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Democrazia Futura. Aspettando l’offensiva israeliana a Rafah prima dell’inizio del Ramadan

di Giampiero Gramaglia, giornalista, co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles |

In Ucraina, Trump con Putin.

Giampiero Gramaglia

Nel suo pezzo “Aspettando l’offensiva israeliana a Rafah prima dell’inizio del Ramadan[1]” Democrazia futura offre il consueto aggiornamento di Giampiero Gramaglia del quadro sui due principali fronti bellici attuali. “Cresce la frizione fra Biden e Netanyahu” osserva l’ex direttore dell’Ansa: “Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione europea sono sempre più contrariati dalla renitenza d’Israele a ogni invito all’umanità e alla moderazione”.

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La tregua, che pareva a un passo, è ormai svanita, almeno nel breve termine. La guerra tra Israele e Hamas ha un nuovo fronte, Rafah, a Sud della Striscia di Gaza. Ma ha anche una data di scadenza: l’inizio del Ramadan, il 10 marzo, secondo quanto annunciato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che resiste alle pressioni della comunità internazionale per alleggerire la stretta militare e umanitaria sui civili palestinesi.

A Rafah, dove l’intelligence israeliana segnala quattro battaglioni di Hamas, si ammassano, ora, 1,4 milioni di persone, i due terzi degli abitanti della Striscia, rifugiati che hanno dovuto abbandonare le loro case a Gaza, a Khan Younis e altrove. Centinaia le vittime civili delle prime avvisaglie dell’offensiva israeliana. Gli sforzi negoziali proseguono, ma sotto traccia: oggi ci si crede meno, ma c’è chi spera sviluppi in settimana.

In 130 giorni, il conflitto, innescato dai raid terroristici di Hamas il 7 ottobre – 1200 israeliani uccisi e circa 300 presi ostaggio -, ha fatto quasi 30 mila morti, di cui almeno 12.500 minori. Il Washington Post pubblica documenti, foto e video, di 85 giornalisti uccisi dall’inizio del conflitto, tutti – tranne sette – palestinesi. Ma le cifre delle carneficine non distolgono Netanyahu dai suoi obiettivi: eradicare Hamas dalla Striscia e assumerne il controllo.

Il Sud Africa, che ha già denunciato Israele alla Corte di Giustizia internazionale per genocidio, torna a sollecitare l’Onu perché si frapponga all’intervento a Rafah. Ma la comunità internazionale, le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea, continuano a sciorinare impotenza di fronte alla determinazione israeliana di andare a fondo nell’azione militare.

Sul fronte ucraino, invece, a due anni dall’inizio dell’invasione russa, l’Ucraina avvicenda il comandante dell’esercito e non è ancora certa di ricevere nuovi aiuti dagli Stati Uniti, perché a Washington la fronda ‘trumpiana’ all’Amministrazione Biden li tiene bloccati. E proprio Donald Trump diffonde ansia ed allarme fra gli alleati europei, minacciando di lasciarli alla mercé di Vladimir Putin se non spenderanno per la difesa il 2 per cento del loro Pil. Parole e comportamenti che Joe Biden, presidente Usa, bolla come “pericolosi e sconvolgenti” e “non americani”.

In un certo senso, Putin raccoglie subito l’assist di T”rump, mettendo nella lista dei ricercati russi Kaja Kallas, premier estone, candidata a un incarico di rilievo nei nuovi organigrammi dell’Unione europea, dopo le elezioni di giugno, e colpevole di volere rimuovere i monumenti dell’era sovietica che restano nel suo Paese.

Cresce la frizione fra Biden e Netanyahu

Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione europea sono sempre più contrariati dalla renitenza d’Israele a ogni invito all’umanità e alla moderazione. I media statunitensi riferiscono di rapporti molto tesi tra il presidente Biden e il premier Netanyahu: l’ultimo colloquio fra i due leader, nel secondo fine settimana di febbraio, sarebbe stato burrascoso; e, in privato, Biden si sarebbe lasciato andare ad insulti all’interlocutore, che non accoglie nessun suo input su come condurre la campagna contro Hamas né su come concordare una tregua in cambio della liberazione di ostaggi, la Casa Bianca ridimensiona l’episodio.

