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Cyberspionaggio e Covid-19, gli Usa contro due hacker cinesi: ‘Hanno tentato di rubare le ricerche sul vaccino’

Due hacker cinesi hanno tentato di rubare delle informazioni sul vaccino contro il Coronavirus, dopo essere già entrati in possesso di moltissimi segreti commerciali di diverse aziende dislocate in tutto il mondo per il valore di svariati centinaia di milioni di dollari.

L’accusa, che arriva direttamente dal Dipartimento di Giustizia americano, incrimina due ragazzi cinesi: Li Xiaoyu, 34 anni, e Dong Jiazhi, 33 anni.

Secondo quanto riportato dalle autorità americane gli hacker cinesi sarebbero stati a lavoro da diverso tempo, cercando di capire le vulnerabilità delle reti di alcuni istituti di biotecnologia, e di aziende che avevano pubblicamente dichiaro di essere coinvolte nella ricerca dell’antidoto in grado di debellare il virus responsabile della COVID-19.

Hacker cinesi tentano di rubare il vaccino

Per i due hacker non c’è certezza che le loro azioni abbiano avuto successo. L’assistente procuratore degli Stati Uniti, John Demers, ha mosso delle dure accuse alla Cina, durante una dichiarazione, sostenendo che:

“La Cina ora si è allineata a Russia, Iran e Corea del Nord – ha detto in una dichiarazione l’assistente procuratore Usa John Demers – Fa ora parte di quel vergognoso club di nazioni che offre un rifugio sicuro agli hacker in cambio del loro lavoro a beneficio dello Stato. Alimentando così la fame insaziabile del partito comunista cinese per le proprietà intellettuali guadagnate duramente dalle società americane, e non cinesi, compresa la ricerca sul Covid”.

Prima la Russia, ora la Cina

La scorsa settimana le autorità negli Stati Uniti, Canada e Regno Unito hanno accusato un gruppo di hacker collegati all’intelligence russa del tentativo di hackerare le ricerche di alcune aziende.

Secondo il rapporto ufficiale emanato dal National Cyber Security Center britannico, i tre Paesi hanno individuato i responsabili nel gruppo noto come APT29 o “Cozy Bear”, coinvolto anche nelle intrusioni durante la campagna elettorale americana per le elezioni del 2016 e generalmente associato ai servizi di intelligence esteri russi. Il Cremlino ha negato ogni coinvolgimento.

Il cyberspionaggio non si ferma nemmeno davanti al Coronavirus

Il documento congiunto pubblicato da Stati Uniti, Regno Unito e Canada è senza dubbio quello della presenza di elementi tesi a porre l’attenzione non solo sul “chi” stia conducendo queste operazioni cibernetiche, ma soprattutto sul “come” lo stia facendo“, ha spiegato a Key4biz l’Avv. Stefano Mele, Presidente della Commissione Sicurezza Cibernetica del Comitato Atlantico Italiano.

“Occorre evidenziare quanto a poco servano le costanti reazioni da parte di chi è destinatario di simili addebiti sulla (presunta) mancanza di prove a sostegno delle accuse. Un “vuoto” nelle dichiarazioni ufficiali dei governi a cui ormai siamo abituati, ma che – ad un occhio attento – trova solide giustificazioni dal punto di vista di chi accusa. Secondo Mele “nfatti, “l’esibizione delle prove spesso comporta l’inevitabile conseguenza di disvelare i metodi e le procedure utilizzate per l’acquisizione di quelle informazioni, sia sul piano tecnico che umano (come, ad esempio, le reti di informatori e i “doppio giochisti”). Ciò, com’è evidente, vanifica tutti gli sforzi compiuti per avere accesso a quel patrimonio informativo e spesso mette anche a rischio le persone coinvolte in quella operazione, ponendo, da quel momento in poi, l’accusatore in una posizione di svantaggio rispetto all’accusato

Ben si comprenderà, allora, perché anche questo report, seppur predisposto congiuntamente da ben tre governi, con tutti i caratteri dell’ufficialità, con accuse dirette e non velate al gruppo noto come “APT29” legato ai servizi segreti russi, con un perfetto mix tra aspetti politici, legali ed informatici, comunque non contiene e non può contenere quelle prove a supporto delle accuse utili a legare la responsabilità dell’azione ad “APT29” e al governo russo. Capovolgendo questo inutile paradigma”, conclude Mele, “si potrebbe anche ricordare che il diritto internazionale garantisce alcuni strumenti per difendersi da accuse ritenute ingiuste. Se non si utilizzano, forse, la coscienza non è poi così pulita”.

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