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Coronavirus e gestione dei dati, cosa è andato storto?

Dati e Covid-19. Nonostante troppe persone in Italia, tra quelli che vanno in piazza in questi giorni e anche tra gli esponenti della classe politica, stiano pensando di tornare a vecchie pratiche populiste che, in maniera irresponsabile, ignorano quanto le competenze saranno più importanti di prima nel mondo Post-COVID e credono che l’innovazione sia soltanto un giocattolo per pochi stravaganti utopisti, i fatti dimostrano il contrario.

L’innovazione è un destino. Un destino da cui non si può scappare e soprattutto in questi tempi bisogna perseguirla con maggiore impegno, avendo in mente il bene collettivo.

Tra i tanti problemi e le molte criticità che il contagio ha rivelato c’è la gestione dei dati sulla pandemia e sui suoi effetti. Dati sulla diffusione del virus, sui ricoverati, sulle vittime, sui malati in terapia intensiva, sul tasso di trasmissione.

I dati sugli spostamenti tra le regioni, sugli effetti economici della pandemia, sui posti di lavoro perduti, su quelli a rischio. I dati sulla situazione economica delle famiglie, sulla crisi dei settori del commercio o quelli sugli studenti impegnati nella didattica a distanza e su quelli che ne sono rimasti fuori.

È lunghissima la lista dei numeri che in questi mesi ci sono stati propinati spesso in forma incerta, a volte imprecisa, altre volte del tutto errata. E a questa lista occorre aggiungere le tante discussioni e i tanti dibattiti televisivi e nei giornali sui dati diffusi quotidianamente che ciascuno ha cercato di piegare a servizio delle proprie opinioni.

In particolare la disponibilità e l’uso appropriato dei dati sono un esempio significativo di come ci voglia attenzione, di come potremmo usare cultura, scienza e innovazione, tecnologie e visione per conoscere la realtà in cui siamo immersi e per affrontarla al meglio.

I dati ufficiali sul COVID-19 sia a livello nazionale, sia a livello mondiale, ancora oggi non sono ben organizzati. A volte sono contraddittori, sono gestiti da troppi enti, manca una loro integrazione che genera grandi difficoltà di elaborazione e di analisi. Inoltre sono informazioni che riguardano i cittadini che spesso i cittadini non possono accedere e non possono usare.

Attorno ai dati della pandemia sono scoppiate guerre “fredde”, ad esempio quelle tra Trump e Xi Jinping, tra il Presidente degli USA e l’OMS, tra l’OMS e la Cina. Si sta discutendo da settimane delle possibili responsabilità dell’OMS nei ritardi della risposta all’epidemia e degli occultamenti del governo cinese di dati utili a conoscere e a contenere il virus. In questi giorni sono state rivelate le registrazioni delle riunioni dell’OMS nelle quali funzionari dell’organizzazione tentarono di avere dalla Cina la condivisione dei dati sull’epidemia in quella nazione con scarso successo.

I numeri sull’epidemia in Cina sono arrivati certamente in ritardo e hanno causato ulteriori ritardi nella prevenzione e gestione del contagio. Tuttavia, come ha ricordato l’immunologo Alberto Mantovani, «È stato un grave errore non aver preso sul serio i dati che comunque provenivano dalla Cina. Tutti concordano sul fatto che c’è stata, da là, una grave carenza di informazioni. Ma il dato fondamentale cinese lo conoscevamo: il 10 per cento dei malati finiva in terapia intensiva». Aver usato i dati corretti nei tempi giusti forse avrebbe permesso di salvare molte vite umane in Italia e in Europa.

Questo dimostra l’enorme importanza della disponibilità di archivi di dati pubblici che rispettino la privacy di ognuno ma, allo stesso tempo, possono essere di grande utilità e valore per gestire le emergenze e anche per gestire il nostro futuro con consapevolezza.

Quando dati accurati sono a disposizione degli amministratori pubblici, dei ricercatori, delle università e delle strutture sanitarie è possibile studiare quello che accade in tempo reale e si possono attivare le azioni necessarie in maniera informata. Inoltre, così diventa possibile conservare informazioni certe e ben organizzate per usi futuri.

Una lezione che i governi e le pubbliche amministrazioni dovrebbero apprendere da questa pandemia è far crescere la “cultura dei dati” e lavorare per organizzare dati pubblici e servizi per i cittadini a partire da quei dati che sono di tutti.

Basta pensare a come le diverse nazioni hanno conteggiato e dichiarato i dati sui deceduti da CODIV-19 per comprendere quanta strada rimane ancora da percorrere su questo tema. Oggi siamo sommersi da dati non ben documentati, poco chiari, senza la descrizione delle loro relazioni, senza integrazione e interoperabilità, con scarse informazioni sulla loro provenienza, sulla loro qualità e affidabilità.

Eppure questa pandemia, se fosse stato necessario, ha dimostrato come la raccolta e l’elaborazione dei dati assumono un ruolo preminente per le nostre società. In particolare, l’elaborazione dei dati della pandemia da operazione matematica si è trasformata in bene sociale e in grande valore economico.

Perché questo porti reali benefici, è necessario evitare di manipolare i dati e la loro l’interpretazione a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Come ha ben detto il virologo Andrea Crisanti, se non ci sono dati sufficienti «Bisogna avere il coraggio di dire: non lo so. … La scienza è misura, sfida delle conoscenze, confronto. Una conoscenza non misurabile non è scientifica».

Appunto, prima i dati e poi le opinioni. Così avremo fatto un bel passo avanti e avremmo appreso un’utile lezione dalla storica crisi che la diffusione globale del virus ha caricato sulle nostre spalle.

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