La democrazia non può essere data per scontata. Contenuta nella pagina iniziale della Comunicazione sul Piano d’azione per la democrazia europea del 3 dicembre scorso, questa affermazione, nella sua lapalissiana apparente innocuità, racchiude il senso profondo del documento e anticipa molto bene la preoccupazione che traspare dal testo, nella sua interezza.
Mi è già capitato di scrivere che non ho memoria di un atto comunitario pervaso da un così manifesto timore per le sorti del libero confronto delle opinioni, della trasparenza dell’informazione, in definitiva, della nostra democrazia nel nuovo contesto digitale.
Il documento è un susseguirsi di affermazioni forti, che interpellano la coscienza di tutti i cittadini europei. Ne riprendo solo alcune.
La rivoluzione digitale ha (tra le altre cose) trasformato la politica. Ha (anche) accompagnato l’ascesa dell’estremismo e della polarizzazione. Ha aggravato (paradossalmente) la distanza percepita tra i cittadini e i loro rappresentanti eletti. Ha permesso che la libertà di espressione fosse utilizzata (anche) per ingannare e manipolare. Ha portato allo scoperto nuove vulnerabilità come il rischio di integrità delle elezioni. Ha moltiplicato e amplificato il ricorso a campagne coordinate di disinformazione. Ha incoraggiato la pervasività di algoritmi opachi controllati da piattaforme di comunicazione globali.
Perché sia tutto più chiaro, il Piano d’azione indica tre direttrici di lavoro che costituiscono un vero e proprio manifesto europeo di resilienza democratica, per stare ad una espressione utilizzata ripetutamente nel documento. Le tre direttrici sono altrettanti obiettivi irrinunciabili della democrazia futura nel nuovo contesto digitale: i) promuovere elezioni libere e regolari; ii) sostenere mezzi di informazione liberi e indipendenti; iii) contrastare la disinformazione. Se fossero gli obiettivi di una Commissione di indagine ONU sulle elezioni in Corea del Nord o in Bielorussia; se fosse il programma cui ispirare il ritorno della democrazia in Siria o in Libia, non ci sarebbe davvero nulla da dire. Che si tratti di un documento della Commissione UE rivolto agli Stati membri deve preoccupare e, soprattutto, deve far riflettere.
Ciò che va inteso, capito e metabolizzato è che le normative settoriali faticosamente e provvidenzialmente costruite nel tempo, e costantemente perfezionate e aggiornate, allo scopo di tutelare la sfera della riservatezza individuale e commerciale; di proteggere la privacy e la dignità della persona; e poi, ancora, assicurare protezione ai diritti di proprietà intellettuale; garantire una cornice di regole in cui concorrenza e libero mercato siano conquiste conseguite e consolidate; perseguire trasparenza e neutralità nei rapporti commerciali instaurati dai player digitali globali nei confronti di clienti e fornitori; e infine, rivedere la nozione di posizione dominante e di mercato rilevante nel nuovo contesto digitale; concepire nuovi set di verifiche e di obblighi ex ante, oltre i confini tradizionali del diritto antitrust; prospettare inediti obblighi di responsabilità legale in capo alle piattaforme digitali quali fornitori di contenuti e servizi; immaginare diritti di accesso ai dati in capo ai regolatori e alle istituzioni pubbliche; imporre tutele rafforzate per i servizi e i contenuti di terzi veicolati sulle piattaforme digitali…insomma tutte queste misure, tutti questi obiettivi, sono semplicemente inconseguibili senza un forte tessuto democratico, senza una cornice di salde e indiscusse garanzie di libertà; senza un quadro di diritti politici e sociali che abbia la dimensione e il respiro di quelli assicurati a noi italiani dai padri costituenti.
