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Danni derivanti dalla natura e danni derivanti da un sistema economico errato

Paolo Maddalena

È nell’emergenza che si verifica la validità o non di una politica economica. L’esempio che ci viene dato dal disastro idrogeologico dell’Emilia Romagna e dagli enormi sforzi per riparare i danni ci dà la misura di quanto errata sia stata la politica degli ultimi 30 anni inaugurata da Mario Draghi il 2 giugno 1992, proseguita dallo stesso con la legge sulla concorrenza e il mercato del 2022, e assunta come politica propria dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

I dati stimati per l’Emilia Romagna ammontano a circa 6 miliardi di euro, e, con sforzo straordinario, il governo Meloni è riuscito a racimolare, nelle pieghe del bilancio, 2 miliardi di euro, subito destinati alle azioni di risarcimento dei danni subiti da questa regione.

Non è chiaro da quali finalità siano state sottratte le somme da destinare alla riparazione dei danni provocati dal disastro alluvionale, appare comunque certo che il peso di questi prelievi non riguarderà le classi più abbienti, ma soltanto i consumatori e qualche servizio pubblico essenziale.

Insomma il bilancio italiano, che ha un debito di circa 300 miliardi di euro, non consente interventi straordinari, e quelli adottati, se hanno il pregio di aiutare persone colpite dalla tragedia, hanno il demerito di aver impoverito le somme destinate allo sviluppo economico.

Il punto centrale del discorso sta nell’aver sostituito un’economia di stampo keynesiano, che era fondata sull’intervento dello Stato (il quale, attraverso l’IRI, riusciva a sviluppare l’industria di base e le infrastrutture necessarie allo sviluppo economico), con il neoliberismo, proclamato da Mario Draghi nel 1992, che inneggiava alla privatizzazione dell’industria statale, che è stata attuata, dapprima con la vendita delle banche pubbliche avvenuta nel 1990, e poi con la trasformazione in S.p.A., e conseguente collocazione sul mercato, effettuata dal governo Amato nel 1992, dell’INA, dell’Enel, dell’Eni e dell’IRI, con le sue 1000 aziende pubbliche e 60000 dipendenti, cui hanno fatto seguito un’altra infinità di aziende pubbliche. 

Se queste aziende pubbliche non fossero state messe sul mercato, dove, come dicono gli economisti, il pesce grande mangia il pesce piccolo, l’Italia sarebbe ancora oggi una vera potenza economica e industriale, la cui distruzione è avvenuta con l’imperdonabile errore di collocare sul mercato tutte le aziende pubbliche.

Ora gli incrementi della ricchezza nazionale possono derivare solo dalla iniziativa privata, la quale persegue interessi individuali e non certo l’interesse pubblico del Popolo sovrano. È divenuto impossibile svolgere una politica economica dopo essersi privati degli Enti pubblici economici e delle Aziende pubbliche.

Insomma, per dirla in una sola parola, il grande capitale pubblico, che aveva portato l’Italia al miracolo economico degli anni ’60, si è dissolto nel nulla nel 2002, e l’IRI è ora incorporata nella Fintecna, con una sede che si trova a Roma in via Vittorio Veneto 89.

La soluzione è ancora possibile, perché è vigente la nostra Costituzione che impone di indirizzare a fini sociali l’attività economica pubblica e privata, fondando questo principio sulla norma, esistente dall’epoca romana, secondo la quale i beni di un Popolo vanno divisi tra beni in commercio e beni fuori commercio, i quali costituiscono una riserva inalienabile, inusocabile e inespropriabile.

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