse di vendicare le due Torri era chiaro, tutti sono stati d’accordo di reagire in base all’Art. 5 (utilizzato per la prima volta, è bene ricordarlo) e una volta fatta fuori al Qaeda l’obiettivo poteva dirsi raggiunto. Quella di costruire la democrazia è stata tuttavia la ragione – o se si vuole la scusa – per ottenere un consenso da parte di alleati, che altrimenti sarebbe stato più problematico. Il re era nudo già da tempo e Biden, per ragioni altre e tutte sue, ci ha fatto il  favore di farcelo capire bene; ma a che prezzo…

Guido Barlozzetti
Stiamo sul piano aggrovigliato degli interessi e della comunicazione, dei valori e delle pratiche, con le semplificazioni, le professioni di fede che diventano alibi… Il marketing della politica internazionale per un verso usa le retoriche delle neo-crociate, per l’altro deve fare i conti con le irrisolte contraddizioni di sé, nelle disuguaglianze e nei cortocircuiti dei modelli di sviluppo. La modernità è un’insegna logora e erosa, e l’idea di esportare la democrazia è l’ultima presunzione di un’impotenza. Il Reale rivendica la sua complessità mai conciliata e anche il marketing deve fare i conti con le proprie crepe.

Massimo De Angelis
La guerra in Afghanistan nacque come lotta al terrorismo e a uno Stato canaglia. In questo era giustificata. Poi venne fuori il tema della democrazia da imporre. Questa idea, che fosse sincera o no, è definitivamente e tragicamente fallita. L’Occidente deve aver a che fare con un mondo che maggioritariamente è e sarà nel prevedibile futuro estraneo e ostile alla nostra concezione democratica. Resta da definire se la concezione della democrazia che noi vogliamo esportare nel mondo è la migliore di quelle concepite in Occidente o se non ne è, oramai, una tragica e indigeribile caricatura.

Antonio Di Bella
Joe Biden lo ha detto chiaramente: lo scopo della missione in Afghanistan non era costruire la democrazia ma colpire i santuari del terrorismo da cui era partito l’attacco alle Torri Gemelle. Una missione finita quindi con l’eliminazione di Osama Bin Laden. In realtà George W. Bush aveva parlato espressamente di costruzione della democrazia ma Joe Biden – coerentemente con quello sempre affermato anche da vice presidente – non l’ha mai detto e si è battuto invano per molti anni per un ritiro da Kabul.

Giampiero Gramaglia
A mio avviso, il camuffamento non è mai riuscito e credo che pochissimi ci abbiamo creduto; e, comunque, anche a crederci, il fallimento dell’operazione ‘esportazione della democrazia’ era palese. Bisognava ammetterlo molto tempo fa, già nel 2004/2005 e, soprattutto, nel 2011, dopo l’eliminazione di Osama bin Laden, quando il pretesto per andarsene era incontestabile: certo, sarebbero tornati i talebani, come sono tornati ora, e forse non si sarebbero salvate molte vite, almeno afghane, perché ne sarebbe nata una sorta di guerra civile endemica, come forse avverrà ora; ma il trauma sarebbe stato minore.

Giuseppe Richeri
L’idea di esportare o di difendere la democrazia ha guidato quasi sempre la politica estera degli Stati Uniti. Quante volte gli Usa si sono occupati direttamente o indirettamente, con metodi espliciti od occulto, di tanti paesi, compresi quelli europei. La differenza in Afghanistan dipende dal fatto che gli Usa hanno dovuto trovare il modo di tirarsi dietro gli alleati. C’è da chiedersi non tanto degli Usa, ma di molti alleati che non sembrano aver criticato l’iniziativa a tal punto da tornare a casa. E il finale: gli Stati Uniti d’America che trattano la fine della guerra con i talebani, tenendo fuori dalla porta gli alleati, per noi apre il terreno a nuove interpretazioni tra Europa e Stati Uniti.

Carlo Rognoni
“Esportare la democrazia” non ha senso se chi dovrebbe importarla non è affatto interessato al gioco democratico, vuoi culturalmente vuoi storicamente.

Dom Serafini
Sin dal Piano Marshall, la politica estera americana si è basata sugli appoggi economici e finanziari per far sviluppare la democrazia. Non è stata una “camuffamento”, semplicemente un modo di fare.

Stefano Silvestri
Quello che non aveva senso, in Afghanistan come in Iraq, era l’occupazione del paese.

