RIflessioni

Democrazia Futura. Accadde Domani: l’anno che non sarà palindromo, senza pace e con pochi voti

di Giampiero Gramaglia, Giornalista, co-fondatore di Democrazia futura, ex presidente di Infocivica |

Dalla guerra in Ucraina che non finisce alle elezioni in Brasile vinte da Lula, fino alle tensioni in Medio Oriente e all'incognita dell'Iran, la riflessione di Giampiero Gramaglia sul nuovo anno appena iniziato.

Giampiero Gramaglia riassume per Democrazia futura i grandi temi che caratterizzeranno l’attualità internazionale in questo 2023.

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Giampiero Gramaglia

Per essere un anno migliore del 2022 che l’ha preceduto, al 2023 basterebbe essere un anno un po’ palindromo, secondo questa sequenza: pace – guerra – 2022 – 2023 – guerra – pace. Non è affatto sicuro, però, che ci riesca: se ne va un anno di guerra; e s’annuncia un anno di guerra. L’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio, ci colse quasi di sorpresa, nonostante mesi di allarmi e di preparativi. Adesso, l’invasione pare non potere avere fine, essersi incancrenita e cronicizzata: dal conflitto, non s’intravvede una via d’uscita; e, anzi, si prospetta, dopo l’inverno, una nuova fase di offensive e controffensive.

Ucraina senza pace

Sarà la pace a coglierci di sorpresa? Lo si può sperare, non c’è da crederci. Non c’è al momento un’iniziativa diplomatica di pace – o di tregua – strutturata: non si muovono in tal senso né gli Usa né la Cina, le due potenze globali che possono condizionare i comportamenti di Russia e Ucraina; l’Europa non fa il peso – e non ha autonomia, rispetto a Washington -; leader di buona volontà, ma comprimari in questo contesto, Papa Francesco, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, o ancora il presidente turco Recep Tayyip Erdogan offrono i loro buoni uffici. Ma la ‘pace del grano’ conclusa a Istanbul il 22 luglio, per consentire l’export dei cereali ucraini, resta l’unico risultato concreto stabile finora raggiunto.

Chi muoverà un passo verso la pace?, chi dirà una parola di tregua? Nelle condizioni di farlo è, ora, il presidente Usa Joe Biden: contro ogni previsione, è uscito rafforzato dal voto di midterm; ha davanti a sé un anno senza l’ingombro di elezioni e di campagne elettorali; dovrà dal 3 gennaio fare i conti con un Congresso in cui i repubblicani non vogliono più dare ‘assegni in bianco’ a Kiev; e potrebbe avere l’ambizione di legare il suo nome a una cessazione dell’ostilità che non premi l’invasore e che non assecondi gli oltranzismi degli aggrediti. Resta da vedere se Biden vorrà farlo e saprà farlo.

Un Mondo con pochi voti voti

Il 2023 è un anno, sulla carta, senza elezioni politiche o presidenziali negli Stati che più contano nello scenario internazionale, anche se la situazione politica, e le consuetudini, in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, o anche la Francia, non escludono che si vada anticipatamente alle urne.

Il 2024, invece, sarà un anno campale, dal punto di vista elettorale, con le presidenziali negli Usa e le parlamentari nell’Ue. Nei prossimi mesi, il calendario elettorale negli Stati Uniti è piuttosto scarno: si voterà per il governatore in alcuni Stati del Sud e per il sindaco in qualche grande città, fra cui Chicago, dove Lori Lightfoot, la prima sindaco donna, afro-americana e apertamente gay d’una metropoli, cerca una conferma.

Nell’Unione europea, alla presidenza di turno del Consiglio dei Ministri si alterneranno la Svezia, nel primo semestre, dando il cambio alla Rep. Ceca, e la Spagna, nel secondo semestre, quando Madrid sarà però ‘distratta’ dalle elezioni politiche del 10 dicembre, dopo che a maggio ci saranno state le amministrative. E, secondo Euractiv, la presidenza svedese rischia di essere ostaggio’ dell’estrema destra, perché il peso politico dei Democratici Svedesi potrebbe condizionarne agenda e priorità.

