Stefano Rolando in un mini saggio dedicato al tema “25 luglio-8 settembre 1943. Il potere esplode come una bomba[1]” anticipato sul numero di settembre di Mondoperaio riprende e approfondisce il tema della discussione su quella che nell’occhiello definisce la ” maggiore crisi identitaria dell’Italia contemporanea”. Riprendendo il paradigma delle molte verità sulle vicende della famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo oggetto di studio da parte di Emilio Gentile Rolando propone “Quattro idee sulla natura del otere nel fascismo” prima di esaminare “Il concatenarsi dei fatti” in quei 45 giorni e considerare “La storia ancora non univoca, dal 25 luglio del ‘43 al 25 aprile del ‘45”, ovvero come “ancora oggi collocare la verifica di una interpretazione storica che riguarda la fase finale, di tramonto e sconfitta del fascismo italiano”. Rolando considera “Decisiva l’analisi dell’8 settembre” prima di concrentarsi su come “La frattura 1943-1945” viene percepita dall’attuale governo Meloni: “Sull’asse 25 luglio-8 settembre – per giunta nell’ottantesimo – è in gioco il giudizio etico-politico delle ragioni di valorialità della continuità del regime fascista oltre il suo naturale perimetro storico e contro l’interesse nazionale” scrive Rolando prima di riservare il paragrafo finale all’epilogo di una personalità come quella di “Benito Mussolini e la Repubblica Sociale Italiana” che “senza orgoglio, senza obiettivi strategici, senza una speranza per sé stesso, consapevole del senso unico imboccato subendo ulteriormente il ricatto nazista, […] scende nel girone infernale della sudditanza e consegna ad un falso sé la responsabilità di una guerra civile che lui stesso aveva il potere di evitare senza forse dovere ancora entrare – per i suoi stessi fedeli – nella irrevocabilità del ‘male assoluto'”.
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Spesso, nella scrittura giornalistica o saggistica, quando si vuole alludere ad una verità complessa, sfaccettata, con apparenze e immanenze in continua contraddizione, si fa riferimento a generi narrativi che contengono elementi archetipici.
Un caso diffuso è quello di Rashomon, film del 1950 di Akira Kurosawa, che il produttore non voleva nemmeno promuovere e che finì per caso (grazie all’italiana Giuliana Stramigioli, allora docente di italiano a Tokyo) alla Biennale di Venezia, vincendo il Leone d’oro (e poi anche l’Oscar). Un caso – più noto agli italiani, malgrado l’autore abbia un suo posto nel Novecento europeo – è quello di Uno, nessuno e centomila, ultimo lavoro di sintesi intellettuale e civile di Luigi Pirandello, iniziato nel 1909 ma concluso in volume nel 1926, che l’autore definì “il romanzo della scomposizione della vita”.
Non casualmente, lo storico Emilio Gentile con il suo 25 luglio 1943[2] mette al centro del “Prologo” il riferimento a Rashomon. Per riferirsi al paradigma delle molte verità sulle vicende della famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo, stando ad un rapporto esplicito e implicito, intenzionale e allusivo, attivato e subito, dichiarato e negato, tra i suoi protagonisti per quanto i fatti e le dichiarazioni nell’immediato e in seguito hanno permesso di intendere.
E insieme, non casualmente – se è consentito mettersi in questa scia, in condizioni di evidente minoranza scientifica – concludendo un mio lavoro di lunga e lenta stesura dedicato all’8 settembre 1943 (45 giorni dopo quel 25 luglio, consegnato di recente all’editore, per gli 80 anni di questo evento), ho fatto ricorso alla metafora pirandelliana non tanto nel senso delle “molte verità” dei fatti, ma nel senso del carattere confuso delle molteplici personalità messe in campo soprattutto dal principale protagonista di quei fatti. Cioè Benito Mussolini, considerato in grave e contraddittorio rapporto con i destini della Nazione.
