Venceslav Soroczynski spiega ai lettori di Democrazia futura il valore de l’Evento, opera scritta dal Premio Nobel per la Letteratura Annie Ernaux, uscita per i tipi di Gallimard nel 2000: “la forma è quella del diario trasfuso, a forza, in un romanzo. E lo stile è talmente neutro che scompare. Non c’è alcuna invenzione linguistica, né stilistica. Non c’è neppure uniformità in quella piattezza di stile: di tanto in tanto, l’autrice riporta tal quali le pagine del diario che tenne nel 1963, anno in cui accadde l’evento. Ma è appunto l’evento ciò che conta davvero: il contenuto, che torna improvvisamente d’attualità nella nostra Italia che oggi è tornata di destra (intendiamoci, non è che, prima, fosse di sinistra: l’Italia è sempre stata di destra, anche prima che sedici aventi diritto su cento votassero candidati di destra). Ne L’evento si racconta l’interruzione volontaria di gravidanza che una studentessa universitaria si procura nella Parigi degli anni Sessanta. Senza troppo romanzare, senza addolcire, senza farne battaglia politica. In questa onestà quasi noiosa sta il valore del romanzo. La Ernaux non cerca di dire ciò che giusto o sbagliato, ma solo di spiegare cosa significhi l’essere lasciati soli dagli amici, dai genitori, dai medici, dallo Stato e dal fornitore del liquido seminale, in una decisione che riguarda il proprio corpo e quello che c’è dentro”.
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La mia fortuna è che – oltre al fatto di non aver mai studiato letteratura, tanto che ogni romanzo m’appare un miracolo, più che opera dell’uomo – non ho un programma: inizio un libro, l’interrompo; ne comincio un altro, lo smarrisco; ne apro uno ulteriore a pagina ottantotto e, poco dopo, lo presto a qualcuno, di cui dimentico il nome; vado in biblioteca e faccio il punto con l’addetto al prestito; entro il libreria e interrogo la commessa, la lascio parlare perché ne ha bisogno, come io ho bisogno di sapere cosa legga una che vende cose che si leggono. Ho un libro sul comodino, per quando vado a letto presto; sotto il cuscino tengo il lettore elettronico, per quando vado a letto tardi; ho un libro di racconti in bagno, perché il racconto è, in letteratura, l’unità, come il metro lo è nella misura e la felicità nell’esistenza; ho un volume sotto il porticato, per le sere d’estate; ho un testo di filosofia vicino al caminetto, perché tutto dovrà bruciare, compreso il libro di filosofia e me stesso. E ho una raccolta di aforismi in auto, per i semafori troppo lunghi e perché l’aforisma è, in letteratura, ciò che per un ragazzo è l’orgasmo, laddove per una ragazza ci vuole almeno un racconto di Jorge Luis Borges.
E potrei continuare, ma questa è una recensione e non un racconto – e ho smesso di scrivere racconti nel giorno in cui ho cominciato a scrivere recensioni. Pure, tutto quel disordine librario mi è necessario, perché io comprendo un libro solo grazie a un altro che avevo letto o che sto leggendo contemporaneamente. È proprio ciò che è successo con questo, che ho scelto per la stessa ragione per cui avevo scelto la Alice Munro: aveva vinto il Nobel. Ma L’evento[1] della Annie Ernaux non scendeva: ne comprendevo il significato, ma non mi sembrava un romanzo. Non pareva un saggio. Non faceva letteratura. Non era il risultato dell’attività dello scrivere. Ma, a guardarlo da fuori, era proprio un libro, pur se di modesto spessore – volumetrico, s’intenda – tanto che sembrava un diario. E qui mi avvicino al punto.
E il punto è che, di giorno, leggevo L’evento e, di notte, Lo stadio di Wimbledon[2]. E, verso la fine di quest’ultimo, quando cercavo di stringerne nel pugno il significato (vagamente impalpabile alla mente), c’era una frase, un lampo che mostrò improvvisamente tutto il temporale silenzioso che Daniele Del Giudice rovescia sul suo lettore:
“Quello che a me interessa è un punto in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere”.
Rileggete la citazione, per cortesia – quella che sta fra virgolette. Del Giudice parlava e lo faceva anche per la Ernaux: uno scrittore spiegava il romanzo di un altro scrittore.
