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Consolidamento: Telecom Italia solo un tassello nei puzzle paneuropeo. Governo miope?

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Le tlc, altrove considerate strategiche, in Italia sono state lasciate andare perché il denaro, in fin dei conti, non ha bandiera e quel che conta, secondo il Governo, al di la dei nazionalismi, sono gli investimenti e il mantenimento dei livelli occupazionali.

Ormai non sembra più questione di se, ma di come. Il consolidamento delle telecomunicazioni europee è una via obbligata per permettere agli operatori di recuperare potere negoziale di fronte a quella manciata di web company che va sotto l’acronimo di GAFA (Google, Apple, Facebook e Amazon), che nel corso degli anni ha via via tolto alle telco, oltre ai ricavi, anche un altro asset molto prezioso: il contatto diretto coi clienti, da cui deriva la moneta di scambio dell’era digitale, i nostri dati.

Uno scollamento, quello tra operatori e utenti che non farà che acuirsi con lo sviluppo di Internet delle cose, che potrebbe essere il primo passo di una disintermediazione ancora più profonda.

La colpa certo, non è solo delle web company, come non sarà dei produttori di dispositivi domestici connessi che cominceranno a offrire servizi e a raccogliere i dati degli utenti, perché – come ha spiegato anche Alexey Reznikovich, del fondo russo Letter One –  finora gli operatori poco hanno fatto per sfruttare i dati degli utenti, pensando di poter vivere di rendita senza agire prontamente con nuovi servizi e business model. Lasciando, insomma, campo libero agli OTT.

È facile ora dire che serve parità di condizioni. Una parità difficile da ottenere in un mercato eccessivamente sbilanciato, ma dalla parte sbagliata della bilancia se si pensa che gli operatori attivi in Europa sono più di cento mentre gli OTT che ‘pesano’ si contano sulle dita di una mano.

Sul versante delle infrastrutture e dei dispositivi la situazione è ben diversa: ultima tappa del consolidamento è stata l’acquisizione di Alcatel-Lucent da parte di Nokia. L’80% del mercato, che vale 80 miliardi di dollari, è nelle mani di 5 aziende: Nokia, Ericsson, Huawei, ZTE e Cisco. Ancora più concentrato è il mercato dei terminali, da cui dipende il 10% del fatturato delle telco: poco più della metà delle vendite è in mano a Apple e Samsung, con la prima, in particolare, che si mette in cassa più del 90% del valore creato e la seconda che detiene l’80% del mercato della ricerca online. Poi, sul mercato dei contenuti online – che sono il traino principale della domanda di banda larga mobile – c’è YouTube (di proprietà di Google), che domina il settore dello streaming e Netflix quello del video-on-demand.

È da dire che peggio di tutti stanno gli operatori europei: se infatti negli Usa e in Cina il mercato delle telecomunicazioni è caratterizzato da una forte concentrazione, che ha consentito un riassestamento dei margini e una forte ripresa degli investimenti, nel Vecchio Continente di player operativi ce ne sono oltre un centinaio.

Su alcuni mercati, come la Germania, l’Irlanda, l’Austria e il Regno Unito, il numero di operatori è stato ridotto da 4 a 3. La concentrazione sembra, quindi, inevitabile, ma la Commissione europea frena, preoccupata per gli effetti sul versante della concorrenza e, quindi, dei consumatori.

Un’altra via è possibile?

Sì, quella del consolidamento paneuropeo. Il posizionamento dei principali operatori già iniziato: si pensi a quello che sta succedendo con Telecom Italia, nel cui capitale sono entrati Vivendi – che è un conglomerato media e possiede il 201,1% – e Xavier Niel, che ha agito a titolo personale, ma è proprietario di Iliad che controlla l’operatore mobile francese Free. Niel – che dopo la conversione delle azioni di risparmio deterrà un potenziale 10% della società italiana – e Bollorè, presidente di Vivendi, hanno confermato alla Consob di non aver agito in concerto, ma in molti vedono dietro di loro l’ombra lunga di un altro player francese, l’ex monopolista Orange. Quest’ultimo è già presente in diversi paesi europei (Spagna, Polonia, Egitto, Romania, Moldavia, Belgio, Portogallo, Slovacchia, Svizzera) e in Africa.

Altro imprenditore molto attivo è Patrick Drahi che attraverso Altice ha messo le mani su SFR (Francia), Portugal Telecom e, oltreoceano, sugli operatori via cavo Cablevision e Suddenlink. Il suo gruppo vale circa 46 miliardi di dollari.

Così come sono molto attivi anche Vodafone – che ha acquisito Ono in SpagnaCable & Wireless Worldwide e Kabel Deutschland – l’ex monopolista tedesco Deutsche Telekom (con l’acquisizione della polacca GTS e dell’operatore operatore Usa MetroPCS) e Hutchison Whampoa che ha acquisito Orange Austria, la divisione irlandese di Telefonica e ha presentato, in Italia, un progetto di fusione con Wind, controllata dai russi di Vimpelcom, che a loro volta sono pronti a investire 4 miliardi nella brasiliana Oi a patto che questa si fonda con Tim Brasil.

In questo scenario, Telecom Italia – che, quindi, potrebbe presto cedere la controllata Tim Brasil – fa la figura del nano tra i giganti e non potrà che essere preda del mercato, così come lo sono state altre note aziende italiane, da Italcementi a Pirelli, da Ansaldo Sts a AnsaldoBreda, passando per quasi tutti gli storici marchi della moda.

Nel settore delle tlc, del resto, in Italia di italiano è rimasto ben poco: Vodafone – seppur guidata dall’italianissimo Vittorio Colao – batte bandiera britannica, Wind russa, Fastweb svizzera e H3G cinese.

Un settore, altrove considerato strategico – tanto che l’Italia è uno dei pochi paesi, insieme al Regno Unito, in cui il Governo non ha mantenuto una quota nell’ex monopolista tlc – il cui controllo è completamente  passato di mano perché il denaro, in fin dei conti, non ha bandiera e quel che conta, secondo il Governo, al di la dei nazionalismi, sono gli investimenti e il mantenimento dei livelli occupazionali.

Allo stesso modo, è considerato strategico lo sviluppo della banda larga, uno strumento fondamentale per occupazione, crescita produttiva, sviluppo di applicazioni con notevoli ricadute sociali, stimolo alle esportazioni…

Ma al momento, al di la dei proclami, poco si sta facendo – sul versante pubblico – per accelerarne la diffusione. Certo, in un paese in cui la banda larga arriva al 99% della popolazione, ma gli abbonamenti sono solo il 70% e in cui la fibra arriva al 36% della popolazione ma il numero di abbonamenti si ferma al 2% (su una media Ue del 43%) c’è chi sostiene che il problema non è tanto sul versante dell’offerta sul ma su quello della domanda. A questo verrebbe da obiettare che se la pubblica amministrazione facesse da apripista, offrendo i suoi servizi esclusivamente online, allora si potrebbe mettere in moto quel circolo virtuoso che porrebbe l’Italia in cima alla lista dei paesi digitali, non al fondo delle classifiche.

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