Lo sviluppo della tecnologia digitale, delle reti web e mobile e dei social network, al contrario di quanto hanno sostenuto e sostengono le menti più conservatrici, ha generato una sorpresa: sono aumentate le interazioni umane, e non ci riferiamo a tweet e post su Facebook.
È aumentata la partecipazione delle persone a progetti condivisi nel nome di obiettivi individuali che, tuttavia, coincidono con quelli di una comunità. Quando lo strumento utilizzato è una piattaforma web, siamo di fronte alla Crowd Economy.
Se la Crowd Economy ha dunque capacità di aggregare i membri di una comunità in nome di obiettivi e utilità condivisi, i modelli di riferimento che funzionano per i privati possono e devono funzionare anche per la pubblica amministrazione.
Sotto il cappello della Crowd Economy aggreghiamo tre modelli che ormai sono sulla bocca di tutti (o quasi):
- Sharing economy, ovvero l’efficienza della domanda
- Crowdsourcing, ovvero l’efficienza dell’offerta
- Crowdfunding, ovvero l’efficienza nella raccolta risorse economiche
Ma in che modo la pubblica amministrazione, intesa soprattutto come Enti Locali, può sposare la Crowd Economy?
Recentemente, CrowdForum, con il patrocinio di ANCI, ha lanciato un sondaggio presso tutti i Comuni italiani proprio per indagare sulla loro conoscenza di questi strumenti e sui reali fabbisogni progettuali che rimangono nel cassetto per mancanza di fondi.
In attesa dei risultati della ricerca, possiamo intanto abbozzare alcuni indirizzi di massima. Anzitutto la PA può essere sia promotore di iniziative o progetti propri che facilitatore di iniziative o progetti altrui. Qualcosa del genere sta già accadendo con il modello sharing economy in molte città italiane: il bike sharing e il car sharing ne sono un esempio chiarissimo. Sono coinvolti i comuni come promotori/facilitatori/regolatori, le imprese come fornitrici di servizi innovativi e i cittadini come fruitori. Tutti ne guadagnano individualmente qualcosa. Ma, nel complesso, ci guadagna l’intera comunità: meno traffico, meno inquinamento, più servizi di trasporto. Costo per l’ente? Praticamente zero, se non addirittura guadagno.
Anche l’energia per esempio è un settore in cui la PA può applicare i modelli della Crowd Economy. Ci sono ormai diversi casi in tutto il mondo in cui intere isole sono diventate energeticamente autosufficienti grazie alla condivisione tra i cittadini dell’energia generata da fonti rinnovabili; impianti eolici vengono finanziati dai cittadini che hanno in cambio crediti da scontare in bolletta; piattaforme web uniscono domanda e offerta di impianti fotovoltaici che vengono finanziati con il lending crowdfunding da altri cittadini.
Un’altra modalità utilizzata nei casi più svariati è il crowdsourcing, cioè ricorrere al crowd, alla “folla”, per rendere più efficiente la produzione di servizi o la raccolta di dati finalizzata all’erogazione di un servizio. È il caso dell’archivio storico nazionale USA che ha digitalizzato moltissimi documenti storici, ma non ha risorse sufficienti a etichettarli e commentarli in tempi coerenti. E allora ha aperto una piattaforma web attraverso la quale sono i cittadini di buona volontà a poterlo fare.
Oppure, ancora, in tema di raccolta dati, il dipartimento dei trasporti dello stato dell’Oregon utilizza i dati dell’applicazione Strava, molto diffusa tra ciclisti e runner, per osservare tempi e modalità di spostamento degli sportivi per pianificare meglio le piste ciclabili.
Il ricorso al crowdfunding è materia più delicata, ma, a determinate condizioni, assolutamente percorribili. Ci sono già molti esempi anche in Italia, soprattutto di donation o reward crowdfunding: tra i più eclatanti, la ricostruzione della Città della Scienza a Pozzuoli (€1,5 milioni raccolti), il restauro del Portico di San Luca a Bologna (€300k raccolti), oppure quelli del Chiostro di Santa Caterina a Napoli (75k sterline) e della cappella dei Pazzi in Santa Croce a Firenze (102k dollari). Si tratta quasi sempre di iniziative partite “dal basso” cioè da persone o comitati che si sono mossi spontaneamente e in cui gli enti, se coinvolti, hanno svolto il ruolo di facilitatore. L’ente locale infatti deve evitare di infilarsi nella trappola tesa da chi potrebbe pensare “pago già un sacco di tasse, perché con queste il comune non fa quello che deve fare?”. E, dunque, il cosiddetto crowdfunding civico, deve in qualche modo partire da esigenze fortemente sentite dalla comunità e, altrettanto fortemente, spiegare chiaramente perché i fondi vengono richiesti alla stessa comunità.
Ci si può tuttavia spingere a soluzioni più complesse, che coinvolgono la formula dell’equity crowdfunding. Il comune di Londra, per esempio, ha stanziato una parte dei fondi assegnati dal governo per lo sviluppo locale per co-finanziare imprese innovative attraverso le maggiori piattaforme di equity crowdfunding. In altri casi, possono essere create società innovative miste pubblica/privato in cui la parte privata può essere costituita dai cittadini stessi (v. il caso già citato del parco eolico). Tale modalità può anche essere declinata in relazione ad immobili di utilità sociale che siano in grado di produrre redditi, per esempio sotto forma di affitti (il cosiddetto Real Estate crowdfunding).
Il tema è affascinante e ricco di potenzialità che, tuttavia, possono e devono essere sfruttate dagli Enti Locali facendo un salto culturale (adottare una mentalità quasi “imprenditoriale”, fatta di costi e benefici complessivi per la comunità) e mantenendo l’umiltà di fondo che serve ad apprendere nuove strade e che caratterizza tutti i veri innovatori.