Per valutare adeguatamente il possibile impatto e l’efficacia degli interventi in materia di copyright previsti nell’ambito della Strategia europea per il mercato unico digitale credo si debba partire da una pur breve e sommaria disamina della situazione del settore dell’industria culturale e creativa, nonché dei principali profili di criticità che attualmente la caratterizzano.
L’importanza dell’industria culturale nell’ambito dell’economia nazionale è fotografata da uno studio di Italia Creativa del gennaio di quest’anno. Il comparto ha generato, nel 2015, un valore economico pari al 2,55% del PIL, che sale al 2,96% calcolando anche gli impatti indiretti. Gli occupati diretti sono circa 880.000 e rappresentano quasi il 4% dell’intera forza lavoro nazionale.
Tra l’industria creativa e lo sviluppo tecnologico si verifica una positiva interazione. Per un verso, infatti, il digitale permette una diffusione molto più ampia delle opere e favorisce anche contaminazioni e sinergie fra i diversi settori. Per altro verso, i contenuti culturali sono uno dei principali propulsori della crescita dell’economia digitale.
L’interazione tra creatività e nuove tecnologie è foriera, tuttavia, anche di aspetti problematici. L’utilizzo in internet dei contenuti prodotti dall’industria culturale consente, ovviamente, di generare profitti anche a vantaggio di operatori che non fanno parte della filiera. Si tratta di una conseguenza del tutto fisiologica della diffusione delle opere attraverso la rete. Sembrerebbe congruo, tuttavia, che una quota di questi profitti venisse in ogni caso riconosciuta ai titolari dei diritti, come allo stato avviene solo in presenza di specifici accordi. Per avere un’idea delle dimensioni del problema in termini economici, si consideri che il value gap, ossia il divario fra i ricavi conseguiti dagli intermediari che distribuiscono in rete i contenuti e il valore riconosciuto ai titolari dei diritti, è stimato, secondo le valutazioni più prudenziali, nell’ordine di almeno 200 milioni di euro all’anno.
Vi è anche, purtroppo, un profilo che è invece patologico ed è quindi di gran lunga più preoccupante. Mi riferisco alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie al commercio illegale. Il fenomeno della pirateria commerciale ha acquisito, grazie al digitale, dimensioni tali da mettere in pericolo persino la sopravvivenza di alcuni settori, primi fra tutti quello musicale e quello audiovisivo. Per quanto riguarda in particolare quest’ultimo, un’indagine svolta congiuntamente da IPSOS e FAPAV, presentata meno di un mese fa e relativa al 2016, stima l’incidenza complessiva della pirateria pari al 39% del consumo, con un danno in termini di fatturato pari a 686 milioni di euro per il settore e a un miliardo e 200 milioni per l’intera economia nazionale.
Quanto agli strumenti volti ad arginarne l’impatto, indicazioni significative vengono dal settore musicale, che dal 2013 ha ripreso a crescere dopo anni di ricavi in contrazione soprattutto grazie allo sviluppo dell’offerta legale.
Non meno importanti sono le campagne educative, volte a far comprendere agli utenti della rete, e soprattutto a quelli più giovani, l’esigenza di tutelare la creatività. Sia l’indagine congiunta IPSOS-FAPAV, sia un recente studio dell’Ufficio per la proprietà intellettuale dell’UE fanno emergere segnali di una positiva inversione di tendenza negli orientamenti del pubblico: cresce, infatti, il numero di quanti dichiarano che ricorrerebbero solo a piattaforme che operano legalmente, se queste offrissero i propri contenuti digitali a prezzi accessibili.
Anche l’attività repressiva, l’enforcement, è ovviamente indispensabile per contenere e scoraggiare il consumo illegale. Gli utenti che si imbattono in un sito bloccato si rivolgono sovente a un’alternativa legale, quand’anche il blocco riguardi solo il DNS, come avviene per gli ordini emanati dall’Agcom. Apro una parentesi per sottolineare che uno strumento come il nostro regolamento per la tutela del diritto d’autore online, ormai ritenuto una best practice a livello internazionale, reca tra l’altro un contributo anche in termini di educazione alla legalità. Ne dà prova l’ampio numero di procedimenti che si concludono per adeguamento spontaneo alla richiesta di rimozione dei contenuti caricati illecitamente.
Negli ultimi mesi, l’attività di enforcement ha fatto registrare, tra l’altro, progressi significativi grazie ad alcune pronunce giurisdizionali, sia nazionali, sia europee. Pronunce che hanno tratto tutte le conseguenze possibili dal vigente quadro normativo riguardo, da un lato, alla responsabilità delle piattaforme e, dall’altro, all’implementazione delle misure tecniche intese a porre fine agli illeciti.
Non v’è dubbio, però, che l’esigenza primaria sia quella di rinnovare il quadro normativo, che ha ormai accumulato un ritardo gravissimo nei confronti della realtà. Nei circa tre lustri intercorsi dall’emanazione dei principali atti normativi dell’UE che disciplinano queste materie, l’evoluzione tecnologica ha fatto passi da gigante e, corrispondentemente, i modelli di business si sono trasformati in maniera radicale.
Per questo motivo aveva suscitato grandi attese la comunicazione della Commissione europea del maggio 2015 sulla Strategia per il Digital Single Market, che aveva annunciato una serie di iniziative volte a creare un mercato interno per i servizi e i contenuti digitali. Con riferimento al copyright, tre sembravano essere i principali obiettivi da perseguire: l’accesso transfrontaliero ai contenuti in tutti i Paesi dell’Unione; l’equa remunerazione dei titolari dei diritti, argomento che rimanda direttamente al problema del value gap; la precisazione delle norme sugli intermediari online, alla luce del ruolo sempre più centrale da essi acquisito.
