Vorrei contribuire al dibattito aperto dalla lettera a Repubblica della ministra dell’Innovazione tecnologica e della Digitalizzazione Paola Pisano, in cui si propone di istituire una nuova materia per le scuole, concentrata sull’innovazione tecnologica e le sue implicazioni. Questa proposta ha il pregio di richiamare l’attenzione sullo sviluppo di un approccio critico e consapevole alla digitalizzazione che – ormai è chiaro – la scuola deve attrezzarsi per fornire ai propri studenti. Come ho sostenuto spesso, le istituzioni formative si sono concentrate troppo in questi anni sulla didattica con la tecnologia (es. LIM e altre attrezzature) lasciando scoperta quasi completamente l’educazione ad una lettura critica dei media. Giustamente, la ministra ricorda che oggi abbiamo la possibilità concreta di realizzare scelte strategiche su questo piano grazie anche al cosiddetto Recovery Fund, che l’Europa garantirà all’Italia per supportarne la ripresa dopo la crisi sanitaria. Mi piace anche il fatto che la ministra apra ad un confronto pubblico per trovare il modo giusto di declinare la sua proposta.
“Lezione di digitale”. La nuova materia nella scuola appare problematica per diversi motivi
Tuttavia, fatto salvo il positivo intento generale della proposta, l’idea di istituire una nuova materia nella scuola mi appare problematica per diversi motivi.
Innanzitutto, i temi che dovrebbero costituirla – e che vengono elencati dalla ministra – sono troppo eterogenei. Riprendo dalla lettera: “storia dell’innovazione, applicazione del diritto nei canali digitali, sicurezza cibernetica, riconoscimento delle fonti accreditate per un’informazione accurata online, utilizzo dei big data e del machine learning per lo sviluppo sostenibile, e ancora intelligenza artificiale, robotica, internet delle cose, nuove forme di connettività, 5G, nuove generazioni di microchip”.
È vero, questo elenco riguarda temi connessi alla digitalizzazione e all’innovazione tecnologica, ma essi toccano competenze, discipline, implicazioni molto diverse. Non esiste un profilo che sia in grado di intavolare una discussione competente su tutti questi temi, che spaziano dall’informatica alla psicologia sociale, passando per l’analisi dei testi ed il diritto. Del resto, la digitalizzazione non è in sé una materia ma piuttosto un insieme di cambiamenti che hanno cause e implicazioni tecniche, sociali, cognitive, scientifiche.
Proprio la multidisciplinarietà di un’analisi critica dell’innovazione tecnologica digitale mi porta al secondo motivo di perplessità. Il fatto di incaricare un docente di coprire tutti questi aspetti legati alle nuove tecnologie e le sue implicazioni rischia di deresponsabilizzare tutti gli altri. Invece, molta ricerca sulla educazione ai media mostra che non si può prescindere dal mondo digitale né nelle materie umanistiche né in quelle tecnico-scientifiche. Come dice bene la prof.ssa Elena Rausa in questo articolo, l’analisi della veridicità delle informazioni non è separabile per esempio dalla storia delle contraffazioni informative del passato, come la Donazione di Costantino. Ecco perchè un’analisi critica della digitalizzazione non può che essere portata avanti da un insieme di figure diverse che collaborano alla analisi di tale fenomeno complesso.
Da quest’anno abbiamo già l’“educazione civica digitale”
Del resto – e vengo al terzo motivo di perplessità – l’impostazione della neonata “educazione civica”, che partirà quest’anno scolatico, è basata proprio sulla responsabilità collegiale, e già comprende la cosiddetta “educazione civica digitale”. Questa parte dell’educazione civica si concentra proprio su alcuni temi citati dalla ministra Pisano, facendo intravedere una sovrapposizione tra questa nuova iniziativa della scuola e la “nuova materia” di cui stiamo discutendo. A proposito, appare poco opportuno avanzare una nuova proposta che sembra indebolire la portata della nuova educazione civica, che invece ha delle potenzialità interessanti e che per essere efficace dovrebbe essere sostenuta convintamente insieme.
Ci sono poi altre due questioni da tenere in considerazione. Una è il fatto che le tematiche che la ministra indica sono contingenti al periodo storico-tecnologico attuale e soggette probabilmente ad una rapidissima obsolescenza. Qui si tratta di un tema spesso discusso nella didattica universitaria di temi legati alla digitalizzazione:
- ha senso basare un insegnamento su temi e problematiche legate a specifiche tecnologie anziché su principi generali, un po’ più astratti, che possono aiutare la persona a orientarsi in un mondo lavorativo che sarà tecnologicamente diverso rispetto a quello attuale?
La mia opinione è che la scuola debba costruire conoscenze e competenze abbastanza generali da essere riutilizzate in contesti diversi. Del resto una delle competenze chiave indicate dall’Unione Europea è quella di “imparare ad imparare”. Nel campo digitale ciò significa non tanto conoscere cos’è il 5G ma avere le basi scientifiche per capire il 6, il 7 e l’8G (almeno). Attenzione quindi anche al rischio di rincorrere le ultime mode tecnologiche senza gettare fondamenta di base. Infine, teniamo anche conto della frammentazione delle materie che ha caratterizzato gli ultimi anni, per esempio nelle scuole professionali, e i continui cambiamenti e riforme che sembrano non lasciare il tempo per digerire ciò che di buono queste novità possono portare. La nuova materia proposta dalla ministra rischia di inserirsi in questo non felice elenco di novità incalzanti e senza radici.
L’elenco lascia fuori, poi, le difficoltà organizzative che comporterebbe l’inserimento di un nuovo insegnamento, classe di concorso ecc., nel sistema scolastico
Meglio progettare un grande piano di formazione, che riguardi i docenti in ruolo ma, in maniera più radicale, quelli in formazione
Piuttosto, quindi, che pensare ad una nuova materia, mi sembrerebbe più sensato progettare un grande piano di formazione, che riguardi i docenti in ruolo ma, in maniera più radicale, quelli in formazione.
Tale piano dovrebbe coprire:
- la formazione universitaria;
- la formazione in entrata e
- la formazione in itinere.
In merito alla prima, i corsi di laurea in scienze della formazione primaria e in scienze dell’educazione dovrebbero almeno inserire esplicitamente dei moduli sullo sviluppo di un uso consapevole dei media (media education). In entrata, i futuri docenti dovrebbero formarsi su tre dimensioni: quelle tecnico-operative (uso delle applicazioni più comuni, ma anche basi di coding e principi generali di informatica e funzionamento del web), quelli didattici (uso delle piattaforme, metodologie testate di didattica digitale), e infine quelli umanistico-sociali (veridicità delle informazioni, identità digitale, problematiche dell’uso del web in età adolescenziale). In itinere, occorrerebbe pensare a sistemi di incentivazione per far accedere i docenti ad aggiornamenti che riguardino le implicazioni della digitalizzazione sulle materie che insegnano (es. i docenti di materie umanistico-sociali potrebbero approfondire temi come le fake news, la scrittura sul web e le relazioni mediate dalla tecnologia mentre i docenti di materie tecnico-scientifiche potrebbero formarsi per discutere poi in classe di temi come gli algoritmi, le reti di telecomunicazione, compresi il 5G e i microchip che la ministra cita.
Insomma, non è pensabile di risolvere l’analisi del cambiamento legato alla digitalizzazione con una ulteriore materia. Lo sforzo educativo in questo campo dovrà essere – da un lato – più legato alla ricchezza delle diverse discipline e – dall’altro – molto più collegiale.