Covid e streaming hanno cambiato, tra le altre, anche le nostre abitudini di ascolto calcistico: pochi e minimali i gruppi d’ascolto e ciascuno casa sua, come accade ormai con la nostra Serie A. Per questi mondiali avevamo qualche alibi in più: l’Italia in viaggio per il Qatar era maldestramente atterrata in Macedonia e la contro stagionalità invernale. Si “parla” con gli amici sul second screen (come dice l’amico Angelo Piazzolla) dello smartphone, in particolare nelle chat. Dalle quali arrivano, per fortuna, anche post e battute originali, non banali. Come quella del piccolo gigante della montagna bolognese, Enzo Persiani, in gioventù grande calciatore dilettante, che ha riassunto la finale di ieri con uno dei suoi giochi di parole: “Monsieur Messi”, un ping-pong verbale da pronunciare doverosamente in francese. Sì, perché Lionel non sembrava più gaucho ma chansonnier.
Capace di assoli e spettacolo perché era ormai stanco dei rimproveri dei caffè di lusso e di popolo, atlantici ed europei (ma soprattutto dell’hinchada), di non essere, lui, capace di far vincere i suoi come il vero dies, il profeta numero dieci, il Diego, che, in una foto circolata sugli smartphone, già nel 1986 indicava nello stadio Azteca con la mano de Dios la bandiera del Qatar, mentre nell’altra stringeva la Coppa appena vinta.
Nonostante il clamore della partita appassionante appena finita, sembra che distanza, assenza e addio siano le parole del calcio di questi giorni. Pur non avendo mai giocato in patria a motivo del calcio business, Messi infatti, voleva e teneva prima di salutare per età, alla vittoria albiceleste, e molto. La voglia di vincere forse è stata amplificata dagli avversari, i francesi capitanati in campo da Mbappé, compagno più giovane e rivale nel club, in tribuna e nel villaggio globale, mestamente ma sempre verticalmente (visto l’andamento di rincorsa della partita e l’esito finale) da Monsieur Macron. Mentre la distanza era stata osservata, con successo, dal presidente argentino Alberto Fernández. Che aveva scelto di restare a casa, forse per i soliti guai della politica di quel paese o per non aggravare la spesa pubblica, comunicando al mondo e ai suoi concittadini di volersi “godersi la finale … insieme a milioni di miei connazionali”, come per le precedenti partite, perché “la cabala è la cabala”. Ieri, nello stesso momento, alla distanza della tarda mattinata estiva consumata nella Casa Rosada di Buenos Aires, corrispondeva la distanza papale consumata nel pomeriggio invernale di Roma.
Riferiva infatti la Repubblica che il papa argentino che viene “dalla fine del mondo”, Jorge Mario Bergoglio, avrebbe tifato Argentina senza guardare la partita. Dal 15 luglio 1990, in effetti pochi giorni dopo la sconfitta dell’Argentina alla finale di Italia 90, pare infatti che Papa Bergoglio non guardi più la televisione, per osservare un voto fatto alla Vergine del Carmelo: “la tv non fa per me”. Non sente nemmeno la necessità di vedere le imprese del suo San Lorenzo Almagro, la squadra bairense che seguiva da bambino e poi da arcivescovo. Nel suo appartamento, a Santa Marta, non c’è un televisore e delle vicende del San Lorenzo pare sia informato, a debita distanza ma costantemente, da una guardia svizzera.
Forse la grande partita di Messi è dipesa dal fatto che, come tanti migranti che inseguono il lavoro e la vita, adesso gioca nel Paris Saint Germain del principe qatarino, finora poco vincente. Pagatissimo, certamente, ma forse insoddisfatto di condividere lo spogliatoio con gli altri fenomeni Mbappè e Neymar, più giovani, e di essere prevalentemente considerato un asset economico-finanziario.
Uno spogliatoio nel quale sono anche un paio di giovani italiani come Marco Verratti, che per paradosso del calcio business non ha mai giocato in Serie A e Gigio Donnarumma, uno dei più giovani esordienti in Serie A. Anche loro giocatori con facce di migranti, seppure di lusso. Sappiamo tutti che Gigio ha esordito giovanissimo nel Milan, per scelta di Siniša Mihajlović, giovanissimo migrante calcistico di grande potenza e determinazione, ma capace, a suo tempo, di indicare a Boskov la classe di Francesco Totti. Perché la classe calcistica Sinisa la riconosceva e la praticava ma, soprattutto da allenatore, ha preferito presentarsi al mondo non con una comunicazione di comodo o garbata, ma come un uomo e un professionista discusso e divisivo.
Come nel racconto della guerra di Jugoslavia, invocando sempre la sua sacra amicizia con Arkan o, meno bellicosamente ma indelicatamente, nelle ultime campagne elettorali emiliano-romagnole e bolognesi, quando decise di usare la sua notorietà per appoggiare pubblicamente i candidati di centrodestra. Ma anche l’uomo che con coraggio incredibile e l’inevitabile debolezza fisica, ha insegnato come affrontare pubblicamente una malattia terribile che, nonostante le mille cure e la sua tenacissima voglia di vivere e di allenare, lo ha tolto alla famiglia e al calcio e, nell’ultima sua grande impresa da mister, capace di salvare il (mio) derelitto Bologna dalla retrocessione quasi certa portandolo al decimo posto. A Sinisa oggi, 19 dicembre, si dà a Roma l’addio.
Ad un uomo che voleva, per sua ammissione, dividere è toccato un tributo pressoché unanime della politica e del mondo del calcio. Se ne è andato insieme ad un altro personaggio di quel mondo, Mario Sconcerti, giornalista e dirigente sportivo. Maestro di cronache e opinioni scritte sui giornali e di parole dette alla radio e alla televisione. Un mondo broadcast, da “Tutto il calcio minuto per minuto”, che non esiste più nella grande trasformazione dell’informazione e della comunicazione online. Nella quale, ahinoi, hanno spazio e visibilità non la competenza e il servizio al lettore o all’ascoltatore ma l’invettiva (quasi sempre strumentale e sbagliata), l’interesse personale e la sollecitazione delle passioni tristi della gente comune.