Alberto Toscano
Più che di “esportare la democrazia”, nel caso afghano si trattava di reagire alla tragedia dell’11 settembre, dimostrando al tempo stesso la potenza militare degli Stati Uniti e la coesione politica dell’Occidente. Dai tempi della presidenza di Jimmy Carter, gli Stati Uniti utilizzano volentieri (anche se ad intermittenza) i discorsi sui “diritti umani” come strumento di politica internazionale, destinato a mettere in difficoltà i loro antagonisti. Certo quei discorsi I discorsi possono essere uno strumento efficace in alcune situazioni. Ma sono comunque e sempre un’arma a doppio taglio. Impongono coerenza a chi ne fa la base della propria politica estera. E soprattutto rendono difficile spiegare gli inevitabili compromessi con gli Stati e i personaggi che quei diritti umani non li rispettano affatto. Quanto sta succedendo in Afghanistan, in Libia e altrove dovrebbe far riflettere tutti coloro che sognano una politica estera da cavalieri bianchi. Per quella strada si fanno le Crociate.

Franco Venturini
In realtà lo scopo dell’occupazione è sempre stato la lotta al terrorismo e la rivincita per l’opinione pubblica dopo l’undici settembre. Ma la tentazione di “inventare” una democrazia è antica ed è stata rilanciata da George W Bush. Poi, in paesi come l’Italia dove una missione può essere solamente umanitaria e di pace per essere approvata, il “camuffamento” è indispensabile. Comunque qualcosa, poco, è stato fatto, non bisogna dimenticarlo.

Che responsabilità hanno avuto i media occidentali nel voler imporre i propri valori e stili di vita alle altre società del mondo assai più variegate per culture, sensibilità, interessi, di quanto si possa osservare le fiction di Netflix e di altre piattaforme?

Antonio Armellini
Prima che i media, sono le opinioni pubbliche che hanno la responsabilità di scelte che ignoravano molto, se non tutto, dei territori coinvolti. Quella di favorire la democrazia, i diritti delle donne, lo sviluppo delle società civili è troppo spesso la “coperta di Linus” dietro cui celare i fatti più sgradevoli della proiezione di potenza che – come molti spesso in Italia danno mostra di non capire – è altro che costruire ponti e distribuire caramelle.

Guido Barlozzetti
Le piattaforme sono mainstream nella partita della comunicazione, Netflix lavora sul “politicamente corretto” sulla base di un marketing pragmatico che si sposta e via via si adegua. I media occidentali scontano una crisi di credibilità complessiva, presi come sono nelle incertezze di un trapasso tecnologico che li delegittima, e nella difficoltà di tenere insieme una visione cultural-valoriale (in crisi): la crisi di quella visione.

Massimo De Angelis
Responsabilità assai ampie e assai gravi. Per un verso i media, sempre più omologati al modello Google hanno una funzione conoscitiva assai limitata e un ruolo eminentemente omologante e propagandistico. Non troppo dissimile da quello dei Paesi non democratici. Il pensiero unico insomma. Questo rende le opinioni pubbliche occidentali sempre più ignoranti e superficiali. In più la produzione via Netflix, a sua volta sempre più omogenea e introversa, abitua le nostre opinioni pubbliche a smarrire i confini tra realtà, media e mondo della play station. Tutto sembra un gioco con personaggi tutti interscambiabili, il mondo vero con le sue diversità, difficoltà e dolori scompare.

Antonio Di Bella
Il soft Power – così come lo definiva Hillary Clinton – ha un peso notevole nella geopolitica mondiale. Valori e costumi della società occidentale vengono veicolati in tutto il mondo nonostante un tentativo di controffensiva cinese che sembra destinato comunque ad avere, ove mai riuscisse, tempi molto lunghi. E’ certamente una visione  coloniale del mondo che vede sempre nel mondo occidentale il centro di valori e costumi prescindendo dalle culture lontane e diverse.

Giampiero Gramaglia
Penso che la capacità dei media occidentali di influenzare la società afghana sia stata, e ancor più sia, molto limitata: la loro penetrazione, al di fuori delle grandi città e anche nelle grandi città, è scarsa; la loro comprensione da parte della popolazione locale infima. L’Occidente per gli afghani erano i militari, che, anche quando erano ‘brava gente’ come magari gli italiani, erano pur sempre occupanti, e le Ong, che forse continueranno a esserci e a favorire una cultura della tolleranza e della coesistenza dei valori che non pare radicata nella società afghana.