Quattro idee sulla natura del potere nel fascismo
Questi 45 giorni – una transizione veloce per la sua traiettoria oggettiva ma immensa per i contenuti impliciti che hanno costituito la maggiore svolta identitaria nazionale del Novecento – mettono tra loro in relazione conflittuale quattro concezioni del potere che, appunto, la prima metà del secolo scorso ha sviluppato in tutta la sua fragorosa e drammatica evoluzione.
La prima concezione è costituita dalla forma e dalla sostanza del potere – quello creato e stabilizzato dopo il trauma “rivoluzionario” del ’22 e la sua riduttiva evoluzione a “regime” – che potremmo considerare proprio di una dimensione autarchica della Nazione, che trova il suo ultimo posto nella civiltà colonialista per pretendere di stare al tavolo dei grandi ma che nessuno considera “potenza alla pari”. Creando così quello spazio intermedio tra grandi e piccole potenze che fa dell’Italia un Paese che si accontenta di una collocazione autonoma a copertura dei suoi numeri (modesto PIL, alta emigrazione, forti disuguaglianze), collocazione comunque sempre sostenuta dalle sue narrative propagandistiche.
La seconda concezione riguarda l’evoluzione del potere nella internazionalizzazione conflittuale della scena europea. Ed è prodotta dalla accelerazione della riscossa tedesca rispetto alle condizioni della pace di Versailles, concepita dal nazismo con una accentuazione dell’organizzazione militare e di polizia tesa a rifare i conti con le “potenze” vincitrici della prima guerra mondiale e il loro schema di potere (che comprende, strampalata invenzione, anche il sistema ebraico). In quello schema l’Italia avrebbe dovuto essere tra i nemici d’origine, ma grazie alla filiazione del nazismo dal fascismo viene considerata un alleato subordinato, idoneo ad una copertura dei limiti mediterranei dell’influenza tedesca.
La terza concezione si incardina tra il 1942 e il 1943 e riguarda il potere nella degradazione dell’andamento del conflitto bellico, in cui l’arroganza presuntuosa dei pieni poteri sia civili che militari che Mussolini assume scegliendo – nell’accreditamento del blitz Krieg – di accodarsi al presunto vincitore “gettando sul tavolo la sua manciata di morti” nel fronte meridionale e mediterraneo dell’Europa – si rivela un rischio politico andato oltre la gestibilità che mette alle corde la credibilità interna e internazionale del regime.
Il quarto snodo rappresenta la parte terminale di quel lungo ciclo: il potere nella caduta della forza negoziale delle istituzioni italiane di fronte alla crescente “tenaglia” rappresentata dai tedeschi (il 19 luglio Hitler, informato della manovra di deposizione di Mussolini, incontra lo stesso Mussolini a Feltre) e dagli anglo-americani. Tenuto conto dello sbarco americano in Sicilia avvenuto il 10 luglio del 1943 e tenuto conto del canale vaticano che Mussolini aveva aperto per trattare riservatamente con gli alleati (ancora troppo vago il ruolo dei russi, che tuttavia contano nelle linee di influenza del sud-est della geopolitica del tempo).
Da molti anni si è ben colta la convergenza di questi quattro fiumi carsici del rapporto tra potere, istituzioni e destini nazionali in un evento che appartiene non all’agenda tipica delle “svolte” della storia, svolte costituite dalle battaglie in armi, vinte o perse sul campo (l’ultima, che ancora risuonava nella coscienza italiana, era la Caporetto del 24 ottobre 1917).
Ma alle battaglie più curiali, in cui le penne stilografiche sostituiscono lame e moschetti e in cui si avanza e si indietreggia a colpi di ordini del giorno.
