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Dazi sospesi, gli Usa trattano con Canada e Messico. La Cina attacca (anche Google). Von der Leyen (Ue): “Se colpiti reagiremo”

Gli USA trattano con Canada e Messico, dazi sospesi per 30 giorni

Sembrava un incendio fuori controllo, invece per il momento Donald Trump ha solo acceso un cerino per godersi il suo sigaro da Presidente degli Stati Uniti. La guerra dei dazi ancora aleggia nell’aria, ma fortunatamente gli Stati Uniti hanno accettato di sedersi al tavolo con Canada, Messico e presto anche con l’Unione europea (Ue).

Non con la Cina però, che rimane quello che è: un (temibile) avversario. Come largamente anticipato, la Gran Bretagna avrà un trattamento a parte, tutto da scoprire, ma sicuramente molto più morbido.

La conferma è arrivata dai diretti interessati. Il Primo ministro canadese Justin Trudeau ha dato la notizia su X ieri sera, a poche ore dall’entrata in vigore delle tariffe, inizialmente fissata per oggi 4 febbraio. La stessa cosa ha fatto in conferenza stampa la Presidente del Messico, Claudia Sheinbaum.

Il risultato è stato raggiunto grazie a degli accordi, che non sembrano particolarmente solidi, ma che per il momento favoriscono i negoziati portati avanti dal Segretario di Stato Marco Rubio, dal Segretario al Commercio Howard Lutnick e da rappresentanti di “alto livello” di Città del Messico. I dazi sono un’arma a doppio taglio e il protezionismo economico portato all’estremo è sempre foriero di più gravi conseguenze.

Gli impegni di Messico e Canada per congelare i dazi USA

Il Messico rafforzerà il suo confine settentrionale con 10.000 unità della sua Guardia Nazionale per controllare il traffico di droga, con un’attenzione particolare al fentanyl. Gli Stati Uniti si impegneranno a prevenire il traffico di armi verso il Messico: ogni anno, secondo un articolo della CBS News, tra 200.000 e 500.000 pezzi made in US vengono contrabbandati oltre il confine meridionale americano.

Trudeau e Trump si incontreranno oggi pomeriggio per mettere sul tavolo e valutare le rispettive richieste.

Già si sa, però, che il Canada si impegnerà a combattere con maggiore decisione il traffico di fentanyl e la criminalità organizzata al confine con gli Stati Uniti, con un nuovo piano di sicurezza da 1,3 miliardi di dollari.

Il piano prevede, inoltre, il potenziamento dei controlli alle frontiere con nuovi elicotteri, tecnologie e 10.000 uomini tra forze dell’ordine e militari da schierare in prima linea per aumentare la sicurezza della frontiera.

Economie interdipendenti, a rischio scambi per decine di miliardi di dollari

Gli Stati Uniti hanno importato 38,5 miliardi di dollari solo in prodotti agricoli dal Messico nel 2023, tra cui il 90% di tutti gli avocado (un mercato fiorentissimo e purtroppo pieno di zone d’ombra in termini di sostenibilità ambientale e tutele dei diritti dei lavoratori), mentre dal Canada gli sono arrivati 40,5 miliardi di dollari di ulteriori importazioni agricole. Altra rilevante fetta di import da Canada, Messico e Cina include alluminio, legno, plastica, elettronica, semiconduttori e altro ancora.

Nel settore energetico e minerario, il petrolio greggio è la principale voce dell’export canadese: ha raggiunto i 143 miliardi di dollari nel 2023, di cui il 90% destinato agli Stati Uniti.

Il Canada dipende fortemente dall’economia americana e certamente è un rapporto biunivoco, ma per Montreal la situazione è molto più complicata: verso gli Stati Uniti va il 93% delle esportazioni canadesi di veicoli e componenti, l’82% delle esportazioni di tecnologia nucleare e il 91% delle esportazioni di materie plastiche.