Giuseppe Richeri
Anche in Italia ci sono stati giornalisti che hanno tentato di approfondire la situazione afgana e di criticare i comportamenti dei vari protagonisti senza imporre alcunché. Credo però che l’opinione prevalente qui come in molti paesi occidentali abbia considerato la guerra afgana una “guerra giusta” per emancipare gli afgani da arretratezza, oscurantismo e povertà attraverso i nostri valori. Spesso, soprattutto quando gli eventi si protraggono per lungo tempo, il desiderio di seguire con attenzione le cose decade. E’ vero che i mezzi d’informazione in gran parte hanno giustificato l’impegno internazionale in Afghanistan per convinzione, per conformismo, per ignoranza, ma le persone interessate avrebbero potuto trovare informazioni più approfondite, critiche e in grado di far conoscere le posizioni e le prospettive dei vari protagonisti locali e internazionali. Oltre agli organi d’informazione più facilmente accessibili, molte persone se interessate possono trovare informazioni attendibili via Internet sui valori e gli stili di vita distinti senza dover accettare classifiche prestabilite

Carlo Rognoni
La forza delle fiction alla Netflix – ma non solo – è di giocare sull’immaginario. E i media hanno una prima grandissima colpa: sono deboli, sono schiavi della politica del Paese dominante, sono assoggettate alla politica di chi molto banalmente presuppone di guidare il mondo occidentale.

Dom Serafini
I media occidentali hanno fatto il loro lavoro. Non è che hanno sviluppato dei piani editoriali a tavolino. Hanno semplicemente visto e preso spunti per la produzione di articoli, film o serie televisive.

Stefano Silvestri
I media hanno fatto il loro lavoro, e non è che avessero indicazioni molto chiare da parte dei nostri governi. D’altro canto, se occupi un paese isolato e tribale come l’Afghanistan e lo riempi non solo di militari e di mercenari, ma anche di una miriade di ONG, di giornalisti e di “benefattori” di ogni genere, in pratica crea un impatto complessivo della società occidentale sulla società locale. In pratica lo cortocircuiti nella globalizzazione. Abbiamo difficoltà noi ad adattarci a questa nuova realtà (vedi Matteo Salvini e Giorgia Meloni) e ci meravigliamo se hanno difficoltà gli afghani?

Alberto Toscano
I media sono vettori di descrizioni e di interpretazioni della realtà che possono benissimo essere soggettive o settarie, contenendo (in buona o in mala fede) distorsioni rispetto alla realtà medesima. Il problema non sono solo i media in sé (che possono  raccontare sciocchezze e che spesso lo fanno), ma anche – e a mio avviso soprattutto – la maturità del pubblico che li utilizza e li “consuma”. In un sistema democratico i media sono liberi e dunque possono anche sbagliare (venendo ovviamente puniti quando l’errore si apparenta a un piano truffaldino, come nel caso di un giornale economico che diffonda notizie volte a indurre in errore gli investitori nel contesto di un’operazione speculativa, d’intesa con gli organizzatori della medesima). Se l’errore o anche la malafede dei media hanno cittadinanza nell’attuale giunge comunicativa, il pubblico deve prendere in mano la propria responsabilità di “consumatore” di notizie, sapendo che quelle stesse notizie non vengono mai diffuse in modo “neutrale”. L’opinione pubblica deve sapere che può pagare un prezzo per la propria pigrizia, per la propria leggerezza, per la propria irresponsabilità, per la propria sbadataggine. Informarsi adeguatamente esige volontà anche da parte del cittadino. Esige fatica. Questo il cittadino deve saperlo, deve capirlo. Non può cavarsela sempre e soltanto dando la colpa ai media. I media sono quello che sono, nel bene e nel male. Ma l’opinione pubblica deve “crescere” se non vuole pagare il prezzo di un’informazione fatalmente confusa e oggettivamente piena di trabocchetti.

Franco Venturini
Direi che la responsabilità dei media è molto marginale, semmai dovremmo parlare dei classici “inviti militari” soprattutto televisivi.

Quali saranno le conseguenze della caduta di Kabul negli equilibri geopolitici mondiali e con quali implicazioni per le singole potenze Che lezione Stati Uniti ed Europa ricaveranno da questa triste pagina per chi difende i valori occidentali? Come reagiranno la Russia e la Cina?

