Chissà se sono poche o molte le persone ad aver percepito come il modello sociale che le grandi compagnie informatiche stanno costruendo – quasi silenziosamente – sia quello casalingo, domestico. Una sorta di “focolare digitale” dove si può avere tutto senza varcare la soglia di casa. Non è l’unico modello che si possa realizzare, ma le grandi compagnie informatiche si stanno decisamente muovendo in quella direzione, Amazon ci porta velocemente a casa ogni prodotto che si può trovare in un negozio o in un supermercato. Netflix riempie le nostre serate di film e serie televisive senza farci sentire il bisogno di andare a cinema. Con Just Eat possiamo ordinare online pranzo e cena dai nostri ristoranti preferiti e attendere l’arrivo dei piatti pronti stando seduti nel tinello senza doverci mettere in macchina o senza dover fare neanche una passeggiata per cenare fuori. Ormai tutto si può fare online, basta avere una buona carta di credito e la vita sociale, gli acquisti, il cinema e tanto altro, si potranno consumare rimanendo dentro le quattro mura domestiche.
È un modello “comodo” che invita a non frequentare luoghi pubblici, a non uscire di casa neanche per soddisfare bisogni primari o per diletto. Negli USA che sono la prima nazione dove queste nuove tecnologie sono molto usate, l’effetto lo si può già notare dalla scarsa presenza di clienti nei grandi centri commerciali e nelle sale cinematografiche, luoghi che in passato erano molto frequentati. Altri luoghi seguiranno questa tendenza all’immobilità domestica che certamente avrà anche il piccolo effetto collaterale di aumentare la percentuale di obesità nella popolazione dei paesi ricchi. Un altro effetto collaterale di questa tendenza a ordinare online ogni cosa è quello di controllare le azioni e le scelte dei clienti e di alimentare i loro gusti dando loro quello che mostrano di preferire. In una sorta di processo iterativo che si autoalimenta e che serve a vendere sempre di più, accontentando ogni desiderio praticabile. In questo senso basta analizzare velocemente il caso di Netflix per comprendere quanto sia emblematico, sapendo che anche Amazon, Just Eat e tanti altri stanno seguendo la stessa tendenza.
Netflix è diventato un colosso dell’industria dei media online che fattura oltre 15 miliardi di dollari e ha circa 140 milioni di clienti che quotidianamente guardano film, serie televisive e altri contenuti che la piattaforma distribuisce in streaming tramite la rete. Nel 2018 alla Mostra cinematografica di Venezia il Leone d’Oro è stato vinto dal film “Roma“, che per la prima volta è stato distribuito dalla piattaforma Netflix prima di andare nelle sale. La protesta dei gestori e dei distributori c’è stata, ma questo è stato soltanto il primo passo di un trend che non si arresterà.
Tra le tante cose che Netflix fa c’è l’analisi dei dati dei suoi 140 milioni di clienti che sono monitorati capillarmente in tutto quello che fanno sulla piattaforma di media streaming. Quali film guardano, per quanto tempo, quali abbandonano, quali cercano, quali gradiscono e quali mostrano di non amare. Tutto questo serve per controllare il gusto degli utenti e per decidere su cosa puntare, su quali produzioni investire facendolo sulla base del comportamento dei clienti e non sulle decisioni dei programmatori e dei registi. Questo sta generando inediti contrasti interni tra il team di data analysis di Netflix che lavora a Los Gatos e la produzione che si trova a Los Angeles e che mal digerisce le indicazioni che il team tecnologico fornisce sulla base dei comportamenti degli utenti.
A Hollywood non si crede molto ai dati e soprattutto si vuole continuare a decidere sulla base delle competenze dei “cinematografari” e non sulla base dei numeri e dei grafici che arrivano dalla divisione informatica.
È una battaglia tra gli algoritmi che scovano informazioni nei dati e suggeriscono su quali contenuti investire e i produttori, sceneggiatori e registi che vogliono essere i soli a decidere su quali film capitalizzare gli enormi profitti del gigante dei media. La rabbia dei membri del team di produzione di Netflix non ha risparmiato neanche le parolacce nei confronti degli algoritmi che analizzano i Big Data, trattati come fossero delle persone da offendere.