Tutto questo fa capire che per il Canada è vitale riuscire ad estendere i suoi sforzi di diplomazia economica oltre l’amministrazione Trump, impegnandosi con il Congresso e il Senato degli Stati Uniti per favorire una distensione tariffaria sui beni canadesi. Il Governo Trudeau dovrebbe continuare a sfruttare questo canale per mitigare le tensioni commerciali e garantire relazioni economiche stabili con gli Stati Uniti, guardando anche oltre i due oceani che circondano il Paese nordamericano (attualmente, il Canada ha attivato 15 trattati di libero scambio con 51 Paesi nel mondo, ma c’è spazio per aumentarne il numero).

Ogni tariffa applicata a questi prodotti si trasforma in un aumento di prezzi all’ingrosso e al dettaglio, sia per imprese che per consumatori. Senza contare l’impatto sull’andamento dell’inflazione e le possibili speculazioni di trader senza scrupoli.

La Cina reagisce: dazi del 15% su carbone e GNL e 10% sul petrolio provenienti dagli USA

Pechino l’aveva preannunciato e a partire dal 10 febbraio si applicheranno dazi sui prodotti americani, in particolare tariffe del 15% su carbone e gas naturale liquefatto (GNL), del 10% sul petrolio, su macchinari agricoli e auto di grossa cilindrata.

Il Ministero del Commercio cinese ha confermato la decisione e ha reso noto di aver inoltrato una protesta con ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro la decisione degli Stati Uniti di applicare dazi alle importazioni cinesi del 10%.

A tutela degli interessi e la sicurezza della nazione”, Pechino ha deciso restrizioni immediate sulle esportazioni di metalli e metalloidi, a partire da tungsteno e molibdeno, tellurio, bismuto, indio e prodotti correlati.

Il tutto in attesa che Trump dia seguito a quanto detto e ridetto in questi giorni, cioè che presto incontrerà il Presidente cinese Xi Jinping per discutere dei rapporti commerciali e politici tra le due superpotenze.

L’Autorità di regolamentazione del mercato cinese ha intanto reso noto di aver avviato un’inchiesta su Google per sospetta violazione della legislazione antitrust nazionale.

L’Europa per ora resta a guardare, soprattutto resta ferma (sotto banco si tratta sulle armi)

Molte specie di insetti rimangono immobili per non farsi notare da potenziali predatori. L’Unione europea sembra aver scelto questa strategia: restare fermi, in tutti i sensi.

A parte le parole forti di Germania e Francia, più rivolte ai propri cittadini e le questioni interne, che agli Stati Uniti, non molto è successo nelle ultime 48 ore, cioè quelle più calde in tema di tariffe.

La presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, in evidente difficoltà politica interna ed esterna, al termine del vertice informale sulla Difesa, rispondendo ad una domanda sulla possibilità che Donald Trump imponga dazi sulle importazioni europee, ha dichiarato: “Il rapporto con gli Usa è fondamentale per promuovere la pace, la stabilità e la prosperità. L’Ue è preparata per un dialogo robusto e costruttivo: ci possono essere sfide in futuro e se colpita l’Ue reagirà con fermezza”.

Nella sessione pomeridiana di ieri, secondo quanto riportato da un alto funzionario europeo: “È emerso un forte consenso sul fatto che i dazi tra gli Stati Uniti e l’Ue sarebbero dannosi per entrambe le parti”.

Un argomento estremamente debole (nonché melmoso), che difficilmente potrebbe convincere Trump, che invece potrebbe esser pronto ad avviare tempestivamente un piano tariffario del 10% “flat. Parigi e Berlino hanno già suonato la carica, rispolverando la tradizionale (quanto mai falsa) affinità strategica: “siamo pronti”, hanno detto in sostanza, promettendo di “ribattere colpo su colpo”.