Ci si riferisce – come è ben evidente – alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo in cui prenderanno corpo tutte e quattro le forze emergenziali di questi processi infiammati. Ma dentro la cornice di una grande ambiguità, rappresentata dal fatto che il presidente di quel Gran Consiglio (che non era il “governo”, malgrado suoi sei ministri tra i membri; e che si limitava ad affiancare il quadro istituzionale) era il duce, che aveva il potere di convocarlo, di definirne l’ordine del giorno, di contraddire in evidente coerenza antidemocratica il suo andamento, di dichiararlo esaurito o terminato.
Mussolini si limiterà a convocare e togliere la seduta. Interverrà tre volte, con toni tesi. Non ricorrerà – come Giulio Cesare alle Idi di Marzo – ai suoi poteri di difesa personale, al di là di qualche contorcimento delle seconde e delle terze file. Il capo del fascismo è in prossimità dei suoi sessant’anni.
Ne fa cenno lui stesso – scrive Gentile[3] – per adombrare la possibilità di “chiudere questa bella avventura che è stata la mia vita”, ma proprio intervenendo in quel Gran Consiglio un passo dopo si trincera dietro la dichiarazione: “la mia fiducia nella vittoria della Germania e nostra è oggi intatta”).
Questo carattere auto-limitato, trattenuto, spinto dalla storia più che dal carattere volitivo, di chi ancora nel 1943, a 21 anni dalla marcia su Roma, rappresentava un “potere in apparenza assoluto”, diventa così la chiave interpretativa che Emilio Gentile mette al servizio di carte lungamente esaminate e riesaminate nel corso della sua opera di studioso.
Insieme a quella di tanti altri che hanno concorso a formare quello scaffale che va sotto il nome di “lungo viaggio dalla dittatura alla democrazia”.
Il concatenarsi dei fatti
Il 25 luglio Mussolini, dopo i venti minuti di colloquio con il re Vittorio Emanuele III a Villa Savoia, alle 17.20 è arrestato dai carabinieri.
Il 23 settembre – due mesi dopo – si costituisce la Repubblica Sociale italiana, che fino ad inoltrato 1944 arriva fino a ben sotto Roma e quindi riguarda due terzi dell’Italia, poi riducendosi al nord per la progressiva risalita degli anglo-americani e la liberazione del territorio.
Di mezzo (tra luglio e settembre), prima la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso (da parte del commando delle SS guidato da Otto Skorzeny) poi il nuovo incontro con Hitler a Rastenburg per le intese essenziali sulla immediata ricostruzione nel centro-nord Italia di uno Stato repubblicano che ricomprendeva il regime fascista con il presidio militare e di polizia dei nazisti.
Il 3 settembre a Cassibile (Siracusa) il generale Castellano, plenipotenziario del nuovo capo del governo italiano Pietro Badoglio, firma con gli anglo-americani l’armistizio.
La notizia viene embargata per cinque giorni per mettere a fuoco una linea di condotta rispetto all’inevitabile reazione tedesca, embargo interrotto la mattina dell’8 settembre dalle comunicazioni del generale Eisenhower da Radio Algeri che costringono il maresciallo Badoglio a pubbliche comunicazioni nel tardo pomeriggio, comunicazioni note come il “proclama di Badoglio” in cui si reitera l’’espressione già contenuta in una prima dichiarazione al momento della nomina: “la guerra continua”.
Il proclama non spiega né con chi, né contro chi.
Come è stato ricordato, anche in recenti rievocazioni mediatiche,
“il cambio di governo non fu accompagnato da una dichiarazione di resa”[4].
Lo spiega la Cancelleria del Terzo Reich che il 9 mattina con una nota furibonda esige la consegna delle armi ai tedeschi stessi di qualunque reparto militare italiano, pena il diritto dei reparti germanici di passare per le armi i “traditori”.
In Italia lo sbandamento generalizzato delle forze armate si risolse in un sostanziale “tutti a casa”. All’estero (Grecia, Balcani, Africa) l’impossibilità di movimentare truppe, aprì le porte a 800 mila arresti e traduzione in campi di concentramento di militari italiani da parte tedesca, con gravissimi eccidi (a Cefalonia con 15 mila morti) ma anche con coraggiose azioni di intere compagnie italiane che si assunsero la responsabilità di trasferirsi in montagna in condizioni “resistenziali” contro i tedeschi.