Un momento dell’incontro tra il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il premer israeliano Benjamin Netanyahu (Fonte: Axios)

Biden e Netanyahu hanno vivacemente discusso su come assicurare la liberazione degli ostaggi e sulle intenzioni di Israele di condurre operazioni di terra a Rafah, giudicate dal premier essenziali per conseguire gli obiettivi di guerra di Israele. Biden s’è raccomandato che Israele non investa Rafah senza avere un piano “credibile ed attuabile” per proteggere la popolazione civile. Netanyahu ha ordinato l’evacuazione dei civili da Rafah, senza che sia chiaro dove possano andare: ci sarebbe un piano, anticipato dal Wall Street Journal, per allestire nuovi campi lungo il confine con l’Egitto, che il Cairo vede con ostilità.

Arabia Saudita, Qatar e altri Paesi hanno ammonito che l’ingresso di Israele a Rafah comporterà “gravi ripercussioni”. Josep Borrell, il capo della diplomazia europea, avverte su X che “

l’offensiva a Rafah condurrà a una indicibile catastrofe umanitaria e a gravi tensioni con l’Egitto”.

Human Rights Watch denuncia come un crimine di guerra lo spostamento forzato dei rifugiati palestinesi.

Il ministro degli Esteri britannico David Cameron è “molto preoccupato” per la situazione dei civili nella Striscia, che “non hanno più dove andare”. Il governo di Londra, come già fatto dagli Stati Uniti, colpisce con sanzioni quattro israeliani ritenuti leader “estremisti” dei coloni in Cisgiordania e colpevoli di violenze contro i civili palestinesi.

Medio Oriente, Israele-Hamas, i movimenti sul terreno

Nelle prime ore dei preliminari dell’offensiva israeliana su Rafah, due ostaggi sono stati salvati grazie a un’operazione delle forze speciali condotta nottetempo, tra domenica 11 e lunedì 12 febbraio 2024. Contemporaneamente, un intenso bombardamento aereo e terrestre faceva un centinaio di vittime secondo Hamas, (67 per Israele) – molte le donne e i bambini -. L’intenso attacco è propedeutico all’offensiva di terra massiccia.

Un commando delle forze speciali israeliane ha investito un appartamento nell’edificio fortemente protetto dove gli ostaggi erano custoditi. La liberazione, sotto un fuoco intenso, è un piccolo, ma significativo successo per Israele. I due liberati sono Fernando Simon Marman, 60 anni, e Luis Har, 70, entrambi con doppia nazionalità israeliana e argentina: erano stati rapiti il 7 ottobre nel kibbutz Nir Yizhak, durante i raid criminali di Hamas e di altre sigle terroristiche palestinesi.

Il quotidiano Haaretz descrive il salvataggio degli ostaggi come “un’importante vittoria morale”, ma rileva che solo un accordo con Hamas può portare alla liberazione di tutti i prigionieri. Hamas, dal canto suo, sostiene che tre altri ostaggi sono stati uccisi nell’attacco israeliano, non è chiaro se durante l’azione di liberazione dei due. E sempre Hamas dichiara che l’offensiva di terra a Rafah segnerà la fine ai negoziati per liberare gli ostaggi, che erano finora continuati sotto traccia.

Prima di lasciare la Regione, dopo l’ennesima missione in Medio Oriente, il segretario di Stato statunitense Antony Blinken aveva detto che un accordo su una tregua in cambio di ostaggi è ancora possibile, nonostante il netto rifiuto da parte di Netanyahu delle ultime proposte; e aveva ammonito Israele che l’aggressione terroristica subita il 7 ottobre non dà il diritto d’agire senza rispetto per i civili e per i diritti umani.

Secondo fonti di stampa, la cui accuratezza non è fin qui stata confermata dai fatti, Israele sarebbe disposto a concedere al leader militare di Hamas Yahya Sinwar l’esilio in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi e della fine del governo di Hamas nella Strisci: la cosiddetta ‘soluzione Arafat’, riferendosi a quando il leader dell’Olp ottenne il permesso di lasciare Beirut per Tunisi nel 1982. Israele avrebbe pure presentato ai negoziatori a Parigi una lista di altri cinque leader di Hamas, oltre a Sinwar, che vuole fuori dalla Striscia. L’organizzazione palestinese ha respinto la richiesta.