Secondo l’Ansa, però, ci sarebbe da fare anche un altro ragionamento, perché il capitolo Difesa (specie dal punto di vista industriale) ora potrebbe intrecciarsi alla strategia europee su come ridurre lo squilibrio dell’interscambio Usa-Ue.

I Paesi dell’Unione europea dovranno spendere di più per la Difesa comune, quindi per armi e tecnologie militari, ma per coloro che fanno parte della NATO c’è un’ulteriore richiesta di aumentare questa spesa sopra il 2% del PIL (più verso il 5% stando a quanto chiesto dagli Stati Uniti).

Forse la spesa in armi e Difesa è il vero punto chiave della trattativa sui dazi tra Ue e USA?

Le armi, dunque, possono rientrare nel valzer degli accordi. Con il solito realismo che ci si aspetta in queste situazioni, appare necessario sollevare dubbi e spargere punti di domanda sul tavolo. Vorremmo parlare di altro e non certo di armi (quando ci si arma, non si prospetta niente di buono all’orizzonte), ma il tema è attuale e va affrontato.

Un ambito delicato come al solito, su cui oltretutto si prospetta uno scontro con Parigi, che sta spingendo da mesi gli acquisti ‘made in Europe‘ per rafforzare la base industriale dell’Unione. Una visione che mal si allinea con la politica di Trump (molti alleati europei sono poi scettici, perché hanno le catene del valore legate a quelle americane).

Tanto che è dovuto intervenire sul tema anche il segretario generale della NATO, Mark Rutte, che si è detto certo su un’intesa con gli USA, anche perché “dal 2022 ad oggi il surplus commerciale è salito a loro favore – ha spiegato – vale 180 miliardi di dollari, vendono più loro a noi che il contrario“.

Solo nel 2023, i Paesi dell’Ue hanno investito 279 miliardi di euro in armi/armamenti/sistemi per la Difesa, l’importo più alto mai registrato dall’Agenzia europea per la difesa (istituita nel 2004), con un aumento del 10% sul 2022. Le prime stime per il 2024 parlano di una spesa salita rapidamente a 326 miliardi di euro.

Il direttore generale dell’Agenzia europea per la Difesa, Jiří Šedivý, affermava prima di Natale che gran parte degli investimenti è destinata ad “equipaggiamenti fuori serie provenienti da Paesi extra Ue, evidenziando la necessità di rafforzare la base industriale e tecnologica di difesa dell’Ue“.

Il mercato delle armi, un’Europa più autonoma un problema per gli USA?

Comprare insieme fa risparmiare denaro, mentre sviluppare insieme i mezzi ci rende più indipendenti“, ha spiegato il DG dell’Agenzia europea, aggiungendo che “l’Europa è in ritardo rispetto agli Stati Uniti e alla Cina nella ricerca sulla difesa e negli investimenti tecnologici. Per garantire il futuro dell’Europa, dobbiamo dare priorità all’innovazione e all’unità“. Giustamente: serve più Europa.

Circa il 55% delle importazioni di armi in Europa, tra il 2019 e il 2023, è stato assicurato dagli Stati Uniti, in netto aumento rispetto al 35% del periodo 2014-2018.

Ora l’Unione deve decidere quanti soldi mettere, cioè come finanziare la Difesa comune, quindi decidere anche quanto spendere e soprattutto come spendere. Un punto quest’ultimo molto rilevante in termini di autonomia e di promozione di un’industria europea.

Un tema in discussione, infatti, è se limitare i finanziamenti comuni all’acquisto di sole apparecchiature prodotte in Europa. In altre parole, imporre una cosiddetta preferenza europea. Secondo fonti di Bruxelles, è stato più o meno trovato un compromesso per destinare i finanziamenti ad apparecchiature che hanno il 65% di componenti made in EU.

Un’Europa davvero unita e pronta a produrre in proprio armamenti e sistemi difensivi è una scelta percepita come una minaccia commerciale, politica e strategica da Washington? La domanda inevitabilmente si pone e la risposta appare scontata.

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