I fatti, riassunti così in questa ventina di righe, si condensano in un lampo drammatico che tuttavia si profilò per quei lunghissimi 45 giorni, in cui l’Italia fascista del “Vincere! E vinceremo” si spezzava in due, consegnata dal sud al centro all’avanzata degli anglo-americani e al nord all’occupazione nazista, con una crisi di tenuta e di ruolo di ogni istituzione, da quelle locali al Quirinale (di mezzo anche la fuga dei Savoia da Roma, da poco bombardata, verso Brindisi). Ma con logiche politiche che si andavano formando nelle due parti, ormai separate e in conflitto, del Paese.
Al centro-sud il riemergere dei partiti democratici in condizione di negoziare con gli anglo-americani il processo di liberazione nazionale che porterà due anni dopo alla riunificazione nazionale indipendente e alla Costituente.
Al nord l’antica condizione di servaggio, pre-risorgimentale, con il fascismo fallito a svolgere compiti di polizia, di concorso all’attuazione delle leggi razziali e con bande di repressione dei movimenti di resistenza; ma con trecentomila giovani in rappresentanza di molteplici idealità politiche che si batterono per due anni per restituire internazionalmente l’onore agli italiani.
La storia ancora non univoca, dal 25 luglio del ‘43 al 25 aprile del ‘45
E in questo schematico giudizio storico – che, salvo la letteratura filofascista, appartiene a quasi tutte le correnti di opinione che si riconosceranno nelle parti elettive della Costituente – che si deve ancora oggi collocare la verifica di una interpretazione storica che riguarda la fase finale, di tramonto e sconfitta del fascismo italiano.
Una lettura sostiene l’inevitabilità del posizionamento di orgoglio di un Paese che non era più nelle condizioni di condurre con successo le sue operazioni militari ma che avrebbe dovuto mantenere fedeltà di alleanza con la Germania e reagire alla devastante dissoluzione del quadro istituzionale, in una linea di continuità del “nazionalismo” politico che il fascismo aveva consolidato e che la Repubblica di Salò avrebbe voluto mantenere come visione di identità politica.
Anche se storici e giuristi sostanzialmente concordano con la definizione di “Stato fantoccio”, la “visione repubblichina” si è più volte dipanata attorno al principio del “male minore” per l’Italia che comportava l’accoglienza del ricatto nazista (“altrimenti faremo dell’Italia peggio della Polonia”, avrebbe detto Hitler a Mussolini appena liberato dalle SS).
Un’altra lettura considera le scelte e l’andamento della guerra come una sequenza di errori, dalla posizione filo-nazista delle alleanze alla gestione di imprese militari per le quali la propaganda non era sufficiente a creare condizioni tecniche di fronteggiamento, fino all’emergere di un’esigenza superiore dell’interesse nazionale per arrivare ad un armistizio per preservare le città, la popolazione e gli stessi soldati dalla catastrofe.
Esigenza prima assunta dalla maggioranza stessa dei membri del Gran Consiglio (con il passaggio da 6 a 19 voti favorevoli all’odg Grandi che in quella seduta chiedevano a Mussolini di rinunciare alla suprema responsabilità militare della Nazione restituendo quella responsabilità al re), ma poi anche a reparti militari in intesa con la Corona, per esautorare completamente il duce e creare un governo di transizione defascistizzato.
L’analisi che Emilio Gentile esprime nelle oltre trecento pagine del suo 25 luglio 1943, come brevemente anticipato prima (e come focalizzato nella intervista concessa a Walter Veltroni sul Corriere della Sera per lanciare la riedizione del saggio[5]) si muove attorno alla comprovazione storica (testimonianze, memorialistica, interviste che spostano fino agli anni Ottanta la discussione tra queste due parti che si contrapposero con le armi dal 1943 al 1945 e poi fino ad oggi con un andirivieni di rigurgiti e negazionismi) è quella della inclinazione personale di Mussolini di “scendere dal treno della storia”.
