Per dirlo con parole semplici, la conoscenza è il processo soggettivo attraverso il quale dati, informazioni ed eventi vengono strutturati dalla mente umana in elementi complessi ed interattivi. Nella storia dell’umanità ha da sempre rappresentato un obiettivo di rilevanza fondamentale a cui aspirare. Ha però costituito, e costituisce tuttora, anche argomento di dibattito tra differenti scuole di pensiero nel determinarne le origini, le modalità di consolidamento ed il valore. Lo strumento che ne ha supportato e ne supporta la veicolazione e l’aggregazione è la comunicazione.
Nel corso dei secoli è stato possibile riscontrate particolari interazioni e reciproche influenze tra il contenuto delle informazioni trasmesse (messaggi) – gli input del processo che genera l’output della conoscenza – e gli strumenti utilizzati (mezzi) per la loro diffusione. Fu il sociologo Marshall McLuhan, negli anni ’60, a determinare che il mezzo è il messaggio, individuando nelle caratteristiche intrinseche degli strumenti la capacità di plasmare il significato.
Proprio in questo XXI secolo – e considerando la sconvolgente rapidità con cui oramai la realtà si evolve intorno a noi, sarebbe bene parlare degli anni ’10 del nuovo millennio – assistiamo ad una nuova era: quella dell’informazione. Come è avvenuto all’inizio di ogni era – dell’oralità, della scrittura alfabetica, della stampa e dei mezzi elettrici ed elettronici – siamo nuovamente nella condizione di dover definire le regole per gestire in modo sano il rapporto tra mezzi e messaggi, salvaguardando la continuità e la salubrità del processo di generazione della conoscenza. Proprio la conoscenza, infatti, è stata individuata nell’economia intangibile come uno dei beni immateriali portanti per la generazione di valore, assieme alla collaborazione (modalità di interazione tra le persone), la fidelizzazione (il livello di energia e di impegno speso dalle persone) e la qualità del tempo (velocità di generazione del valore).
Il knowledge management, ovvero l’insieme dei processi rivolti alla gestione e condivisione della conoscenza, per il momento – probabilmente fino a quando i motori semantici e ontologici non saranno in grado di fornire risultati apprezzabili – deve essere alimentato dall’essere umano, attraverso la digestione delle informazioni con le quali entra in contatto. Solo di recente, attraverso l’utilizzo di tecnologie correlate alla business intelligence e al data mining siamo stati in grado di trasformare grandi quantità di dati grezzi in informazioni. Attualmente, nel tentativo di convertire le informazioni in conoscenza, subiamo passivamente le modalità di comunicazione proposte dalle tecnologie, la cui offerta non sempre risulta coerente con il fabbisogno. Siamo di fatto esposti ad forte inquinamento che rende poco sostenibile il rapporto tra i messaggi ricevuti, che contengono informazioni non elaborate, e la nostra capacità di gestirli in modo costruttivo.
L’ergonomia cognitiva, focalizzata sullo studio dell’interazione dell’uomo con gli strumenti per l’elaborazione delle informazioni, e parallelamente la psicologia cognitiva, attenta a determinare i processi mentali attraverso i quali le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, hanno evidenziato un fenomeno diffuso e pericoloso: l’information overloading (sovraccarico cognitivo).
Il Dott. Luca Chittaro – professore di Interazione Uomo-Macchina all’Università di Udine, dove nel 1998 ha fondato il laboratorio di ricerca HCI Lab di cui è direttore – spiega chiaramente come questo fenomeno depredi importanti risorse cognitive, come ad esempio l’attenzione – la capacità di focalizzare percezione e pensieri su ciò che è importante, per favorirne un’elaborazione profonda – e la memoria. Sulla base del bombardamento al quale siamo soggetti, siamo anche resi vulnerabili difronte ad differenti fenomeni penalizzanti. Il tunnel vision – come specifica il Prof. Chittaro – implica il soffermarsi su un numero limitato di informazioni anche se poco utili per affrontare una situazione. Il confirmation bias rappresenta invece il rifiuto delle informazioni che smentiscono quelle precedentemente acquisite. Lo stesso James Reason – uno dei più importanti studiosi sull’errore umano – lo definisce come la tendenza a rimanere legati ad un’idea che ci siamo fatti sulla base di informazioni preliminari, anche quando evidenze successive contraddicono quell’idea iniziale. Quest’ultimo fenomeno ha un’incidenza significativa, nell’ambito della sicurezza, ed una stretta relazione con quello dello human knowing-doing gap, ovvero il divario tra la conoscenza delle norme stabilite e la loro reale applicazione da parte degli operatori di un servizio. Può tramutare gli errori (che per definizione non sono intenzionali) in una violazione (consapevole) a causa dell’incapacità di riconoscere una deviazione cognitiva. Infine il fenomeno delle euristiche sociali consiste nell’imitazione, senza una valutazione personale, delle scelte di famigliari, amici o colleghi. Anche il tentativo di emulare in ottica di efficienza una capacità propria dei processori elettronici, come quella del multitasking, rappresenta un attentato al sistema cognitivo. L’elaborazione alternata e quasi sequenziale di differenti processi degrada notevolmente la concentrazione, rischiando di compromettere la corretta, coerente e completa elaborazione delle informazioni.
Il quadro configurato dovrebbe indurre ad interventi sostanziali, anche attraverso la condivisione di regole di comunicazione correlate all’utilizzo degli strumenti tecnologici, riconducendo questi ultimi in un ambito di governo consapevole piuttosto che di libero ed euforico trascinamento. Purtroppo, per il momento, sembra che questo sia argomento di sporadiche riflessioni, mentre il marketing gongola per la possibilità di imporre ancora una volta la teoria del proiettile magico e le sicurezze sono attaccate al cuore da blimp e badge, tutti uguali, senza senso.