Il recente drammatico caso di cronaca della giovane donna, spinta al suicidio per la divulgazione di un video che la ritraeva, ha determinato un nuovo dibattito intorno ai pericoli della rete e sulle norme ad essa applicabili.
Si è parlato in particolare del diritto all’oblio, fino a prospettare, proprio per il caso di specie, la possibilità di contestare all’autore della divulgazione il delitto di istigazione al suicidio.
Orbene nel tentativo di fare chiarezza sull’argomento pare utile fissare alcuni punti fermi.
In primo luogo è bene sottolineare come il diritto all’oblio altro non è che il diritto dell’individuo a non vedere la sua immagine o notizie oltre un determinato periodo di tempo. Per “diritto all’oblio” si intende, infatti, una particolare forma di garanzia che prevede la non diffondibilità, senza particolari motivi, di precedenti pregiudizievoli dell’onore di una persona, per tali intendendosi principalmente i precedenti giudiziari. A tal riguardo è stata prescritta, per gli archivi online, la deindicizzazione quando il fatto non ha più attualità, in modo che, pur rimanendo inalterata la notizia nell’archivio, la stessa non sia individuabile attraverso i comuni motori di ricerca(Garante, provvedimento 18 dicembre 2013 n.594). Su questa scia si pone anche la giurisprudenza, precisando che, un fatto di cronaca che si trasforma in fatto storico porta sempre con sé un interesse pubblico e quindi ne è consentita la presenza nell’archivio. Ciò posto, perché la notizia possa rimanere in rete, in quanto ritenuta di interesse pubblico, deve essere contestualizzata ed aggiornata con gli sviluppi giudiziari, inserendo un banner all’interno o a margine dell’articolo(Cass. Civile, Sez.III , n.5525/2012).
Discorso differente è quando l’immagine o l’informazione sia divulgata senza il consenso dell’interessato. In casi come questo, salvo eccezioni, il trattamento risulta essere illecito e costituisce reato ai sensi dell’art. 167 del Decreto legislativo 196/2003, il che comporta la rimozione sul presupposto della sua illiceità e non per la mancanza dell’ attualità o dell’interesse pubblico, non trattandosi di un’ipotesi in cui entra direttamente in ballo il diritto all’oblio.
Qualora il video o l’informazione diffusa sia in grado di produrre un’offesa alla dignità e decoro del soggetto ritratto, sussiste il delitto di diffamazione in capo all’autore della divulgazione, ma anche in relazione ai soggetti che, eventualmente, prendendo spunto dalla sua diffusione, hanno contribuito autonomamente alla lesione della reputazione altrui, per esempio postando commenti denigratori.
Quanto alla responsabilità degli operatori della rete, attraverso i quali viene diffuso il materiale suddetto, secondo giurisprudenza dominante, la stessa va esclusa in assenza di una prova nel concorso del reato contestato, non essendo possibile attribuire all’host provider un obbligo di impedire i reati commessi dagli utenti, mancando una norma che fondi tale obbligo giuridico ( Cassazione, Sezione III, sent.n.5107/2014). Solo nel momento della conoscenza dell’illiceità dei contenuti pubblicati potrà, allora, ipotizzarsi una responsabilità per il trattamento illecito dei dati realizzata dagli uploaders. Né pare percorribile, come sostenuto da alcuni, la necessità di prevedere una sorta di responsabilità oggettiva e ciò sia perché non conforme ai principi fondanti il nostro ordinamento, sia perché di fatto determinerebbe una forma di censura mascherata, che comporterebbe rischi ancor più elevati degli attuali.
Nell’ipotesi in cui, come nel drammatico caso della cronaca recente, il soggetto ritratto nel video divulgato compia l’atto estremo del suicidio si può ipotizzare la sussistenza del delitto di istigazione a patto che si riesca a dimostrare il diretto collegamento tra il suicidio e la divulgazione del video, sussistenza che verrà esclusa allorché si ritenga l’atto estremo non direttamente riconducibile alla diffusione o comunque quale evento non prevedibile da parte del soggetto agente.
Tale assetto normativo potrebbe arricchirsi di nuove disposizioni al termine dell’iter parlamentare del disegno di legge sul Bullismo, riferito anche alle condotte realizzate in rete, approvato oggi alla Camera, che prevede, tra l’altro, la rimozione del materiale attraverso il quale si perseguita un determinato soggetto.
A prescindere, tuttavia, dalle norme esistenti o da prevedere, è agevole rilevare come situazioni come quella al centro dell’attuale dibattito non possano evitarsi esclusivamente con il ricorso al diritto.
Tema centrale è quello della responsabilizzazione degli utenti della rete, che devono finalmente acquisire consapevolezza della pericolosità delle loro azioni. Il discorso riguarda sia il soggetto che per leggerezza o altro motivo diffonde o fa che altri diffondano sue informazioni o immagini, sia colui che utilizza informazioni o immagini altrui.
Ciò perché è giunto il momento di comprendere che la natura stessa della rete impedisce una tutela giuridica piena e ciò almeno per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo perché, anche laddove si azioni il diritto, i tempi di un processo, penale o civile che sia, non impediranno la divulgazione dell’informazione o immagine e, quindi, i danni conseguenti.
In secondo luogo perché anche quando l’intervento dell’autorità giudiziaria fosse tempestivo lo stesso riguarderebbe il sito o i siti individuati, la cui rimozione del materiale non impedirebbe comunque che lo stesso possa riapparire immediatamente o dopo un certo lasso di tempo da qualche altra parte.
Stando così le cose, ancor prima di farsi guidare dall’emotività del momento, lamentandosi di lacune dell’ordinamento giuridico o auspicando interventi legislativi emergenziali, e quindi inevitabilmente irrazionali, occorre che ognuno di noi si prenda le proprie responsabilità, raggiungendo il convincimento che senza tale atteggiamento collaborativo è praticamente impossibile ottenere una tutela giuridica efficace.