Antonio Armellini
E’ presto per dire, molto dipenderà da come evolverà la situazione afghana all’interno. La tragedia vera riguarda le città che avevano respirato un po’ di aria cosmopolita e quelle parti di società civile che avevano intravisto la possibilità di un futuro migliore: sono numericamente rilevanti, ma antitetici al disegno talebano, ancorché moderato in parte dai lunghi soggiorni in Qatar della nuova dirigenza. Nel resto del paese, nelle sue aree rurali, le cose non cambieranno granché. Il futuro potrebbe essere quello di una regressione verso una frammentazione regionale e tribale con il suo seguito di conflitti, coperti da una struttura nazionale leggera e largamente fittizia. La Cina si guarderà probabilmente bene dal farsi coinvolgere troppo e delegherà la gestione ai pakistani, utili a tenere alta la tensione anche verso l’India, ma in ogni caso è per ora il principale vincitore. La Russia a mio avviso starà per un po’ alla finestra, soddisfatta della crisi profonda della credibilità occidentale in una regione in cui paesi come l’Iran giocheranno un ruolo sempre più profilato. 

Guido Barlozzetti
La mappa si sta riorganizzando. Il gioco delle forze attraversa una fase/intervallo di fronteggiamento -ricomposizione in cui non ci sono più gli assi cartesiani a disegnare e dare un senso al campo. La carta sta diventando un sistema policentrico in cui i diversi poli si riorganizzano e si ridislocano: il Pacifico e l’asse Stati Uniti-Australia-Giappone-Gran Bretagna; la pervasività neo imperiale della Cina; l’Europa che rischia il ruolo di Don Abbondio… I valori? Le retoriche “occidentali” vacillano e richiedono quanto meno un restyling, tanto più a fronte di un “inatteso” sempre più cogente e trasversale alla verticalità degli schieramenti: le emergenze, dalle epidemie al cambiamento climatico, le migrazioni…

Massimo De Angelis
Mi pare straordinariamente difficile prevederlo. Potrebbe prevalere la rete Haqqani e questo vorrebbe dire che l’Afghanistan tornerebbe a essere una piattaforma per il terrorismo islamico.  Bisogna quindi anzitutto scongiurare tale deriva puntando a una stabilità di governo, giocando politicamente negli equilibri interni al mondo talebano, trovando intese con le altre potenze lì presenti: Pakistan, Russia e Cina ma anche India. Stando ben attenti, però, a un altro fattore: L’asse sino-pakistano che potrebbe allargarsi all’Iran è quello più destabilizzante a livello di equilibri geopolitici già ora e ancor più nel medio-lungo periodo. Da questo punto di vista sarebbe utile all’Occidente creare un asse con la Russia. Ma l’Occidente, specie gli Stati Uniti d’Amrica, sono assolutamente ciechi di fronte a questa prospettiva. Prevedo quindi nel medio periodo problemi e squilibri anche maggiori di quelli presenti.

Antonio Di Bella
Russia e Cina hanno già intavolato un dialogo con il nuovo governo di Kabul e tendono a riempire lo spazio lasciato dagli americani e dalla Nato. Dal canto suo Washington è più attenta al Pacifico dove intende giocare d’intesa con Australia e Gran Bretagna da una parte, come dimostra l’accordo sui sottomarini alle spalle di Francia e Nato, e il peso sempre più rilevante del cosiddetto Quad, l’accordo fra Stati Uniti, India, Giappone e Australia, dall’altra.

Giampiero Gramaglia
In realtà, la vicenda avvantaggia Cina e Russia sul piano geo-politico soprattutto perché indebolisce l’immagine degli Stati Uniti e dei loro alleati. Gli Stati Uniti appaiono, in questa fase, confusi: hanno giocato male la fase finale della partita afghana; hanno giocato in modo precipitoso la partita dell’Aukus nel Pacifico, dividendo e indebolendo il loro campo più che creando problemi alla Cina. Fin quando Joe Biden sbaglia mosse o si mostra maldestro, Xi Jinping e Vladimir Putin possono pure stare solo alla finestra, che, comunque, ci guadagnano.

Giuseppe Richeri
Ciò che si sa per ora è la situazione drammatica del popolo afgano, i grandi contrasti tra le popolazioni di origine diversa e l’incapacità del governo di far fronte alle difficolta sia per mancanza di risorse sia per improvvisazione o incapacità del governo. Intorno all’Afghanistan molti si stanno muovendo. Qualcuno tra i paesi già “occupanti” incomincia a proporre aiuti immediati per la popolazione afgana, altri stanno preparando negoziati e accordi più precisi e di medio e lungo periodo considerando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali per ora fuori gioco. Russia e Cina sono in prima fila e in particolare la Cina è disposta a intervenire in modo consistente (aiuti, infrastrutture, finanziamenti) con l’obiettivo tra l’altro di raggiungere due obiettivi.
Il primo immediato è quello di impedire che nel territorio afgano abbiano sede organizzazioni terroristiche, soprattutto quelle coinvolte nella situazione degli Uiguri, popolazione cinese dello Xinjiang. Un altro, a medio e lungo periodo è quello di ottenere le concessioni per sfruttare il sottosuolo afgano ricco di un lungo elenco di materie prime di cui la Cina ha necessità. Dal punto di vista geopolitico l’obiettivo di Russia e Cina è di evitare che l’Afghanistan diventi un fattore di turbolenza nella regione dell’Asia centrale e che contribuisca a mantenere rapporti pacifici con gli  altri paesi limitrofi dell’Asia centrale confinanti.

