È giusto o sbagliato chiudere RAI Movie e RAI Extra per organizzare l’offerta su due canali, rispettivamente, al maschile e al femminile?
Per dare una risposta dovremmo capire anzitutto cosa ci sta a fare, la RAI, nel mondo della comunicazione. Un mondo, lo sappiamo, divenuto alquanto complicato, e che tutti, frequentandolo, ritengono a torto di conoscere. Questione antica, ma che si fa più grave con il passare del tempo, a causa della crescente complessità dei sistemi di comunicazione: perché oggi le connessioni tra i diversi sistemi trovano nella rete un ambiente di manipolazione, sostenuto da sistemi di intelligenza artificiale che non si limitano a riprodurre la realtà ma sono capaci di manipolarla. Ovvero: i terminali umani ricevono stimoli personalizzati, informazioni vere e false, che in teoria non cancellano le sue libertà ma in pratica possono condizionarla. Non c’è più solo comunicazione, ci sono false realtà poco distinguibili dalle vere. E di questo ben pochi si rendono conto.
Nessuno conosce a fondo le potenzialità e i rischi dei nuovi algoritmi. Il prossimo avvento del 5G, e l’ulteriore contrazione dei tempi di reazione della rete, sono destinati a consentire nuove modalità, nuove aree di intervento, nuove invenzioni più o meno strabilianti.
Televisione e intelligenza artificiale
Cosa c’entra tutto questo, robotica e intelligenza artificiale, con il sonnacchioso mondo della televisione? C’entra perché le connessioni sono arrivate a un punto di non ritorno. La nuova televisione si chiama Netflix, Amazon Prime Video, Apple TV, tra poco Disney Plus… gente cresciuta a dollari e algoritmi, pronta a percorrere ogni strada a sostegno dei propri prodotti. E intanto i vecchi canali televisivi tradizionali, compresi i servizi pubblici europei e compresa la stessa RAI, pur non restando a guardare e sperimentando, paiono a volte incapaci di trarre le conseguenze necessarie, e di affrontare e potenzialità del nuovo ambiente iperconnesso.
Ma il cambiamento è così veloce che, lo ho già detto, nessuno sa come si andrà a finire. C’è già chi preconizza future difficoltà per il modello Netflix, quello che oggi appare vincente. Forse non basta più produrre e distribuire in tutto il mondo film e fiction seriale. La gestione globale degli eventi, siano essi fatti del mondo reale, sia eventi prodotti (tipo Sanremo), sia quelli collocati a metà strada come lo sport, questa gestione globale degli eventi/fatti reali/spettacolo intesa come diretta televisiva – più dell’informazione organizzata dei telegiornali, che restano rilevanti come evento e contenitore di eventi ben più di quanto emerga dalle loro vetuste linee editoriali – questa della diretta resta una funzione irrinunciabile anche nel grande televisore domestico, che comunque si conferma il punto di consumo privilegiato di tutte le forme di distribuzione dei prodotti, mentre lo smartphone resta padrone della intercomunicazione personale, con la funzione aggiunta di una sorta di telecomando universale di ogni forma di connessione.
Televisione, eventi e diretta
Rispetto a Netflix i broadcaster televisivi possiedono, e non devono dimenticarlo, il know how della diretta e della gestione/produzione degli eventi. Non possono certo ignorare il ruolo essenziale della fiction nel racconto dell’immaginario collettivo – secondo forme per cui le fiction stesse, in particolari condizioni, si avvicinano a diventare eventi in diretta – ma non possono in alcun modo trascurare, pena la perdita di senso, il proprio ruolo originario. La televisione è nata in diretta, e la diretta resta la natura che ne continua a giustificare l’esistenza, quale che sia la tecnologia, la forma di diffusione, la tipologia delle interconnessioni che oggi accompagnano la diretta. Tutti coloro che annunciano la morte della televisione non lo hanno capito.
Ripensare a fondo questo ruolo della televisione, e della radio, nel nuovo ambiente digitale è il compito principale del management radiotelevisivo. È chiaro che tutto questo comporta enormi responsabilità sociali e politiche. Basta pensare a quanto diventi stretta e manipolabile la relazione tra gli eventi, e il loro racconto, in occasione delle consultazioni elettorali. Oggi ha poco senso misurare tempi di presenza e strutture di palinsesto con criteri analogici, quando ormai è maturo l’uso degli algoritmi anche per definire i contenuti del telegiornale della sera. Anche senza trascurare le capacità di reazione del tessuto sociale, davvero chi governa gli algoritmi della comunicazione digitale affronta ogni giorno la tentazione del potere manipolatorio. E nessuno controlla il suo operato.
Un approccio etico alla comunicazione
Appare dunque evidente la necessità di un approccio etico alla questione. Anche questa non è una novità, ma la consapevolezza delle potenzialità dell’ambiente digitale dovrebbe aiutare a mettere da parte la tentazione, alquanto diffusa, di giudicare impossibile o inutile la ricerca del miglioramento, sperando che le cose si aggiustino da sole. O di osteggiare l’approccio etico temendo un ritorno del pensiero unico o del “grande fratello”: a spiarci oggi sono in tanti, e lo Stato etico non è certo tra i più attivi. Credo invece che anche le soluzioni liberiste pretendono, per funzionare correttamente, la presenza nell’ambiente di soggetti regolatori orientati eticamente.