Di più: percepire la parabola della guerra, dopo il tentativo tra il 1939 e il 1940 di non schierarsi apertamente, poi con il convincimento di una soluzione “rapida” dell’inevitabile conflitto, come una sconfitta personale.
La domanda che va formulata oggi a tutti coloro che sostengono l’aspetto onorevole e coraggioso dello schieramento filo-nazista dei repubblichini e dell’ingaggio nella guerra civile per debellare l’altra tesi dell’onore e del coraggio degli italiani, riguardante i partigiani, è insomma questa: dove sta l’interesse della nazione, nel momento in cui Mussolini concede alla storia la sua uscita di scena e che resta invece in scena solo perché il ricatto generale di Hitler diventa insostenibile per sé, per i gerarchi, per i gruppi dirigenti, per la nomenclatura, insomma per tutti coloro che pensano che la partita non sia ancora da considerarsi finita?
Decisiva l’analisi dell’8 settembre[6]
Si allunga anche in questo frangente la reiterata e dolente riflessione storiografica sull’8 settembre, nel cui lungo percorso di analisi primeggia la ricostruzione pubblicata nel 1993 da Elena Aga Rossi, allieva di Renzo De Felice, che fissò nel titolo stesso del suo testo lo spartiacque drammatico del Novecento “Una nazione allo sbando”[7].
Nelle cinque pagine della Lettura (Corriere della Sera del 20 agosto), animate da Antonio Cairoti[8], interviene con altri studiosi con approfondimenti che sono parte della trama qui brevemente accennata.
La condotta di governo seguita da Pietro Badoglio:
“Disastrosa. Non fu dato agli Alleati il contributo promesso all’armistizio. Si rifiutò l’opportunità di avere il sostegno di una divisione americana aviotrasportata. Si cercò, senza riuscirci, di ingannare i tedeschi”.
Unità nazionale e orientamento dei soldati italiani;
“Si spezzarono certamente il consenso e l’unità nazionale. Ma la maggioranza dei militari rimasero fedeli al giuramento ai Savoia e lo dimostra il comportamento dei 600 mila militari internati, che rifiutarono di tornare in patria per non aderire alla Repubblica Sociale Italiana”.
Perché Mussolini accetta l’imposizione di mettersi a capo della Repubblica Sociale Italiana:
“Sembrò accettare di essersi messo da parte quando scrisse la lettera a Badoglio dopo il 25 luglio. L’impressione è che si considerasse un uomo finito. Le foto della sua liberazione dimostrano che non era affatto contento per l’arrivo dei tedeschi sul Gran Sasso. Ma Hitler usò nei suoi confronti minacce e blandizie. De Felice sostenne che lo fece per salvare il salvabile. Se avesse rifiutato sarebbe rimasto nelle mani dei tedeschi e Hitler avrebbe messo al suo posto Farinacci. Per Mussolini una cosa inaccettabile”.
La frattura 1943-1945:
“La frattura fascisti-antifascisti non si è mai davvero ricomposta. È un problema che riguarda l’identità italiana che non siamo ancora riusciti a risolvere”.
Domande legittime
Ci siamo dunque arrivati a questo quesito, qui in un breve articolo ma anche in tante altre occasioni di confronti tra studiosi ed esponenti del quadro politico, a fronte di un inventario sia dei punti acquisiti del dibattito storiografico, sia degli “spunti” – non moltissimi, ma visibili – di ciò che è emerso nell’occasione di questo “ottantesimo”.