Carlo Rognoni
La caduta di Kabul è figlia dell’aggressività dei talebani, della loro cultura contadina, dei valori medioevali di cui sono intrisi. Per Stati Uniti ed Europa al momento si è trattato di un colpo mortale, sia dal punto di vista del potere a livello internazionale sia sul piano degli equilibri geografici. Che Russia e Cina – anche se in modi diversi l’uno dall’altro – approfittino del momento a me sembra scontato anche se nel medio – lungo periodo sia la Russia sia la Cina hanno più che tante buone ragioni per dubitare di un Afghanistan in cui il dominio mussulmano, islamico, ha la meglio.

Dom Serafini
Sia la Russia che la Cina hanno timore della radicalizzazione islamica. Credo che saranno più efficaci degli americani a neutralizzarla. Loro non devono rispondere all’opinione pubblica interna.

Stefano Silvestri
Posso sbagliare, ma credo che le conseguenze saranno modeste, a meno che il paese non ridivenga un santuario per gruppi terroristici. In tal caso saremmo costretti a fare qualcosa, forse insieme a Russia e Cina (se va bene). Ciò potrebbe rimescolare le carte. Un’altra conseguenza però va sottolineata: una certa insoddisfazione degli alleati nei confronti degli americani. Ma dubito che gli alleati ne trarranno le conseguenze.

Alberto Toscano
Par la politica internazionale, le conseguenze saranno a mio avviso limitate, molto più limitate di quanti oggi credano alcuni commentatori “catastrofisti”. Di catastrofi ce ne saranno sempre, ma non penso che nei prossimi anni verranno dall’Afghanistan. In effetti quelle conseguenze saranno limitate dal comune interesse e dunque dalla comune volontà di evitare la nascita (la ri-nascita)  di un focolaio di tensione in un punto strategicamente così sensibile come il “crocevia afghano”. Questa potrebbe essere la buona sorpresa del dopo-ritiro. Il prezzo da pagare (ormai in fase di “pagamento”) è quello di lasciare campo libero ai talebani, che a loro volta potrebbero non tentare imporre il loro potere assoluto sull’insieme del Paese non avendo la forza per conseguire questo risultato. L’Afghanistan dei talebani calpesterà i valori umani cari all’Occidente, ma l’Occidente guarderà altrove alla condizione che Kabul non diventi un “santuario” per il terrorismo. Questo non accadrà perché il problema dei talebani è di non essere essi stessi vittime del terrorismo e dalla guerriglia dell’’ “Isis-K”.

Franco Venturini
A queste domande il mondo intero sta cercando di trovare risposte, bisognerà attendere un pò. Credo che Russia e Cina escano vincitori perché gli USA escono sconfitti, ma i talebani possono dare fastidio anche a Mosca in Tajikistan e a Pechino contagiando gli Uiguri con il loro fondamentalismo. L’Europa dovrebbe cambiare più di tutti esigendo una Nato che funzioni (consultazioni transatlantiche) , e dandosi la famosa autonomia strategica. Difficile ma non impossibile.

E’ davvero utile insistere come fa Mario Draghi su un G20 che sinora non ha mai prodotto decisioni rilevanti per tentare di avvicinare gli atteggiamenti delle grandi potenze e delle media potenze in quest’area così delicata?

Antonio Armellini
Non so se sia stata una buona idea: l’Italia aveva bisogno di utilizzare il G20 per darsi un profilo più visibile – a Draghi salvatore dell’Europa si presentava in fondo una piattaforma attraente – ma appare ormai chiaro che questo G20 straordinario non si farà. Se vogliamo, la vicenda più che debolezza della nostra politica estera (peraltro strutturale e solo in parte rimediata dalla visibilità sempre più forte del nostro Presidente del Consiglio) mostra la crisi delle istituzioni del nuovo multilateralismo che avrebbero dovuto governare un mondo competitivo ma non conflittuale e che si è rapidamente disciolto. Mostra anche che senza le potenze emergenti e/o intermedie – India, Turchia eccetera – non si va molto lontano.