Questo è, deve essere, il ruolo di un soggetto pubblico della comunicazione. Un soggetto dotato di autonomia e strumenti, autorevolezza e competenza. Nel caso italiano si può discutere cosa sia compito della RAI, cosa di AGCOM, e cosa si debba valorizzare in altre iniziative di comunicazione eticamente sensibili (per esempio, quelle di orientamento religioso). Certo è che tutte le risorse pubbliche, dal canone RAI ai contributi per l’editoria a quelli per lo spettacolo, oggi hanno senso solo se sono orientati a promuovere una presenza etica nel sistema integrato della comunicazione. Non è più solo questione, come si è discusso in passato, se la televisione pubblica debba o no essere educativa: ormai è divenuto necessario intervenire sistematicamente nei meccanismi interni della comunicazione digitale.
L’indice di coesione sociale
Se scendiamo più nel dettaglio, in casa RAI vediamo che nell’ultimo Contratto di servizio è stato inserito almeno un obbligo che va in questa direzione, o almeno che ne costituisce un presupposto, e che dubito sia stato compreso. Mi riferisco all’obbligo di misurare l’indice di coesione sociale relativo all’offerta radiotelevisiva.
Cosa può essere un indice di coesione sociale, e perché è tanto importante? Coesione sociale significa – lo ha ricordato più volte il Presidente Mattarella – capacità della società di vivere pacificamente, esercitando senza troppi scossoni il metodo democratico per decidere come governarsi, evitando che le tensioni naturalmente presenti all’interno della società degenerino creando assolute impossibilità di comunicazione interna, isterie collettive, o anche conflitti reali. Se pensiamo agli anni del terrorismo, culminati nel sequestro e nell’assassinio di Aldo Moro, rivediamo un periodo nel quale la coesione sociale venne faticosamente ricostruita anche grazie a un certo grado di unità di vedute, dai diversi punti di vista, sia tra le forze politiche sia tra i mezzi di comunicazione. Oggi la coesione politica è pressoché nulla, i mezzi di comunicazione sembrano impazziti e le tensioni sociali appaiono sempre pronte ad esplodere. Di conseguenza un contrasto attivo alle tensioni deve essere attuato, e la RAI come servizio pubblico costituisce, a causa della quantità di risorse pubbliche di cui dispone, il primo luogo a ciò delegato.
Per questi motivi sulla capacità del prodotto RAI di creare coesione sociale deve oggi misurarsi, prioritariamente, l’azienda. È possibile farlo? Sembra proprio di sì, ma è indispensabile crederci e impegnarsi per ottenere risultati.
Una nuova Auditel, orientata alla coesione sociale
Oggi, lo sappiamo, la RAI misura se stessa attraverso un meccanismo, l’Auditel, che la accomuna al mondo commerciale e che fornisce risultati non disprezzabili sulla sua capacità di restare in rapporto con il grande pubblico.
Il marketing alimentato dall’Auditel consente anche di specializzare l’offerta, di lavorare su settori specifici, perfino marginali, del pubblico. Nelle grandi linee, la proposta di aprire un canale “femminile” e uno “maschile” va in questa direzione. È un percorso che potrebbe portare vantaggi marginali in termini di audience e di introiti pubblicitari: ma è questa la missione della RAI? In realtà, disgiungere i percorsi di comunicazione televisiva tra i due sessi può tradursi in un ulteriore attacco alla coesione sociale.
Il meccanismo di misurazione dell’indice di coesione sociale dell’offerta consiste, semplicemente, nel rielaborare i dati Auditel valorizzando, insieme ai livelli quantitativi del pubblico raggiunto, l’equilibrio della suddivisione interna tra le diverse categorie di pubblico. Un programma che è visto da tutti – uomini e donne, giovani e vecchi, colti e incolti, nord e sud, est e ovest, cittadini e paesani… – in modo proporzionalmente uguale alle rispettive presenze nella società, è destinato a creare coesione sociale. Si tratta di mettere a punto nella sperimentazione attiva un modello di misurazione, già esistente, che ha il vantaggio di tenere conto prioritariamente dei livelli quantitativi del pubblico e di riparametrarli secondo la capacità di creare coesione sociale. Pensiamo cosa potrebbe essere un quotidiano indice di coesione sociale del TG1 della sera!
Dalla coesione analogica a quella digitale
Se poi questa “nuova Auditel” del servizio pubblico diventasse davvero prioritaria, prendendo il posto della vecchia Auditel, nel misurare le performance aziendali e quelle dei suoi dirigenti, ecco che la RAI avrebbe finalmente un serio argomento da contrapporre a chi ripete, come un disco rotto, che oggi non serve più un servizio pubblico pagato dal canone.
Sarebbe una misura rivoluzionaria, se si vuole, anche se in fondo toccherebbe in partenza le attività tradizionali della RAI, quelle più “analogiche”, soprattutto quelle dei grandi canali generalisti. Quelli legati alla diretta, quelli più bisognosi, possiamo aggiungere, di rivitalizzare il proprio ruolo per non essere travolti nel mondo digitale. Sviluppando la capacità di creare coesione sociale, i canali generalisti – attraverso le infinite propagazioni che essi stessi generano nei social media, propagazioni che oggi vengono intercettate, misurate e perfino orientate – combatterebbero attivamente il fenomeno delle “bolle”, le echo chambers al cui interno, sui social, si rinchiudono in se stessi i gruppi incapaci di confrontarsi con altre opinioni e di affrontare le sfide della complessità.
La misurazione della coesione sociale generata dai canali RAI sarebbe un grande e solido punto di partenza, dal quale estendere l’analisi a quello che circola in rete: perché è evidente che per sopravvivere il servizio pubblico della comunicazione, nel suo insieme, non può fermarsi al prodotto tradizionale ma è ormai costretta, a partire dal suo ruolo nell’informazione, a “sporcarsi le mani” intervenendo eticamente sugli algoritmi che ne controllano la distribuzione e ne manipolano i contenuti.