Caro Direttore, leggo su Il manifesto di ieri che, secondo un noto commentatore, sarebbe un paradosso la persistente vigenza del regolamento Agcom per la tutela del diritto d’autore online mentre la Presidente della Camera dei deputati si accinge a presentare alla sessione annuale dell’Internet governance forum la Dichiarazione dei diritti in internet, “obiettivamente figlia di un approccio assai differente”. “Eppure – conclude l’autore dell’articolo – lo Stato (nel senso forte del termine) dovrebbe essere unitario, come si dice”.
Nutro forti dubbi sulla correttezza teorica di questa conclusione, dato che un sistema istituzionale policentrico – qual è quello proprio delle democrazie – è per sua natura anche polifonico. Mentre l’uniformità delle voci è connotato di altri regimi politici (degli Stati nel senso forte del termine?), che pure Il manifesto ha sempre avversato con energia fin dalla sua fondazione.
Ma non è questo il punto. Il punto è che non si riesce a comprendere quale contrasto possa esservi fra la Dichiarazione dei diritti in internet promossa dalla Presidente della Camera e la tutela del diritto d’autore online. Per quanti sforzi si facciano, non si trova nella Dichiarazione nulla che autorizzi a configurare un diritto di violare il diritto d’autore. Mi scuso per il bisticcio di parole, ma serve a sottolineare un evidente cortocircuito logico. Al contrario, vi è nella Dichiarazione, al comma 2 dell’articolo 3, un esplicito riconoscimento degli interessi morali e materiali legati alla produzione di conoscenze. “Come si dice”, ogni tanto basterebbe leggere.
Non è questa, peraltro, la sola confusione in cui incorre l’articolista. Il quale scrive che il regolamento Agcom “è finito nel mirino della Corte costituzionale”, in quanto l’Autorità avrebbe pensato bene di procedere “invece di attendere una norma primaria del Parlamento”. Peccato che il Tar del Lazio, che ha rimesso gli atti alla Consulta, abbia esaurientemente motivato nel senso di riconoscere che Agcom ha esercitato in maniera corretta le funzioni ad essa attribuite dalle leggi vigenti. Leggi che quindi già c’erano quando l’Autorità “pensò bene di procedere”.
Il Tar si è invece rivolto alla Corte manifestando un dubbio sulla conformità alla Costituzione di tali leggi: tema, quest’ultimo, che non può certo essere risolto da un’autorità amministrativa, chiamata a osservare le leggi in vigore. Del resto, dovrebbe essere noto che oggetto del giudizio della Corte costituzionale sono le leggi, non i regolamenti. Per cui, se un precedente intervento legislativo non vi fosse stato, sarebbe risultato tecnicamente impossibile sottoporre la questione alla Consulta.