Guido Barlozzetti
C’è un doppio equivoco nella figura di “Draghi”: da un lato, la retorica salvifica che si porta dietro e con cui si impone ai media, dall’altro il peso specifico dell’Italia nello scacchiere europeo e in quello internazionale. È la forza/paravento di un’immagine che sublima certe contraddizioni strutturali (nella politica interna e internazionale) che però stanno lì. A meno di svolte sul piano di un riadeguamento dello stesso modello democratico, sia per quanto riguarda il nostro Paese, sia la fragile e frammentata governance dell’Europa. Un quadro di incertezze che  si intrecciano con le contraddizioni che pesano sui tentativi di costruire perimetri di dialogo e confronto internazionali, resi fragili dall’intervallo contraddittorio e in imprevedibile divenire in cui ci troviamo.

Massimo De Angelis
Sono scettico. Quando in politica internazionale non si sa che fare si fa una bella conferenza. Tali iniziative hanno un senso quando c’è un interlocutore o meglio due che sanno far passare le loro decisioni, altrimenti tutto diviene passerella. Noi avremmo una sola cosa da fare e sappiamo che è una mission impossible: provarci a far assumere all’Europa una posizione chiara e realistica. Niente chiacchiere e distintivi, niente buonismo insomma, una volta tanto.

Antonio Di Bella
La Presidenza italiana del G 20 è un’occasione perché un paese come il nostro – finora sempre ai margini delle grandi decisioni – possa cercare di avere un ruolo nella politica multilaterale che vede gli Stati Uniti più indeboliti e ha bisogno di un dialogo plurale maggiore rispetto al passato. L’Italia con i buoni rapporti sia con Mosca che con Pechino, che con i paesi arabi, può – pur restando saldamente nella Nato – avere un ruolo di intermediatore ed equilibratore.

Giampiero Gramaglia
La presidenza di turno del G20 è un’opportunità per l’Italia, ma non una panacea per i problemi del Mondo dall’Afghanistan alla pandemia passando per la riduzione delle disuguaglianze, la lotta contro il cambiamento climatico e il rilancio dell’economia. Il Vertice ‘straordinario’ sull’Afghanistan, a ridosso di quello di routine, sarà una carrellata di posizioni, una litania d’inviti alla inclusione, di impegni umanitari, di aperture al dialogo condizionate, formalmente un coro, sostanzialmente una cacofonia. E, poi, ogni leader, spento lo schermo della sua presenza virtuale, continuerà a perseguire i suoi disegni e i suoi interessi, con gradi di coordinamento diversi, secondo le aree d’influenza d’appartenenza (Unione europea, Nato, G7, eccetera).

Carlo Rognoni
Mario Draghi fa bene il suo mestiere di premier di un Paese occidentale, alleato degli Stati Uniti, ma ancora ben lontano dal diventare un punto di forza dell’Europa Unita.

Dom Serafini
Un G20 non ha mai fatto male a nessuno e specialmente dopo quindici mesi di isolamento per via della pandemia, ritornare a avere contatti personali sarà utile.

Stefano Silvestri
Perché no? È un utile esercizio cercare di discutere di questi temi anche con paesi difficili come Russia e Cina. Non ci saranno grandi risultati, ma il metodo ha comunque un merito tutto suo.

Alberto Toscano
Francamente mi pare che quest’insistenza non stia scuotendo la politica internazionale e del resto ho la sensazione che il presidente Mario Draghi abbia problemi più “italiani” con cui misurarsi. Inoltre il G20 è uno strano animale politico, figlio di un’altra crisi e in perenne difficoltà a trovare una propria vera fisionomia e un proprio ruolo.

Franco Venturini
E’ utile perché l’Italia ne occupa la presidenza, ma nessuno si aspetta risultati di sostanza. I comunicati sono già pronti. Il frutto principale dovrebbe essere un patto di collaborazione con Russia e Cina sull’Afghanistan… Ma è difficile che Joe Biden marci nella sostanza.

Che effetti produrrà la nascita dell’Emirato sunnita nel concerto medio-orientale dopo il disimpegno occidentale dall’Iraq e dalla Siria che aveva aperto la strada alle ambizioni di Iran, Russia e Turchia, e favorito un riavvicinamento diplomatico fra Israele e l’Arabia Saudita in ottica anti-iraniana?

Antonio Armellini
Direi che il punto centrale è se, ed eventualmente come, il nuovo emirato darà mano libera al terrorismo, che è la minaccia globale di cui la vicenda afghana rappresenta una faglia pericolosa. I talebani non amano l’Isis, ma a Haqqani piace e poi c’è sempre al Qaeda: aldilà delle scelte politiche dei nuovi governanti, tuttavia, è dalla frammentazione di cui parlavo prima che possono nascere i pericoli maggiori. L’Iran, in ogni caso, esce ingrandito da tutto ciò.   