Con Ungheria e Polonia che mettono il veto al bilancio Ue e ai meccanismi del Recovery Fund rifiutando la relazione tra i meccanismi di erogazione dei fondi comunitari e il rispetto formale e sostanziale dei fondamenti di uno stato di diritto (libertà di stampa, indipendenza della magistratura, garanzie delle minoranze), il tema oggetto della Comunicazione del 3 dicembre non è materia di dibattito accademico, ma carne viva dell’identità europea che intendiamo costruire. Operazione, peraltro, utile da fare anche in competizione dialettica con ciò che accade dentro e in prossimità dei nostri confini (Bielorussia o Turchia). Il modello democratico può trovare infatti stimoli, ragioni e rinnovato consenso anche solo nel confronto con i contesti statuali ove tale modello non è pienamente dispiegato e le libertà non adeguatamente garantite. Anche i nostrani fustigatori dell’Europa non mancheranno in tal modo di cogliere le differenze.
Ciò detto, se davvero l’Europa vuole affrancarsi dall’accusa, mai così diffusa (si leggano al riguardo i dati storici relativi agli indicatori di appartenenza e di beneficio diffusi nel tempo da Eurobarometro) di essere unicamente una cupola finanziaria composta da nomenclature ed elite interessate solo a se stesse; se davvero vuole smarcarsi dalle critiche di chi ne contesta il fallimento all’ombra di superburocrati unicamente preoccupati del dogma della compatibilità dei bilanci e della tenuta dei conti, allora la Comunicazione del 3 dicembre è la cornice per riuscirci. E – nella misura in cui costituisce il manifesto della democrazia europea che vogliamo – la Comunicazione è anche l’ampio terreno di gioco sui cui si misureranno tutte le altre sfide (privacy, libertà di mercato, libertà di prestazione di beni e servizi).
Ci sarebbe un ultimo dettaglio, che qui in Italia – complice tre decenni di disciplina legislativa connotata, in particolare nella sua seconda fase, da intollerabili derive e da sprechi ingiustificabili – genera una automatica ripulsa. La comunicazione del 3 dicembre fa ripetutamente riferimento all’esigenza di sostenere nelle più diverse forme la libera informazione. Sarebbero riferimenti generici e molto di maniera se non li leggessimo in stretta connessione con quel Piano d’azione per sostenere la ripresa e la trasformazione dei settori del media e degli audiovisivi che la Commissione ha lanciato in stretta contestualità temporale e tematica con il Piano d’azione per la democrazia europea.
Per espresso intendimento della Commissione, il Piano europeo di sostegno ai media “affronterà il tema della sostenibilità finanziaria del settore, lo aiuterà a superare la crisi e a cogliere appieno l’opportunità della trasformazione digitale e sosterrà ulteriormente il pluralismo dei media”.
Forse è arrivato anche da noi il momento di avviare una seria riflessione sul tema. Al riguardo, che il Piano Nextgenerationitalia (settembre 2020) non potesse recare qualche pur generica indicazione in tal senso era, non fosse altro che per una ragione di discrepatio temporum, una facile previsione. Il Progetto presentato dal Governo in Parlamento, alla Commissione cultura di Montecitorio, alla fine di settembre scorso, va comunque nella direzione giusta.
Quando circa quattro anni fa – in occasione di un dibattito pubblico organizzato per la presentazione del saggio Salvare i media, della ricercatrice francese Julia Cagé – mi permisi di dire che bisognava riflettere sulla idea di inaugurare una nuova stagione di sostegno pubblico all’informazione per arginare le derive delle fake news e della misinformation, pensando in particolare a politiche di sostegno alla domanda calibrate sulle esigenze informative delle nuove generazioni, al netto di qualche attenzione in FIEG, feci sollevare molti sopraccigli e arricciare molti nasi.
Fa piacere che ora la medesima idea alberghi in luoghi assai più autorevoli, e che finalmente si discuta di soluzioni e rimedi, pur consapevoli che nessuno, a nessuna latitudine, dispone della ricetta giusta per tutti. Ma riconoscere il problema – abbandonando il diffuso e perdurante cliché contro i giornali finanziati dallo Stato – è già un passo avanti. Significa quantomeno aver ben compreso la lezione di Flaubert e del suo dizionario dei luoghi comuni.