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Nel 2022, 801mila trasformazioni. “Great Resignation”: 1,6 milioni cessazioni
Il 2022 è stato un anno positivo per l’occupazione, non solo perché sono stati creati 382mila nuovi posti di lavoro, ma soprattutto perché sono stati quasi con un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Secondo gli ultimi dati del Ministero del Lavoro analizzati dalla Banca d’Italia, infatti, le attivazioni nette di contratti permanenti sono arrivate a quota 412mila. Sono state molte di più che negli anni precedenti, incluso il 2019, quando si erano fermate a 353 mila. Hanno compensato il calo di 53mila unità degli apprendistati e surclassato il numero molto ridotto delle nuove posizioni a termine, solo 23mila.
Il dato più significativo, però, è che questi numeri sono stati raggiunti soprattutto grazie al grande aumento delle trasformazioni in un contratto di lavoro a tempo indeterminato di contratti a tempo determinato. Come si vede dalla nostra infografica sono state ben 801mila lo scorso anno, contro le 592mila del 2021, le 552mila del 2020 e le 687mila del 2019.
Boom del contratto di lavoro a tempo indeterminato
Si è trattato una crescita superiore a quella, comunque molto buona, delle assunzioni dirette in posizioni permanenti: sono state un milione e 303mila nel 2022, contro il milione e 98mila del 2021 e le sole 922mila del 2020. Anche in questo caso hanno superato il livello pre-pandemico, visto che nel 2019 avevano ottenuto un posto a tempo indeterminato in un milione e 202mila.
Parallelamente per questo tipo di contratti però, sono salite anche le cessazioni, ovvero pensionamenti, licenziamenti e dimissioni. Sono passate dal milione e 453mila del 2021 al milione e 692mila del 2022, una cifra superiore a quella del 2020 e anche del 2019. In questa tendenza ha certamente un ruolo il fenomeno della Great Resignation (le grandi dimissioni), che dopo gli Stati Uniti è arrivato anche in Europa e in Italia, con l’incremento degli allontanamenti volontari dagli uffici, in particolare da parte dei più giovani. Questo vuol dire che se fosse stato solo per le entrate di nuovi lavoratori e per le uscite verso l’inattività e la disoccupazione non vi sarebbero stati molti cambiamenti negli anni, e, anzi, il bilancio sarebbe stato sempre negativo. L’importanza delle trasformazioni da tempo determinato è quindi ancora più rilevante.
Le imprese hanno iniziato ad assumere
In sostanza quello che è accaduto è che all’indomani delle prime riaperture dopo i lockdown le imprese si sono mosse con grande prudenza. Quelle che hanno fatto assunzioni hanno preferito in maggioranza reclutare nuovo personale a termine. Le attivazioni di posizioni a tempo determinato, infatti, sono state 4 milioni e 620mila nel 2021, 834mila in più che nel 2020, per un incremento percentuale del 23,3%. Nello stesso periodo l’aumento dei rapporti di lavoro con un contratto di lavoro a tempo indeterminato è stato inferiore, del 19,1%, corrispondente a 176mila posti in più.
Del resto gran parte dei lavoratori che avevano perso il lavoro a causa della pandemia erano impiegati a termine. Erano stati in un certo senso le vittime della recessione innescata dal Covid. Parliamo in particolare di quelli del commercio, del turismo, della ristorazione. È naturale che una volta che le attività sono ripartite le aziende abbiano innanzitutto ristabilito quelle posizioni, con lo stesso inquadramento contrattuale precedente, senza eccedere nelle nuove assunzioni permanenti.
Poi, nel 2022, con la prosecuzione della ripresa, nonostante le incertezze provocate dalla guerra in Ucraina e dall’alta inflazione, molte imprese hanno acquistato fiducia: hanno compreso che i nuovi livelli di domanda sarebbero stati confermati almeno nel breve-medio periodo, che non vi sarebbero state nuove chiusure. Di conseguenza hanno cominciato a trasformare molte posizioni a termine, per trattenere almeno quelle competenze che si erano rivelate più utili.
Rispetto al 2019 è boom di nuovi posti nelle costruzioni
Ma dove sono stati creati i 382mila nuovi posti, di cui, come abbiamo visto, gran parte a tempo indeterminato? Naturalmente al Centro-Nord, dove vi sono state 302mila nuove assunzioni nette, contro le 80mila del Sud e delle Isole. Il confronto più adeguato è con il 2019, visto che i numeri del 2021 sono gonfiati dal recupero delle posizioni perse nel 2020. Da questo emerge come nel Mezzogiorno le attivazioni nette del 2022 siano state esattamente le stesse dell’ultimo anno prima del Covid. Nelle regioni centro-settentrionali, invece vi è stato un aumento di 74mila unità. Insomma, la ripresa si è rivelata più decisa nelle aree già economicamente più forti del Paese.
Dal punto di vista settoriale è evidente il ruolo delle costruzioni. Dopo anni di crisi e stagnazione l’edilizia ha ripreso a correre, sulla scorta dei sussidi governativi come il Superbonus 110 e delle aspettative verso il Pnrr. Basti pensare che già nel 2020 in questo comparto erano stati creati ben 78mila nuovi posti, più del doppio dei 35mila del 2019. Sono poi aumentati a 125mila nel 2021 per assestarsi a un ottimo livello, 75mila, nel 2022. È sicuramente l’ambito in cui è più chiara non solo la ripresa, ma anche l’accelerazione rispetto al periodo pre-pandemico.
Nel turismo e nel commercio non si assume più come prima del Covid
Anche nell’industria in senso stretto (nella manifattura, per esempio) e in gran parte dei servizi le assunzioni dell’anno scorso sono state maggiori di quelle del 2019. A fare eccezione due settori molto importanti, il commercio e il turismo. Nel primo le nuove attivazioni nette sono state 44mila nel 2022, contro le 47mila di 3 anni prima, nel secondo 75mila. In quest’ultimo caso però si assiste a una riduzione più ampia nei confronti del dato pre-Covid. Nel 2019, infatti, i nuovi posti erano stati 86mila.
Tra l’altro il turismo era stato il solo ambito in cui nel 2020 la differenza tra assunzioni e cessazioni era stata largamente negativa, con la perdita di 136mila lavoratori. Dopo il rimbalzo del 2021 (+171mila attivazioni), a differenza che nel resto dell’economia, nel 2022 non vi è stata una ripresa così decisa da superare i livelli pre-pandemici. A influire, probabilmente, vi è stato anche l’esodo di lavoratori verso comparti con salari maggiori e prospettive più stabili, dove, per esempio, ambire ad ottenere un posto a tempo indeterminato.
I dati si riferiscono al 2019-2022
Fonte: Banca d’Italia