La situazione in tutta la Regione resta incandescente. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna continuano a contrastare le minacce portate dagli Huthi, dallo Yemen, alla navigazione nel Mar Rosso – e l’Unione europea sta per rendere operativa una sua flotta in quell’area, sotto comando italiano -; e Washington risponde colpo su colpo agli attacchi condotti da milizie sciite appoggiate dall’Iran, in Siria e in Iraq contro sue installazioni militari. Con un attacco con droni a Baghdad, il comando centrale statunitense dice di avere eliminato l’organizzatore di un’azione contro una postazione militare americana in Giordania che uccise tre militari americani, due uomini e una donna.

Dal canto loro, gli Huthi e le milizie non cessano le loro azioni, mentre la situazione appare un po’ più tranquilla al confine tra Libano e Israele. Le minacce alla navigazione dei miliziani sciiti yemeniti potrebbero avere ripercussioni per tutto l’anno su tempi di consegna e costi dei prodotti: Maersk, un gigante dei trasporti marittimi, calcola un costo addizionale di un milione di dollari per ogni cargo e/o nave cisterna costretto ad allungare di migliaia di miglia la propria rotta, evitando il Canale di Suez e circumnavigando l’Africa.

L’efficacia e la prontezza delle reazioni militari dagli Stati Uniti non sono condizionate dallo stato di salute del segretario alla Difesa Lloyd Austin, di nuovo ricoverato in terapia intensiva – e poi dimesso – per sviluppi del tumore di cui soffre. Le sue funzioni e i suoi compiti sono stati brevemente trasferiti alla sua vice, Kathleen Hicks, la prima donna al vertice politico del Pentagono.

Gli Stati Uniti d’America lesinano aiuti all’Ucraina per beghe politiche interne

Dopo mesi di negoziati, il Senato statunitense ha approvato con 70 voti favorevoli e 29 contrari nuovi aiuti all’Ucraina e Israele per 95,3 miliardi di dollari. Una ventina di senatori repubblicani hanno votato sì; alcuni altri senatori repubblicani ‘trumpiani’ irriducibili hanno tentato, senza successo, un’azione di filibustering, cioè di ostruzionismo. L’ex presidente Donald Trump, candidato alla nomination, aveva sollecitato i senatori a bocciare il provvedimento, confermando le sue riserve sull’opportunità di stanziare ulteriori aiuti all’Ucraina.

La misura vuole essere un segnale all’Ucraina e agli alleati europei degli Stati Uniti, che si possono ancora fidare dell’America nonostante le sortite anti-Nato e pro-Putin di Trump. Ma Kiev non può tirare un sospiro di sollievo: non è affatto sicura di stare per ricevere gli aiuti, perché lo speaker della Camera Mike Johnson, repubblicano e ‘trumpiano’, ha già mostrato pollice al disegno di legge sull’Ucraina così come è stato presentato al Senato:

“Siamo stati chiari sin dall’inizio che qualsiasi cosiddetta legge sulla sicurezza nazionale avrebbe dovuto riconoscere che la nostra sicurezza comincia al confine con il Messico”.

Le parole di Trump, che rinnegano gli impegni di mutuo soccorso della Nato e danno carta bianca alla Russia di Putin, suscitano allarme e indignazione in tutta Europa, ma hanno meno eco negli Stati Uniti. Gli alleati europei non votano. Quindi, Trump può fare spallucce di fronte ai crucci europei: la sua platea, in un comizio in South Carolina, lo ha entusiasticamente applaudito; e il successo avuto lo potrebbe indurre a divenire sempre più scettico sull’aiuto all’Ucraina, che, intanto, è alle prese con una carenza di armamenti.

La Casa Bianca bolla le parole del magnate, che, secondo quanto da lui stesso affermato, parlando in South Carolina, avrebbe detto ai leader Nato riuniti per un Vertice nel 2018 che intendeva “incoraggiare” la Russia “a fare quel che diavolo voleva” a quei Paesi che non pagavano il dovuto all’Alleanza atlantica. L’Amministrazione Biden giudica le parole “spaventose e sconvolgenti”: l’ex presidente

“incoraggia l’invasione dei nostri più stretti alleati da parte di regimi assassini”; e “mette in pericolo la sicurezza nazionale, la stabilità globale e la nostra economia”.