L’evento della Ernaux è il punto in cui, nello spazio infinito del piano cartesiano della letteratura, s’incontrano il saper essere e il saper scrivere. Ed ecco che non posso emettere a suo carico la sentenza che destinai alla sua collega: la Alice Munro non sa scrivere o, meglio, non mi piace come scrive e non capisco nemmeno di cosa scriva, poiché cinquanta suoi racconti sono un racconto di Raymond Carver disciolto in mille litri d’acqua e di prosa. Che abbia preso il Nobel non importa: non sa ugualmente scrivere.
Chi lo decide? Io. Anche io, infinitesimo lettore sulla superficie della terra. Ma, sapete, saper scrivere non è l’unica cosa che conta: un libro si può leggere anche se non è scritto bene e non tutti gli scrittori devono essere capaci di realizzare le due condizioni: scrivere bene e scrivere cose rilevanti, poiché la compresenza di forma e contenuto è un miracolo e non si può pretenderne uno all’anno.
Nella Ernaux, il contenuto rilevante c’è e ve lo provo nel prossimo capoverso, mentre la forma è quella del diario trasfuso, a forza, in un romanzo. E lo stile è talmente neutro che scompare. Non c’è alcuna invenzione linguistica, né stilistica. Non c’è neppure uniformità in quella piattezza di stile: di tanto in tanto, l’autrice riporta tal quali le pagine del diario che tenne nel 1963, anno in cui accadde l’evento. Ma è appunto l’evento ciò che conta davvero: il contenuto, che torna improvvisamente d’attualità nella nostra Italia che oggi è tornata di destra (intendiamoci, non è che, prima, fosse di sinistra: l’Italia è sempre stata di destra, anche prima che sedici aventi diritto su cento votassero candidati di destra).
Ne L’evento si racconta l’interruzione volontaria di gravidanza che una studentessa universitaria si procura nella Parigi degli anni Sessanta. Senza troppo romanzare, senza addolcire, senza farne battaglia politica.
In questa onestà quasi noiosa sta il valore del romanzo.
La Ernaux non cerca di dire ciò che giusto o sbagliato, ma solo di spiegare cosa significhi l’essere lasciati soli dagli amici, dai genitori, dai medici, dallo Stato e dal fornitore del liquido seminale, in una decisione che riguarda il proprio corpo e quello che c’è dentro, che per qualcuno è già qualcuno, per altri non è ancora nessuno. Ma lei si ferma prima: non affronta questioni filosofiche, né morali, né teologiche.
La protagonista vuole abortire e basta, non impersona il giudice e non si giustifica come l’imputato. Racconta i fatti – crudamente e puramente, in questo avvicinandosi ad alcuni suoi connazionali scrittori che per questo ho tanto amato. Sottolinea il fatto che il dover ricorrere alla clandestinità talvolta fa raggiungere l’obiettivo, talaltra uccide. L’assenza di un quadro normativo che permetta di esercitare la propria volontà fa rischiare la prigione o la vita. Scrivo volontà e non scrivo diritto, poiché il diritto è scritto dagli uomini e nel tempo cambia, mentre ciò che è giusto o sbagliato lo si sente, non si può apprenderlo dai decreti – e, mentre digito sulla tastiera queste righe, sento chiaramente di non avere nemmeno il diritto di parlare di diritto. E forse nemmeno di aborto.
L’evento getta la protagonista in un insieme di sensazioni terribili, in un malessere indimenticabile. Eppure, ella riesce a mantenere calma e freddezza. A un certo punto, dice, riferendosi al feto, qualcosa come “di lui non mi importava nulla”. Questo fa vagamente comprendere a noi maschi, soprattutto se siamo al governo, che non occorre punire (né normativamente, né moralmente, né teologicamente) chi ha deciso di abortire, poiché stiamo parlando di un trauma che dura tutta la vita.
Non leggendo tutti gli autori che vengono premiati col Nobel, non posso esprimermi sul merito dell’assegnazione del premio. Ma posso dire che, anche se non l’avesse meritato per la letteratura (non ho per esempio amato il destino che si è auto-predetto: «Forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura.»), lo ha meritato per l’onestà, il coraggio, la rilevanza dei temi e per non aver perso il proprio tempo a scrivere inezie, come invece fanno molti suoi colleghi al di qua delle Alpi. E anche perché, in cento paginette, è riuscita a dire molto di più di quanto loro dicono in mille.
[1]Annie Ernaux L’èvènement, Paris, Gallimard, 2000. 129 p. Traduzione italiana di Lorenzo Flabbi: L’evento, Roma, L’Orma, 2019, 120 p.
[2] Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, Torino, Einaudi, 2013, 119 p.