Guido Barlozzetti
Dipenderà dalle capacità del governo talebano di governare un paese scisso e dal loro atteggiamento nei confronti degli estremismi del terrorismo. Ma su questo influirà anche la circospezione di tutti gli attori internazionali verso un Paese che ha largamente dimostrato di essere una palude senza ritorno (a parte le finora inevitabile ritirate…). E poi l’Afghanistan è una variabile dipendente e non è affatto detto che perdurino (anzi!) le condizioni che l’hanno resa strategica.

Massimo De Angelis
Come già detto la prima minaccia è quella che si crei lì, intorno alla rete Haqqani, un nuovo grande santuario del terrorismo. Questo va combattuto anche con la forza al primo sentore. Decisiva sarà la cooperazione tra intelligence. Poi dobbiamo prendere atto che la tendenza a creare potenze islamiche è forte e non può essere contrastata. Vedi la Turchia. Qui è decisivo che l’Occidente sia risoluto nell’impedire l’armamento atomico. La questione riguarda oggi l’Iran potrebbe riguardare domani altri. La stessa permanenza della Turchia nella Nato potrebbe alla fine risultare un equivoco insostenibile. La via seguita da Donald Trump con i patti d’Abramo mi sembra quella giusta, frutto della sapienza strategica e della realpolitik occidentale: il nemico del mio peggior nemico è mio amico. In sintesi: lotta senza quartiere al terrorismo e alle velleità atomiche e per il resto più gioco diplomatico che altro.

Antonio Di Bella
Il nuovo emirato di Kabul dovrà posizionarsi nel difficile dialogo fra sciiti e sunniti e dovrà affrontare una gravissima crisi economica e umanitaria. Di certo anche Mosca e Pechino tutto vogliono tranne che invischiarsi nella politica interna afghana che si è dimostrata letale per tutte le grandi potenze.

Giampiero Gramaglia
I talebani avranno da preoccuparsi degli afghani e di quel che succede nel loro Paese, che, come non è diventato una democrazia in vent’anni di presenza occidentale, non è neppure divenuto un’oasi di pace con il ritorno al potere degli ‘studenti’. E siccome al ‘Grande Gioco’ ci hanno già perso in tanti, Gran Bretagna, Urss, Usa, non credo che altri abbiano voglia di giocarci. Iran e Pakistan, che sono confinanti, potranno essere costretti o almeno indotti a maggiore ingerenza, come hanno sempre fatto.

Carlo Rognoni
La nascita dell’Emirato sunnita va contrastata. Evidentemente non con la forza militare, ma con quella economica. E non solo. L’Unione europea può anche giustamente pensare di dotarsi di un esercito comune, ma è con le importazioni e le esportazioni che oggi si combatte. E’ con la forza delle idee che oggi si può provare a contrastare l’Emirato sunnita. E’ puntando sulla forza delle donne che si può mettere Kabul sotto schiaffo.

Dom Serafini
Per seguire questi sviluppi basterà osservare le mosse ed azioni degli israeliani.

Stefano Silvestri
Non credo che avrà conseguenze molto rilevanti, a meno che non destabilizzi il Pakistan (che ha pure le armi nucleari). Spero di no, ma se accadesse aprirebbe una crisi coi fiocchi e controfiocchi

Alberto Toscano
Le ragioni alla base degli “Accordi d’Abramo” non cambiano con la trasformazione in atto in Afghanistan. Quanto all’Iraq, non penso che gli Stati Uniti vogliano e possano “disimpegnarsi” veramente.

Franco Venturini
Il Medio Oriente ha già un equilibrio diverso da prima (con un minore interesse degli Stati Uniti d’America) e non credo che Kabul lo cambierà. Semmai, è l’Iran che può farlo.

Che ne sarà dei quadri afghani formati dagli occidentali in questo due decenni ora costretti all’esilio? Svolgeranno in occidente un ruolo attivo per favorire un ritorno in Afghanistan ad un regime meno sanguinario o incoraggeranno in seno ad un paese così composito spinte alla secessione da parte di alcune regioni se non addirittura l’ennesima guerra civile contro il nascente Emirato islamico dell’Afghanistan?