Biden stesso dice:

Trump “vuol dare luce verde a Putin per più guerre e più violenze”.

Il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg avverte che le parole di Trump

“possono compromettere la sicurezza di tutti noi ed esporre le truppe europee ed americane a rischi accresciuti”.

Contro il magnate, il New York Times prende posizione con un editoriale:

“Favorendo i nemici rispetto agli amici, Trump mette a rischio l’ordine internazionale”: “Alcuni potrebbero interpretare le sue parole come un tentato cattivo umorismo. Altri potrebbero apprezzare la linea dura. Ma la retorica di Trump lascia presagire, nel caso in cui vincesse la Casa Bianca a novembre, potenziali cambiamenti di ampia portata nell’ordine internazionale con conseguenze imprevedibili”.

Politico ne ricava l’impressione che “Trump sia già tornato” e che “l’America abbia ormai abbandonato l’Ucraina”, in attesa magari di abbandonare l’Europa. Un altro segnale della mano tesa di Trump a Putin è l’intervista al presidente russo fatta dall’ex conduttore della Fox News, licenziato per eccesso di ‘trumpismo’, Tucker Carlson: la prima concessa a un media occidentale dall’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022.

Zelen’skyj cambia i vertici militari

In questo contesto, in Ucraina, le acque non sono certo tranquille. E, dopo settimane d’indiscrezioni, il presidente ucraino Volodymyr Zelen’skyj ha nominato il colonnello generale Oleksandr Syrskyi comandante delle forze di terra, dopo avere destituito il generale Valery Zaluzhny.

Syrskyi aveva guidato la controffensiva su Kharkiv nel 2022: un successo. Ma Zalushny è molto popolare nelle fila dell’esercito e nell’opinione pubblica, nonostante il fiasco dell’offensiva condotta nel 2023 e nonostante la sua richiesta di una leva addizionale di mezzo milione di uomini, contrastata dal presidente. Il generale era stato informato della decisione di Zelen’skyj da una decina di giorni, ma l’annuncio ufficiale è venuto solo l’8 febbraio. Il suo accantonamento potrebbe preludere a tensioni fra politici e militari e Zaluzhny potrebbe diventare un antagonista di Zelen’skyj alle prossime elezioni presidenziali, che, comunque, non si terranno quest’anno.

L’avvicendamento prelude – si ritiene – a una profonda revisione della strategia militare ucraina ed è il maggiore scossone all’assetto delle forze armate dall’inizio dell’invasione, circa due anni or sono. La mossa coincide con una fase di stallo al fronte e di difficoltà ucraine, mentre i russi intensificano gli attacchi notturni con droni e missili. Il generale Syrskyi dovrà risollevare il morale delle truppe e del Paese, fare fronte alla penuria di uomini e mezzi e sperare che il presidente riesca ad ottenere aiuti dall’Unione europea, che li ha già stanziati, e dagli Stati Uniti d’America.

Sul campo, la Russia avrebbe usato sul territorio ucraino, per la prima volta dall’inizio della guerra, il 7 febbraio 2024, un missile ipersonico anti-nave Zirkon: lo dice il Kndise, cioè l’Istituto di ricerca scientifica di Kiev:

“Secondo le informazioni preliminari, abbiamo effettivamente le prove dell’uso del missile 3M22 Zirkon”.

Con una gittata tra 400 e 1.000 chilometri, gli Zirkon possono volare a una velocità di 9.800 km/h (Mach 8), eludendo i sistemi di difesa. Finora soltanto la Russia ha a sua disposizione questi vettori, che negli Stati Uniti sono ancora in fase sperimentale.

Nel febbraio 2023 il presidente Putin aveva detto che la Russia aveva avviato una cospicua fornitura di missili Zirkon alle sue forze navali per rafforzare le loro capacità nucleari.

Una delle centrali termoelettriche del più grande operatore energetico commerciale ucraino, Dtek, ha subito pesanti danni nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 2024 a causa di bombardamenti russi e si è temporaneamente fermata.


[1] Scritto il 14 febbraio 2024 per La Voce e il Tempo, Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2024/02/15/guerre-israele-hamas-ucraina-3/

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