Il clima di diffidenza verso le Istituzioni europee creato dal Qatargate non favorirà di sicuro l’attività politica e legislativa dell’Ue, che dovrà cercare di recuperare agli occhi dei cittadini credibilità e consenso.

Ad esclusione, salvo sorprese, di Italia, Francia e Germania, lo scacchiere elettorale europeo sarà, comunque, movimentato, con la Spagna a chiudere la serie di appuntamenti. Al Nord, il 5 marzo tocca all’Estonia, dove la premier liberal-europeista Kaja Kallas rischia di perdere la maggioranza; e il 2 aprile alla Finlandia, dove un’altra premier, Sanna Marin, di dentro-sinistra, deve guardarsi dall’avanzata del centro-destra.

Nell’area Visegrad, in Polonia in autunno ci saranno elezioni parlamentari che potrebbero decretare il superamento dell’attuale stagione politica intrisa di nazionalismo e anti-europeismo. Tra gennaio e febbraio, la Repubblica Ceca si darà un nuovo presidente, dopo i dieci anni del doppio mandato del controverso Milos Zeman. In Slovacchia, c’è l’ipotesi di una chiamata alle urne anticipata e c’è la possibilità, in un contesto politico molto frammentato, di un ritorno in scena dell’ex premier Robert Fico.

Nel Sud e nei Balcani, Spagna a parte, di cui abbiamo già detto, ci saranno le presidenziali a Cipro il 5 febbraio – Cipro è una repubblica presidenziale – e le politiche in Grecia entro luglio: i centristi paiono in grado di confermarsi partito di maggioranza. In Bulgaria, un ritorno alle urne è possibile, anzi probabile: sarebbe la quinta volta in due anni, senza che mai ne escano maggioranze stabili.

Infine, ai margini dell’Ue si vota in Svizzera: per il nuovo Parlamento il 22 ottobre.

Il Brasile, dove il nuovo è vecchio, e le incognite MO e Iran

In Brasile, il primo gennaio segna l’apertura di una nuova era che è un ritorno al passato: s’insedia alla presidenza Luiz Inacio Lula da Silva, già presidente per due mandati dal 2003 al 2011 e poi finito sotto accusa e in prigione per un’inchiesta di corruzione politicamente motivata, che lo tenne fuori dalla competizione elettorale nel 2018, quando prevalse Jair Messias Bolsonaro, omofobo e ultra-conservatore, negazionista della pandemia (anche se il Covid a momenti se lo portava via) e incline alla violenza.

Nelle elezioni di ottobre, Lula ha sconfitto Bolsonaro: dopo Trump, il 2022 ci ha liberato di molti suoi cloni, Rodrigo Duterte nelle Filippine, Boris Johnson nel Regno Unito, Bolsonaro in Brasile. Non ne sentiremo la mancanza, nel 2023. Il magnate ex presidente Usa è già sceso in lizza: punta alla nomination repubblicana nel 2024, ma il suo cammino è minato dalle molte inchieste avviate contro di lui e dall’ostilità dell’establishment del partito. Trump può ottenere la nomination, ma non pare in grado di tornare alla Casa Bianca. Ma molto dipende pure dalla scelte dei democratici: Biden deve ancora sciolgiere la riserva se candidarsi o meno.

Le elezioni, però, non sono l’unica fonte di incognita politica e di fermento. In Iran, ad esempio, ci s’interroga sull’impatto che la fiammata di proteste in atto dalla metà di ottobre avrà sugli assetti della Repubblica teocratica, che nel XXI Secolo altre volte è stata scossa da fremiti insurrezionali, tendenzialmente laici e progressisti, che si sono però poi stemperati e spenti.

In tutta la regione, nel Medio Oriente, non mancano gli spunti d’inquietudine. L’ennesimo ritorno, in Israele, di Benjamin Netanyahu riaccende le tensioni con l’Iran e torna ad allontanare soluzioni alla questione palestinese, mentre la Siria vive un conflitto ormai endemico e cronico, l’Iraq resta una potenziale polveriera e la penisola araba con le sue monarchie una sentina di mancato rispetto dei diritti umani e di genere.

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