Questa domanda sottende la linea di confronto che, anche su queste pagine, abbiamo sostenuto dal settembre del 2022 a proposito del governo Meloni. Cioè, un governo che ha fatto mutare l’equilibrio dal centro-destra della seconda repubblica a un destra-centro in cui il traino e la regia è assunta da un partito che mantiene nel simbolo la continuità simbolica post-fascista. Un partito nato reattivamente al partito di AN che, sdoganato e portato al governo dal leader della coalizione Berlusconi, in cambio dichiarò il fascismo “male assoluto”.
Questa discontinuità, unita a coerenza di posizioni fino a tutto il governo Draghi, ha costruito sulla progressiva debolezza di Forza Italia e della Lega un mutamento sostanziale di baricentro e un forte cambiamento nell’occupazione dei posti di potere.
Le ambiguità narrative di Giorgia Meloni hanno avuto confutazioni e conferme in entrambi i casi con argomenti veri.
Da un lato la ripetuta spiegazione ufficiale della sua estraneità sostanziale al fascismo, perché generazionalmente fuori da quella storia e da implicazioni familiari.
E dall’altra parte la radice dei sentimenti di appartenenza della premier Meloni stessa e del gruppo dirigente prevalente di cui si circonda, nel vissuto contestativo al sistema dei partiti dell’arco costituzionale, però da una posizione orgogliosa del segnale simbolico di continuità morale con il fascismo.
In forza di questo dilemma non sciolto, la domanda appare legittima. Forse anche di più rispetto al contesto dell’anniversario del 25 aprile, alla fine tortuosamente aggirato.
Sull’asse 25 luglio-8 settembre – per giunta nell’ottantesimo – è in gioco il giudizio etico-politico delle ragioni di valorialità della continuità del regime fascista oltre il suo naturale perimetro storico e contro l’interesse nazionale[9]. Anche se questo arco di date non costituisce vincolo (come il 25 aprile o il 2 giugno) per indurre il governo o la premier a fare dichiarazioni.
Comunque questo appare il punto focale circa quasi tutti i dibattiti che si vanno ripetendo per un continuato tentativo di parte governativa di “riscrivere la storia”.
Ci prova infatti anche il ministro della Protezione civile, ex governatore della Sicilia, Nello Musumeci, da sempre in formazioni politiche post-fasciste, che ridisegna gli anglo-americani come “nemici, invasori, terroristi” ed elogia (attribuendo l’elogio al popolo siciliano) il “contegno disciplinato dei nazisti”[10].
Per arrivare a profilare una risposta, questa è la griglia di metodo che ispira la linea di scrittura di questo articolo.
Lo scopo è di discutere anche usando i paradigmi superiori di analisi (appunto, l’interesse nazionale) invocati di solito per contrastare l’avversario non per porsi criticamente di fronte alla realtà e alla storia. Discutere per esempio anche l’impostazione – in questo caso intesa come “linea di governo” – che Giorgia Meloni attribuisce alla valutazione storica del fascismo in ordine alle implicazioni con l’evoluzione politica italiana.
La sua “lettera al Corriere” in occasione del 25 aprile[11] sfugge da un’icastica e definitiva presa di posizione. Utilizza il “sì, ma” come metodo di analisi.
Dunque, ammette, rifiuta, riammette, distingue, eccetera.
Ci sono alcuni periodi che la tengono legata alla versione costituzionale corrente (“Il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana”).
Ma la preoccupazione fondamentale è sempre quella di recuperare la maggiore legittimità possibile per gli italiani collocati – dal passato al presente – nella “parte sbagliata della storia”:
“Capisco quale sia l’obiettivo di quanti, in preparazione di questa giornata e delle sue cerimonie, stilano la lista di chi possa e di chi non possa partecipare, secondo punteggi che nulla hanno a che fare con la storia ma molto hanno a che fare con la politica. È usare la categoria del fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico: una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce, che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto”.