Antonio Armellini
Credo di avere già risposto. Resta l’enorme problema di coscienza per tutto l’Occidente nei confronti di quella società urbana cui abbiamo fatto pensare che la democratizzazione secondo i nostri valori sarebbe stata una priorità irrinunciabile per tutti noi.  Magari mi sbaglio e i semi piantati porteranno frutti anche importanti che l’oscurantismo non riuscirà ad estirpare. Ma è legittima una dose di pessimismo

Guido Barlozzetti
Un quadro incerto, il cui assetto dipenderà dal modo in cui andranno a comporsi le contraddizioni interne e queste con la posizione degli attori internazionali (il blocco o meno degli aiuti, di chi, a quali condizioni…). La storia non solo di questi anni dimostra che possono esserci condizioni drammatiche sul piano dei diritti che scompaiono in un batter d’occhio dall’agenda dei media. Con buona pace della (buona) “coscienza occidentale” o di quello che ne resta.

Massimo De Angelis
Chissà. Se i cubani anticastristi a un tiro di schioppo dalla loro madrepatria non hanno mai potuto fare molto dubito che lo potranno fare gli afghani. Aggiungo che non sono nel nostro interesse secessioni e guerre civili. Almeno ora come ora. Credo di più a una possibile loro influenza a livello di cooperazione internazionale. In tempi lunghi questo potrebbe favorire, in un clima di distensione, un’evoluzione positiva di quel martoriato Paese.

Antonio Di Bella
L’eredità dei vent’anni dei diritti civili e delle donne non può essere dispersa. La battaglia per i diritti continuerà soprattutto da parte di chi è riuscito a emigrare dall’Afghanistan. È facile pensare a una possibile nuova guerra civile afgana viste le sue divisioni intertribali. Ma certamente per Kabul oggi dal punto di vista dei diritti si è tornati all’anno zero.

Giampiero Gramaglia
Una generazione di afghani, almeno nelle maggiori città, è cresciuta sperimentando stili di vita diversi da quelli tradizionali, scuola, lavoro, una maggiore laicità, anche se i valori proposti sono spesso un mix di positivo – il rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza di genere – e di negativo – il culto del profitto -. I talebani dovranno confrontarsi con essi: un elemento di frammentazione ulteriore nella società afghana, oltre a quelli etnici, tribali, linguistici, religiosi. Ma anche i talebani sono i figli dei loro padri e non sono monolitici. Qualche ibridazione nella società afghana di sicuro resterà, ma se, per sfuggire a oscurantismo e repressione, diventerà solo diaspora finirà con l’avere minore influenza.

Giuseppe Richeri
Sembra ancora difficile capire se i fuoriusciti afgani avranno la capacità di organizzarsi, ma nell’evenienza troveranno sostegno economico da parte degli Stati Unito d’America. Il vero problema, nel caso in cui potessero avere un’azione politica in Afghanistan è che tutto ciò non si riduca ad appoggiare qualche forza purché sia nemica dei talebani. Ora l’obiettivo non è essere per o contro i talebani ma aiutare le forze in grado di migliorare le condizioni di vita della popolazione afgana nelle sue diverse componenti etniche. Aiutare forme di secessione o addirittura una guerra civile pur che sia, ora sarebbe un danno per gran parte del Paese.

Carlo Rognoni
I quadri afghani formati dagli occidentali vanno accolti e aiutati in tutti i nostri Paesi dell’Ovest e dell’Est. Passa anche da loro un ritorno a un Afghanistan moderato, non nemico delle donne, non nemico della cultura e dello studio, non nemico delle libertà degli altri, siano religiose siano laiche. Da soli i Paesi occidentali non bastano. E tuttavia con una politica di apertura e di integrazione si può e si deve provare a incamminarsi lungo la strada del rispetto reciproco. Della pace. Anche per quella terra martoriata da guerre tribali. E a questo dovrebbe servire un G20 così fortemente voluto da Mario Draghi.

Dom Serafini
Non nell’immediato futuro. Per affermarsi all’estero e sviluppare qualche forma di influenza interna richiederà tempo.

Stefano Silvestri
Potrebbero forse avere una influenza di lungo termine, ma dipenderà da come verranno integrati qui da noi. Se avranno successo, l’influenza potrebbe essere benefica. Se saranno ghettizzati, potrebbero alimentare diffidenza e animosità.

Alberto Toscano
Questa è una lezione per l’avvenire: impegnarsi in un conflitto come quello afghano o quello libico comporta conseguenze dure da accettare per noi e terribili per coloro che ci hanno sostenuti sul campo.

Franco Venturini
I “quadri” afghani, in parte salvati e in parte abbandonati, non avranno alcun ruolo nel senso di favorire un “ritorno” impossibile seduti sulle baionette occidentali. Quel tipo di impresa per ora è archiviato.

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