La musica? Sul servizio video. Può sembrare un controsenso, ma in quanto a crescita i giganti dello streaming musicale come Spotify, Apple Music e Soundcloud arrancano dietro a YouTube Music per la trasmissione di contenuti audio. Una posizione, quella del servizio a pagamento di YouTube, che si è andata ancor più consolidando nell’ultimo anno, considerando che gli ultimi dati parlano di una crescita del 170% da giugno 2018 a giugno 2019 per quanto riguarda gli utenti su smartphone. Un boom che si è tradotto in un salto di ben sette posizioni nella classifica delle app per lo streaming audio per smartphone: ora è al sesto posto, sopra TuneIn Radio, Deezer e Tidal e dietro, nell’ordine, a Spotify, Apple Music, Soundcloud, Pandora Music, Amazon Music, tutti servizi che al più sono scesi o saliti di una sola posizione.
Tutto questo tenendo conto che YouTube Music è uno degli ultimi arrivati nel settore, pur potendo contare su una base di utenti potenziale estremamente ampia, essendo il decano dei servizi di streaming video in rete, ma anche grazie a un algoritmo particolarmente ben fatto per il suggerimento di nuovi contenuti e artisti in base ai propri ascolti. E grazie ai prezzi sempre più bassi per quanto riguarda la telefonia mobile – su SosTariffe.it è disponibile il comparatore per scoprire le tariffe più convenienti di questa estate 2019 – c’è da scommettere che la quota di utenti di servizi di streaming musicale su smartphone, rispetto ai client per PC o altri dispositivi, continuerà a dominare sulle altre.
I piani (abbandonati?) di Spotify
Intanto, il primo posto di Spotify non sembra in discussione, con 108 milioni di abbonati raggiunti (ne erano però previsti 110; a fine aprile erano 100). Il modello sembra vincente, anche se anche questo esercizio è stato ancora una volta in perdita (84,7 milioni contro un fatturato di 1,8 miliardi di dollari, di cui 1,6 miliardi dalle sottoscrizioni a pagamento e 200 milioni dall’advertising per chi utilizza le versioni gratuita). In totale, tenendo conto anche degli utenti non sottoscrittori, il totale si aggira intorno ai 232 milioni, contro i 217 milioni di tre mesi fa.
La prossima frontiera? Gli esperti ne sono sicuri: i podcast, specie se tenuti da celebrità. Il settore è in netta crescita e Apple ha fiutato l’affare da tempo, investendo non poche risorse per creare un ventaglio di proposte il più ricco possibile. Del resto, la somma di musica e programmi “parlati” è, di fatto, la radio, uno dei pochissimi media tradizionali che – per la sorpresa di molti – con Internet non è affatto andato incontro a un declino, anzi.
Avere però la possibilità di accedere alla propria musica o a playlist sempre diverse, alternate a programmi di approfondimento tenuti, per fare un esempio, da Barack e Michelle Obama – arruolati da Spotify – potrebbe davvero fare la differenza.
Ma nell’era dei media liquidi, dove chi trasmette video diventa protagonista per la trasmissione di contenuti musicali, non stupisce che accada anche il contrario: secondo un libro da poco pubblicato (e ovviamente con contenuti non confermati da parte di Spotify) da due giornalisti svedesi, Sven Carlsson e Jonas Leijonhufvud, Spotify Inifrån (“Spotify segreta”), tra il 2011 e il 2015 l’azienda tentò di competere con Netflix e gli altri colossi dello streaming video con una “Spotify TV” che già aveva anche il suo formato dei file, .spv, prima di virare verso l’HLS in quanto unico a essere utilizzabile nei dispositivi Apple.
I progetti includevano anche un dispositivo per collegarsi alla televisione – un po’ come la Fire TV di Amazon o la Chromecast di Google – ed erano già stati contattati potenziali fornitori in Cina. Il tutto senza di prendere di petto la concorrenza, già più che consolidata nel settore: invece di orientarsi sull’ormai affollatissimo ring fatto di serie televisive, film di non recentissima uscita e contenuti originali di questa tipologia, Spotify TV nelle intenzioni avrebbe dovuto offrire ai suoi abbonati contenuti più “immediati”, tra cui anche news e contenuti sportivi: chissà come sarebbe andata in Italia, dove la lotta per i diritti televisivi in materia di sport è ogni anno più agguerrita.
Streaming? C’è chi dice no
Com’è naturale, sono tanti quelli a cui questi cambiamenti non piacciono. David Lowery, leader di una delle più importanti formazioni underground degli anni ’80, i Camper Van Beethoven e poi dei Cracker, è stato a capo di una crociata contro la musica in streaming e le miserrime royalties pagate ai musicisti anche per centinaia di migliaia o milioni di ascolti: con Pandora Music, infatti, un milione di ascolti della sua Low nel 2012 gli fruttò 17 dollari (Lowery è anche matematico e la sua analisi del modello di business, significativamente intitolata Meet the new boss, worse than te old boss, è diventata virale in fretta).
L’arrivo dei più grandi artisti nel catalogo streaming – dai Beatles ai Led Zeppelin, passando per i Pink Floyd, più di recente i Tool e Lucio Battisti – è salutato come un evento, soprattutto se riguarda solo una piattaforma e non le altre. Buona parte del successo di Tidal deriva, oltre che dalla qualità del suono – mentre Spotify continua a ritardare il suo abbonamento hi-fi – dalle anteprime, per le quali, almeno per qualche giorno o qualche settimana, il servizio ideato da Jay-Z propone dischi in esclusiva (non ultimi, ovviamente, quelli di sua moglie e socia Beyoncé, come Lemonade: i due giorni in cui il sesto album della cantante è rimasto disponibile solo su Tidal hanno portato una fortuna nelle casse del servizio).
E poi c’è chi vede nel modello liquido dello streaming, dove la forma dell’album appare sempre più inutile e disgregata, un decadimento della qualità musicale: Sheryl Crow ha appena annunciato che il prossimo Threads sarà il suo ultimo album, in parte proprio perché si sente in qualche moo superata: «Non c’è più voglia di ascoltare dall’inizio alla fine l’album di un cantautore. Il pubblico si crea il disco che vuole mettendo insieme delle semplici playlist. Il concetto di album appartiene al passato. Sono serena. Mi sembra un’evoluzione naturale e inevitabile. La tecnologia ha cambiato gusti e tendenze». E tra i cambiamenti epocali, anche quello dell’un tempo diffusissima pirateria musicale: secondo la FIMI, infatti, proprio anche grazie allo streaming la pirateria digitale e la diffusione abusiva di musica tramite web sono scesi del 35% in un anno rispetto a marzo 2018.