La diaspora interpretativa di protagonisti e testimoni è proseguita almeno per trent’anni dopo la guerra attraverso la contradditoria memorialistica. Ora – trenta anni dopo – riprende su territori più scivolosi ma a volte anche meno scientifici. Dunque, porre la questione alla “storia contemporanea” di fare ordine nelle montagne russe della materia, cosa sempre utile, ora è doverosa. Chi qui scrive non assume responsabilità scientifica propriamente storica, ma piuttosto quella dell’analista del dibattito pubblico che ha componenti politologiche, mediologiche, sociologiche, storiche e di filosofia politica.
Questo richiede – per la discussione invocata – di non eludere la metodologia della ricostruzione storica a fronte di fonti possibilmente inquinate (ovvero auto-corrette). Chiede – come qui si è pur un po’ sbrigativamente provato a fare – di connettere intimamente il 25 luglio con l’8 settembre[12].
Chiede di avere presente, in ogni circostanza, nella complessità dei fatti di quei 45 giorni, la citata tenaglia (tedeschi e anglo-americani) come la forzante storica dell’annientamento identitario italiano[13].
Chiede di tenere in considerazione – nei limiti di una generale esposizione psicologica del ruolo dei principali protagonisti tra loro segnati da storie interpersonali complesse[14]– l’evoluzione comportamentale del rapporto di Mussolini con la realtà e con il copione a cui l’autoritarismo ventennale lo aveva abituato.
Chiede, alla fine di queste accortezze, di riconoscere il tema dell’interesse nazionale nel rapporto tra fascismo, guerra e guerra civile come ambito di indagine prevalente per l’aggiornamento della valutazione storica[15].
Benito Mussolini e la Repubblica Sociale Italiana
Per questo si è cominciato con il paradigma Rashomon (le molte verità) e si finisce con Uno, nessuno e centomila (cioè, le sfaccettature di una personalità).
Anche se il racconto attorno alla figura di Vitangelo Moscarda, salvo il tema che una psicologia disturbata e quella di un dittatore assediato possono avere in comune l’idea di distruggere le molte immagini che gli altri vedono di sé, pensando al Mussolini tre volte più anziano del personaggio pirandelliano e mille volte più esposto nella vicenda umana e pubblica, non consente altro che allusioni generali in cui il titolo dell’opera conta forse più della trama.
Emilio Gentile sintetizza così il paradigma Rashomon:
“Fu una temeraria impresa di patrioti, come sostenne Grandi, una subdola congiura di traditori, come sostenne Mussolini, o un suicidio, consapevole o involontario, di un regime, come sostenne Badoglio?”[16]
Complessa e dibattuta anche la questione della scomposizione delle personalità, con al centro l’epilogo della storia personale del duce. Ma che ci restituisce una figura in una dinamica che prende forma in tutti gli accertamenti storici. Mussolini rientra nel film o nel viaggio della sua storia da cui si è fatto prendere dalla sensata debolezza di voler scendere, proprio perché l’interesse nazionale che ha sorretto il suo massimalismo giovanile, che ha sorretto la sua volontà di riorganizzare la vita pubblica dopo lo sconquasso della prima guerra, che ha persino sorretto la sua visione di sostituire sogni imperiali alle disagiate virtù della democrazia, è uscito dal quadro degli obiettivi raggiungibili. Ed è quindi senza orgoglio, senza obiettivi strategici, senza una speranza per sé stesso, consapevole del senso unico imboccato subendo ulteriormente il ricatto nazista, che scende nel girone infernale della sudditanza e consegna ad un falso sé la responsabilità di una guerra civile che lui stesso aveva il potere di evitare senza forse dovere ancora entrare – per i suoi stessi fedeli – nella irrevocabilità del ‘male assoluto’.
[1] Testo pubblicato sul n. 9/settembre 2023 della rivista Mondoperaio. Cf https://stefanorolando.it/?p=8105.
[2] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, edito da Laterza nel 2018 riproposto in volume dal Corriere della Sera in questo 2023.
