Salvatore Sechi chiarisce per Democrazia futura “Il significato dell’intervento dell’ex Presidente della Corte Costituzionale su La Repubblica”: per lo storico sardo “Amato ha inteso colpire la prassi della doppia verità e doppia lealtà”. “Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha denunciato lo stato comatoso della nostra giustizia nell’accettare il suo secondo mandato al Quirinale, ma purtroppo contemporaneamente la radicale riforma del funzionamento dell’amministrazione giudiziaria non ha fatto un passo. Tutto ristagna nella morta gora delle resistenze molteplici al cambiamento.
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Di fronte a questo stato di fatto, Giuliano Amato ha giocato l’ultima carta che aveva a disposizione. Di qui – chiarisce Sechi – l’invito dolente, colmo di eterodossia e consapevole di ripetere cose dette decine di anni fa. Un’ accorata, pressante preghiera laica ai protagonisti, militari e no, sopravvissuti alla tragedia di Ustica, perché si decidano a parlare. La sua raccomandazione è rivolta alla coscienza, al senso del dovere e dell’onore di ognuno di essi. Ha posto un grande problema etico, di responsabilità collettive e non un garbuglio da ristorante romano della politica”.
Nell’ormai celebre intervista di Giuliano Amato a La Repubblica[1] (temo imperfettamente cucinata sulle pagine di un quotidiano sempre attestato su trincee da rissoso protagonismo politico e nemico dell’informazione) c’è una confessione di un’impotenza e la volontà di denunciarla che non mi pare si sia voluta cogliere.
Un ex presidente del Consiglio e della Corte costituzionale non può certo prendere di petto sentenze passate in giudicato e farne oggetto di una critica frontale. Finirebbe per essere accusato di comportamenti licenziosi e anche puerili.
I temi affrontati nell’intervista come nelle conferenze stampa successive vertono su un fenomeno macroscopico: l’incapacità della magistratura di venire a capo di grandi processi. Da quello di Ustica al caso Moro, dalla strage di Bologna a molti di mafia.
Tutti si sono chiusi come processi indiziari in cui mancava la “pistola fumante”, cioè la prova o l’insieme degli elementi probatori che giustificano l’emissione di pene e sanzioni.
I processi di Ustica e di Bologna hanno ormai una longevità di quarant’anni.
La stessa età hanno i percorsi temporali per l’arresto di capimafia come Riina, Provenzano, Messina Denaro eccetera.
Questi tempi lunghi dell’amministrazione della giustizia segnalano un problema preciso, cioè che in Italia non esiste lo Stato di diritto. Esso è molto spesso una finzione.
Dopo tanti decenni in primo piano viene il ruolo dello storico. Il magistrato dovrebbe rifiutarsi, in nome di una concezione del diritto proba e non prava, di spacciare per ricerca della verità quel che dopo tanto tempo non può essere giuridicamente accertato.
Quando si tenta di farla, com’è avvenuto di recente, con la strage del 2 agosto 1980 a Bologna, l’opinione pubblica resta muta, pervasa non da un sentimento di gratitudine verso i giudici, ma di stupore e incredulità.
Il distacco tra la gente e le toghe è diventato incolmabile.
In questo vuoto un Signor Nessuno, inventato da una stampa mediocre e servile come quella, non di un rado, dell’Emilia Romagna, può insultare uno studioso del livello di Giacomo Pacini, senza che la fabbrichetta della carta stampata abbia un moto di ripulsa, il coraggio per reagire.
Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha denunciato lo stato comatoso della nostra giustizia nell’accettare il suo secondo mandato al Quirinale, ma purtroppo contemporaneamente la radicale riforma del funzionamento dell’amministrazione giudiziaria non ha fatto un passo. Tutto ristagna nella morta gora delle resistenze molteplici al cambiamento.
Di fronte a questo stato di fatto, Giuliano Amato ha giocato l’ultima carta che aveva a disposizione. Di qui l’invito dolente, colmo di eterodossia e consapevole di ripetere cose dette decine di anni fa. Un’ accorata, pressante preghiera laica ai protagonisti, militari e no, sopravvissuti alla tragedia di Ustica, perché si decidano a parlare.
La sua raccomandazione è rivolta alla coscienza, al senso del dovere e dell’onore di ognuno di essi. Ha posto un grande problema etico, di responsabilità collettive e non un garbuglio da ristorante romano della politica.
La rettorica del sovranismo non c’entra un bel niente.
Chi può prendere sul serio e dare credibilità ad uno sfascia-carrozze come il ministro Matteo Savini? Da oltre il 30 per cento di consensi ha fatto precipitare la Lega a circa il 9 per cento. Con impudenza e insolenza ogni giorno annuncia e promette riforme tipiche di chi, come i sardi dicevano una volta delle mogli, parla perché ha la lingua in bocca.
Ha cantato le gesta funeste di Silvio Berlusconi e di Vladimir Putin, fa sfoggio infinito e altezzoso della sua incompetenza blaterando di tutto.
Il cruccio di uno statista come Amato è diverso da quello di un bon a tout faire come il segretario della Lega. Intende rafforzare le ragioni della Nato rispetto a quelle di una statolatria criminale come quella di Putin, chiedendo di non subire il passato, di liberarlo finalmente da ogni nebbia e doppiezza.
Francia e Stati Uniti hanno abbattuto il DC9 italiano per errore, mentre puntava a colpire un aereo con a bordo il colonnello Gheddafi? Allora bisogna dire che hanno mentito. Bisogna confessarlo apertamente e chiedere scusa all’Italia e ai parenti delle vittime.
Diversamente si alimenta il sospetto che nelle alte sfere delle nostre alleanze si predica bene, ma si razzola male, cioè nel fango delle omissioni, dei pretesti fino alle menzogne più macroscopiche.
Ustica potrebbe non essere stata un’eccezione.
Un leader liberalsocialista come Giuliano Amato ha voluto dirci che la politica della doppia verità nell’amministrazione della giustizia e della doppia lealtà nei confronti degli alleati è un grave pregiudizio e un errore.
Più di così che cosa avrebbe dovuto fare?
[1] Simonetta Fiori, “’Giuliano Amato, ‘Ustica, il Dc9 fu abbattuto da un missile francese. Macron chieda scusa’”, La Repubblica, 2 settembre 2023.