Quello che sta avvenendo dentro Netflix è soltanto un esempio, molto significativo, dei cambiamenti che si verificano in tantissime aziende e organizzazioni dove si usano i dati come elemento su cui basare le decisioni. Cambiamenti che vengono ribaltati sulla società, sulle persone e sul loro modo di vivere. A Hollywood molti professionisti della produzione cinematografica si sentono continuamente sotto l’esame degli algoritmi che controllano come i clienti accolgono i loro film, le loro serie televisive. A Netflix, un dirigente ha cercato di tranquillizzarli dicendo loro che se i loro spettacoli saranno di qualità, gli algoritmi certamente troveranno molti spettatori per loro. Ma questo è soltanto un auspicio che non è per nulla garantito perché l’obiettivo primario non è la qualità ma la soddisfazione dei clienti.
Anche gli attori temono che gli algoritmi possano mettere in dubbio la loro fama e le loro capacità perché a Netflix si usano anche tecniche di analisi d’immagini che hanno rilevato come alcuni protagonisti si preoccupino di mostrarsi in particolari pose senza curarsi del resto del set. In un caso particolare, anche Jane Fonda, star di Hollywood è stata messa in dubbio dall’analisi dei dati dei clienti che hanno segnalato come molti utenti abbiano scelto di guardare la commedia “Grace and Frankie” quando nell’immagine di promozione dello spettacolo non compariva la Fonda. In questo caso a Hollywood hanno difeso la loro star e l’indicazione degli algoritmi non ha avuto conseguenze, ma in futuro non è detto che le cose non possano cambiare.
Il caso di Netflix non è ovviamente isolato, Epagogix è un’altra società che tramite algoritmi stima il successo di un film da realizzare sulla base delle scene che si vorrebbero inserire. Un altro esempio interessante è rappresentato dalla casa editrice inglese Unbound che usa algoritmi di analisi di dati per decidere cosa pubblicare. Unbound finanzia le sue pubblicazioni tramite il crowdfunding e il testo di un potenziale scrittore da pubblicare è valutato sia dagli editor sia da un algoritmo che serve a stimare le potenziali vendite future del libro sulla base dei follower dell’autore nei social media, le sue attitudini, il suo profilo personale e pubblico usati per calcolare la sua potenzialità a diventare famoso. Nella scelta finale sulla pubblicazione di un libro il parere dell’algoritmo è preminente su quello degli editor. È l’algoritmo a scegliere gli autori da pubblicare seguendo i gusti dei potenziali lettori e non la qualità del testo.
Non a caso uno slogan di Unbound è “i libri sono adesso nelle vostre mani” e il riferimento non è alla copia del libro che possiamo possedere ma alla scelta di pubblicarlo affidata in buona parte all’algoritmo che prevede i suoi potenziali lettori. Questo è evidentemente un modello di business radicalmente differente da quello usato finora dalla gran parte degli editori, tuttavia è un modello editoriale che potrebbe affermarsi. E in questo caso rimane comunque da chiedersi se questo nuovo modo di fare editoria educhi o diseduchi i lettori, se produrrà un’editoria di maggiore qualità o se sarà soltanto la quantità delle vendite a guidare la pubblicazione dei libri in futuro.
Secondo questi nuovi approcci le persone diventano sempre più consumatori da soddisfare, soggetti da tenere seduti sul divano e monitorare costantemente, clienti che non hanno bisogno di muoversi, di parlare con altre persone, di interagire socialmente, basta che interagiscano con i provider di ogni bene voluttuario che verrà loro suggerito e recapitato valutando i loro gesti, calcolando le loro preferenze, i loro desideri che non richiedono sforzi fisici o mentali per essere soddisfatti. Un nuovo modello sociale e culturale che dovrebbe far preoccupare tanti mentre, invece, pian piano si consolida e modella le società del futuro.