[3] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, op. cit. alla nota 2, p. 141, con la pubblicazione di una parte del primo dei tre interventi pronunciati da Mussolini in quella seduta.
[4] Lo scrive, tra gli altri, lo storico Nicola Labanca, “Così il proclama di Badoglio scatenò 45 giorni di caos”, Domani, 7 agosto 2023.
[5] Walter Veltroni, «Sul 25 luglio troppe bugie». Intervista a Emilio Gentile, sul suo saggio con il «Corriere» (Corriere della Sera, 15 luglio2023). Tra le affermazioni dello storico:
“Lui si sente un uomo finito. In primo luogo, perché vede il Paese catastroficamente devastato dalle sue assurde ambizioni belliche, ma anche perché, forse, era da tempo convinto che, quando un duce perde il carisma e resta isolato può decidere la propria eutanasia politica”.
[6] Questo breve paragrafo, contenuto nell’ultima versione di scrittura, non ha trovato posto nella versione impaginata e pubblicata.
[7] Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, Il Mulino 1993.
[8]“8 settembre, l’Italia è spezzata. Conversazione di Antonio Cairoti con Elena Aga Rossi, Filippo Focardi e Alessandra Tarquini”, La Lettura (allegata al Corriere della Sera, 20 agosto 2023).
[9] Agli occhi di chi scrive, questo argomento resta ancora terreno di discussione aperto in un campo in cui valgono anche alcuni degli argomenti messi in campo da Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, quando avverte “Opposizione sveglia! Non si batte più Meloni con il modello 25 aprile” (17 luglio 2023) esplicitando nell’occhiello l’argomento: “Meloni è cambiata, l’opposizione no: è ferma al passato”. Interessanti e accettabili alcune argomentazioni, ma il cambiamento non è su tutto e il “passato” non è l’unico obiettivo delle perplessità e delle critiche.
[10] Così fa sintesi Marco Patucchi, su La Repubblica del 10 agosto 2023, recensendo La Sicilia bombardata, Rubbettino editore) di Nello Musumeci.
[11] La versione integrale sul sito del Governo: https://www.governo.it/it/articolo/anniversario-della-liberazione-la-lettera-del-presidente-meloni-al-corriere-della-sera.
[12] Tra i contributi giornalistici più organici e ampi sul punto, la serie di articoli su La Repubblica tra le due date nell’80°anniversario di Ezio Mauro, editorialista e già direttore del quotidiano, sul tema “La caduta. Cronache della fine del fascismo” (luglio e agosto 2023).
[13] Nelle pagine di Emilio Gentile, ampio spazio è dedicato alle figure comprimarie. In cui Dino Grandi resta impigliato nella sua lunga storia di adulatore e di figura con ambiguità, mentre la maggiore percezione lucida della “tenaglia” appartiene agli interventi di Giuseppe Bottai.
[14] Un caso per tutti, legato a questo tratto di storia, la vicenda di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, già suo ministro degli Esteri, che il duce (ormai ex) manda alla fucilazione dopo il processo di Verona a carico dei firmatari dell’ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio.
[15] In un’analisi delle vicende del 25 luglio scritta in occasione del recente anniversario (“Tra il 25 luglio e 8 settembre, ottanta anni dopo. Banco di prova importante anche per l’Italia di oggi”, Democrazia Futura III (2) aprile-giugno 2023, pp. 755-758, testo anticipato dal magazine online Key4biz – https://www.key4biz.it/democrazia-futura-tra-il-25-luglio-e-8-settembre-ottanta-anni-dopo/454734/) avevo aggiunto, in proposito, questa annotazione:
“L’immediata dissoluzione del partito fascista all’atto dell’arresto di Mussolini e della sua sostituzione al governo con il maresciallo Pietro Badoglio, a dimostrazione del danno sempre in agguato per gli interessi nazionali delle forme di eccesso di leaderismo”.
[16] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, op. cit. p. 23.