Dico subito che, almeno per quanto è emerso fino ad ora, i risultati appaiono, purtroppo, inferiori alle aspettative, sia pure in misura differente rispetto ai singoli temi.
Le nuove norme europee sembrano destinate a incidere sugli assetti esistenti soprattutto in materia di accesso transfrontaliero. Al riguardo, il regolamento sulla portabilità dei contenuti online ha cercato di perseguire un bilanciamento fra l’interesse degli utenti ad accedere ai contenuti e quello dei titolari dei diritti a salvaguardare il carattere territoriale delle licenze. Quest’ultimo potrà infatti subire deroghe, ma solo per limitati periodi di tempo e previa verifica della sussistenza di determinate condizioni.
In vista del dichiarato obiettivo della creazione di un mercato unico, non è sufficiente, tuttavia, assicurare agli utenti l’accessibilità dei contenuti. Occorre anche garantire agli operatori condizioni concorrenziali uniformi in tutto il territorio dell’UE. Sarebbe stato necessario, quindi, imporre una disciplina unitaria, o almeno fortemente armonizzata, in materia di diritto d’autore e dei relativi strumenti di tutela. Non sembra, purtroppo, che questa ipotesi sia stata presa seriamente in considerazione. Per di più, la persistente adesione, relativamente ad alcuni servizi, al principio del Paese d’origine determina una frammentazione persino nei singoli mercati nazionali, nei quali si trovano a competere fra loro operatori soggetti a diversi regimi giuridici.
Quanto al tema dell’equa remunerazione, la proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, presentata dalla Commissione europea nel settembre 2016, estende opportunamente agli editori le tutele previste per gli altri titolari dei diritti dalla direttiva 2001/29/CE. Relativamente al value gap, è espressamente previsto che gli editori possono richiedere un compenso per gli utilizzi delle opere su cui gli autori abbiano loro trasferito o concesso diritti.
In linea più generale, sempre con riferimento agli utilizzi delle opere in rete, l’art. 13 della proposta di direttiva contiene però una formulazione non del tutto soddisfacente. Essa infatti si limita a fare obbligo agli ISP di adottare misure volte a impedire la messa a disposizione sui loro servizi di contenuti identificati dai titolari dei diritti come protetti da diritto d’autore. Più efficace sarebbe stato prevedere a carico degli hosting provider, come ipotizzato nel considerando 38, anche un obbligo di concludere previamente accordi di licenza.
A sua volta, l’emendamento approvato dalla Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori del Parlamento europeo non rappresenta certo un passo in avanti. Se infatti si propone di introdurre l’obbligo di sottoscrivere accordi di licenza con i titolari dei diritti, si prospetta nel contempo l’eliminazione del riferimento all’adozione di misure tecniche volte a impedire le violazioni. Con il che gli accordi di licenza potrebbero rischiare di restare, nella pratica, privi dei necessari presidi applicativi e, dunque, carenti di effettività.
L’aspetto più deludente della strategia europea riguarda però le piattaforme online. La comunicazione della Commissione europea del maggio 2016 ha fatto tramontare, purtroppo, ogni residua illusione circa la prospettiva di rivalutarne il regime di responsabilità. Regime divenuto ormai del tutto obsoleto, alla stregua del ruolo attivo svolto da alcune di esse nella gestione e nella distribuzione dei contenuti e, quindi, nel loro consumo da parte degli utenti.
Il testo della comunicazione contiene, non a caso, affermazioni palesemente contraddittorie. La Commissione riconosce infatti, da un lato, che il ruolo svolto oggi dalle piattaforme comporta necessariamente maggiori responsabilità e che l’attuale disciplina è stata concepita in un’epoca in cui le piattaforme stesse non avevano certo le caratteristiche e la portata attuali. D’altro lato, essa si pronuncia, però, per il mantenimento della regolamentazione vigente, che risale alla direttiva e-commerce del 2000 e che contempla – com’è noto – un generale esonero da ogni responsabilità fino a quando il provider non sia venuto a conoscenza del carattere illecito dell’informazione ospitata o trasportata sulla sua rete.
Messa così da parte ogni ipotesi di riforma di ampio respiro, la Commissione conclude, infine, prospettando l’adozione di un approccio al problema della responsabilità di tipo settoriale. L’approccio settoriale non sembra fondarsi su ragioni plausibili, né dal punto di vista della tecnologia, né da quello del mercato. Sotto il profilo giuridico, la frammentazione della disciplina che inevitabilmente ne conseguirà potrebbe inoltre determinare effetti negativi anche sulla certezza del diritto.
Duole che non sia stata colta l’occasione per modificare la direttiva sul commercio elettronico, prendendo in considerazione anche soggetti diversi dagli ISP tradizionali, quali gli intermediari che operano nel campo finanziario, in quello pubblicitario e in quello dei nomi a dominio. Tutti soggetti il cui coinvolgimento potrebbe recare un contributo tutt’altro che trascurabile ai fini della più efficace tutela della proprietà intellettuale.
Ancora più grave è che non si sia inteso trarre le inevitabili conseguenze dell’avvenuto riconoscimento del ruolo attualmente svolto dalle piattaforme, in esse ricomprendendo sia gli aggregatori di contenuti sia i social network. Questi operatori esercitano un’influenza notevolissima sulle scelte dei consumatori, sulle quali incidono certamente più della stampa e, per alcuni versi, persino più del mezzo televisivo. Eppure continuano a non essere considerati titolari di responsabilità editoriale, in virtù di una nozione di quest’ultima ormai superata. Una nozione che il legislatore europeo avrebbe potuto – e anzi dovuto – adeguare finalmente alla mutata realtà della tecnologia e del mercato.