L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo a causa dell’epidemia di coronavirus nel nostro Paese, come nel resto del mondo intero, sta spingendo molte imprese a convertire temporaneamente produzione e capacità innovativa in nuovi progetti.
In Emilia Romagna, WASP ha annunciato il nuovo orientamento delle proprie risorse di ricerca, innovazione e sviluppo, su avanzati dispositivi di protezione della salute in tutti i luoghi di lavoro a partire da due progetti specifici rilasciati in open source e stampati in tecnologia 3D.
Si tratta dei progetti “My face mask”, per realizzare in stampa 3D mascherine personalizzate con filtro intercambiabile, e “My space”, per produrre di caschi di protezione da microgocce con ventilazione e filtro integrato.
Le mascherine personalizzate
Descrizione, rilascio open source del progetto, tutorial
Grazie al processo di scansione 3D del volto, l’azienda è riuscita a sviluppare mascherine su misura per qualsiasi lavoratore, in particolare per il personale medico sanitario in questo momento esposto al rischio di contagio da covid-19, ma anche per tutti coloro che ancora sono sul posto di lavoro e che devono tutelare la propria salute.
Il materiale utilizzato, si legge nella nota diffusa dall’azienda di Massa Lombarda, è Pcl (policaprolactone): “Si tratta di un biomateriale che può rimanere a contatto con la pelle. Le mascherine sono state stampate con Delta WASP 4070. Dopo aver disegnato un modello base che segue i lineamenti come una seconda pelle, il nostro obiettivo era rendere la mascherina perfettamente ergonomica, risultato che abbiamo ottenuto con Blender”.
La mascherina può essere disinfettata e utilizzata più volte, garantendo così anche una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale, mentre nella parte centrale va inserito un filtro intercambiabile.
Occorrono circa quattro ore di stampa per realizzare una mascherina aderente al volto, evitando così le irritazioni e i disturbi causati dal lungo utilizzo.
I caschi protettivi
Descrizione e rilascio open source del progetto
Necessari per lavorare e muoversi in ambienti ad alto rischio di contagio, come possono essere gli ospedali e i reparti di terapia intensiva, ma anche nelle strutture dove i pazienti sono in quarantena, i caschi protettivi WASP assicurano “spazio di sicurezza climatizzato e a pressione positiva”.
Il dispositivo è realizzato in materiale plastico leggero e trasparente, “è facile da indossare e crea uno spazio personale protetto”: “Naso, bocca, occhi, orecchie, tutto è racchiuso in un involucro pressurizzato e all’interno si prova una sensazione di protezione, senza la limitazione della capacità respiratoria provocata dalle mascherine”.
Per respirare, “l’aria fresca e pulita viene dall’alto, mentre in corrispondenza delle orecchie piccoli fori consentono l’ingresso del suono. I fori sono protetti da un flusso d’aria in uscita e volendo possono essere chiusi. Una batteria alimenta la ventola per diverse ore”.
Innovazione open source
I progetti sono stati rilasciati in open source: “Sul nostro sito sono disponibili le istruzioni e i file .stl per il download. Abbiamo scelto di pubblicare la fotogrammetria come metodo di scansione poiché è il più semplice e può essere eseguito con un cellulare. Eventualmente può essere utilizzato anche uno scanner manuale”.
L’obiettivo dell’iniziativa, è specificato nella nota aziendale, è mettere a disposizione di centri di ricerca, università, enti pubblici e privati, nuove soluzioni e conoscenze, per condividere sapere ed esperienza concreta, utili nella lotta all’epidemia in tutto il Paese.
Biomateriali “green”
I dispositivi sono realizzati a partire da biomateriale denominato policaprolattone (Pcl).
Un polimero sintetico che da qualche anno ha attirato l’attenzione del mondo dell’industria, soprattutto delle nuove tecnologie, tra cui la stampa 3D, per l’elevato livello di sostenibilità ambientale che garantisce, in quanto è considerato materiale biodegradabile.
Il Plc, oltre ad avere proprietà di elevata biodegradabilità, offre anche opportunità di riciclo e riuso, perché si può fondere più volte per realizzare nuovi dispositivi.
In relazione a questo biomateriale, l’Università di Torino, con la Mycotheca Universitatis Taurinensis del Dipartimento di Scienze della vita e Biologia dei Sistemi, in collaborazione con il Dipartimento di Chimica, sta portando avanti indagini interdisciplinari per testare nuove tecniche di biodegradazione, con l’utilizzo di particolari funghi, che sembra siano piuttosto ghiotti di questo polimero.
Una strada ovviamente in salita e piena di ostacoli, anche perché ulteriori studi dovranno esser eseguiti su questi biomateriali e la loro capacità di biodegradazione.
Secondo un’indagine scientifica dell’Ismar-Cnr, pubblicata sulla rivista “Scientific Reports” e condotta qualche anno fa, tra i polimeri che costituiscono il tappeto di microplastiche che sta soffocando il Mar Mediterraneo c’era anche il policaprolactone, che evidentemente non si degrada così facilmente in assenza di un intervento esterno.